Lisa Cremaschi "Vuoi… ?"
Dal Vangelo secondo Giovanni - Gv 5,1-18 (Lezionario di Bose)
1 Dopo questi fatti, ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 2A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, 3sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. [ 4] 5Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato. 6Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?».
C’è un uomo malato da lungo tempo; è definito soltanto dalla sua malattia, non ha nome, non si dice nient’altro di lui. Vengono descritti i luoghi con grande profusione di dettagli, ma di quest’uomo si dice soltanto che è malato, da tanto tempo, da trentotto anni. Sembra rassegnato, talmente spento da non avere più la forza e il coraggio di domandare aiuto. È ridotto a pura passività. È la nostra situazione quando stiamo molto male e pensiamo che tutto sia perduto. Quest’uomo non fa nulla nemmeno per farsi notare da Gesù, non si fa portare come il paralitico di Marco 2,1-12, non chiede nulla o forse non chiede più nulla. È Gesù che lo vede con il suo sguardo di amore compassionevole, è Gesù che va da lui, gli si fa vicino e lo interroga, come se al mondo in quell’istante ci fossero solo loro due. Lo guarda, gli parla, gli pone domande per ridestare il suo desiderio. “Vuoi guarire?” (v. 6). E Gesù attende che qualcosa si muova dentro di lui.
Alcune versioni antiche subito dopo aver detto che sotto i portici della piscina di Betzatà vi era un gran numero di malati, ciechi, zoppi, paralitici, aggiungono che tutti costoro “aspettavano il moto dell’acqua. Un angelo infatti in certi momenti scendeva nella piscina e agitava l’acqua; il primo a entrarvi dopo l’agitazione dell’acqua guariva da qualsiasi malattia fosse affetto”. “Vuoi guarire?”: sembra una domanda provocatoria. Che altro starebbe a fare lì accanto all’acqua? Ma Gesù vuole che egli esprima il suo desiderio. È come se gli dicesse: “Davvero vuoi guarire?”. Quante volte diventiamo complici delle nostre malattie, delle nostre angosce, dei nostri mali; ci giustifichiamo: “Sono così, non posso farci nulla”.
Gesù rivolge una domanda diretta che chiede una risposta precisa. Nessuno può rispondere al posto di quest’uomo. Il malato risponde parlando degli altri: “Non ho nessuno …” (v. 7). Forse è vero. A volte siamo lasciati soli. La malattia è aggravata dall’isolamento. Gli altri sembrano non accorgersi che stiamo male, che abbiamo bisogno di aiuto. Ma è anche vero che spesso scarichiamo sugli altri la responsabilità del nostro star male. La colpa è sempre mezzo metro fuori di noi! La responsabilità è degli altri, è colpa del padre, della madre che ho avuto, dell’infanzia che ho vissuto, della mia storia, della vita! Io non faccio nulla, non mi metto in gioco, mi lamento e critico; sono gli altri che dovrebbero fare qualcosa per me. Tuttavia il malato ha cominciato a dire qualcosa; una goccia di vita comincia a scorrere, il processo di guarigione è avviato. C’è una porta aperta, un piccolo spiraglio attraverso il quale il malato ha espresso il suo desiderio di vivere. E Gesù gli dice: “Svegliati! Prendi la tua barella e cammina” (cf. v. 8). Il malato si fida, prende la sua barella. Per cinque volte si dice che porta la barella (vv. 8.9.10.11.12). All’inizio del racconto l’uomo “giaceva” (v. 6) in uno stato di passività, ora gli è chiesto di “portare”, verbo che indica attività. Deve muoversi, camminare. Ma perché deve portare la barella? A che cosa gli serve ormai? Non poteva gettarla via? Portare la barella è avere il coraggio di portare le proprie ferite, il proprio passato, la propria storia senza lasciarsene schiacciare; è uscire dal vittimismo e non attendere che siano gli altri a farsi carico della nostra vita; è forse anche un segno che ci ricorda la guarigione operata dal Signore. Qualcuno ci ha visti, ci ha amati, ci ha aiutato a riprendere il nostro cammino.
Dopo il dialogo con i farisei a cui non importa niente che l’uomo sia guarito (a loro, invece, importa molto che si rispetti la lettera del precetto del sabato), Gesù incontra di nuovo l’uomo guarito e gli dice: “Non peccare più perché non ti accada qualcosa di peggio!” (v. 14). È un’espressione che va letta in parallelo con l’episodio del cieco nato di Giovanni 9. La malattia non è un castigo per il peccato, ma è anche vero che in essa, come in tutti i nostri limiti (i fallimenti, le incomprensioni vicendevoli, le varie forme di morte che accompagnano la nostra vita fino alla morte fisica) vi è un segno della nostra realtà di peccato: non siamo ancora nel Regno! Dobbiamo convertirci fino al giorno in cui quella parola: “Svegliati!” ci richiamerà definitivamente dalla morte.
sorella Lisa Cremaschi
Fonte: Monastero di Bose