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Francesco Cosentino "Cantiere Sinodo Italia"

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4 febbraio 2021
  

Del Vangelo di domenica scorsa mi colpisce il conflitto che Gesù, appena annuncia la Parola, scatena nella Sinagoga e nel cuore di un uomo posseduto da uno spirito impuro. In realtà, nei racconti di Marco, ogni volta che Gesù entra nella Sinagoga succede qualcosa del genere.

C’è un apparente e paradossale binomio, che vede fronteggiarsi da una parte la tranquilla religiosità degli scribi, che insegnano una dottrina per lo più astratta e non incisiva nella vita, senza scaldare il cuore, senza offrire parole di vita e di verità a chi ascolta; e, dall’altra parte, l’insegnamento nuovo di Gesù, che ha una Parola tagliente, così diretta alla vita e così capace di sfidare gli alibi, le paure, la false certezze, il quieto vivere e le mediocrità, al punto da essere Parola che scomoda, disturba, provoca una reazione come quella dell’uomo posseduto: ma cosa vuoi da noi? Eravamo così tranquilli nel nostro culto e nei nostri riti: sei per caso venuto a rovinarci?

Tra pessimismo e immobilismo

A me pare che qualcosa del genere accada anche a noi oggi. In genere, quando la Parola scomoda non solo la nostra vita personale ma anche quella ecclesiale e ci chiede cambiamenti di rotta, sovvertimenti di schemi, ribaltamenti di prospettive e trasformazione di sogni, alziamo delle barriere per difenderci, per neutralizzarla, per renderla meno innocua. Talvolta, la difesa non ha bisogno di respingimenti espliciti e accaniti: basta tacitare, rimandare, far finta di nulla, aspettare che passi e, intanto, sotto le macerie, continuare a far finta di nulla. O – direbbe Armando Matteo – «aspettare che le cose tornino come prima» (cf. A. Matteo, La Chiesa che manca, 8).

Questo diffuso atteggiamento serpeggia talvolta nelle nostre comunità cristiane a tutti i livelli, interessando vescovi, preti, religiosi operatori pastorali. Il rischio è quello di galleggiare dentro la bolla di una contraddizione: tutti vedono che le cose non vanno, ma quando si tratta di cambiarle nessuno vuole farlo più. Laddove il «tutti vedono» rischia semplicemente di dar voce a quello che papa Francesco ha chiamato «senso di sconfitta, che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati, dalla faccia scura» (Evangelii gaudium, n. 85), mentre la paura di cambiare genera l’immobilismo spirituale e pastorale.

Un Sinodo per ripartire

I problemi, nella Chiesa italiana, non mancano, certamente oggi accentuati dalle condizioni post-Covid, che stanno rimescolando la vita delle persone e pongono alcuni interrogativi alla nostra azione pastorale. Non mancano neanche le lamentele per le cose che dovrebbero cambiare e, allo stesso tempo, quell’alibi di sottofondo che accompagna questo sentimento di insoddisfazione e che ci fa spostare sempre in avanti il giorno in cui questo cambiamento deve effettivamente iniziare a realizzarsi.

In questo oscuro luogo delle solitudini e delle frustrazione di una Chiesa che porta sulle spalle e con fatica un compito oggi diventato più complesso, la voce di papa Francesco non smette di inquietare, di provocare, di scuotere le nostre abitudini consolidate, di spezzare il circolo chiuso di certi nostri schemi pastorali ed ecclesiali e, soprattutto, di invitarci a immaginare con creatività strade nuove. E l’invito che rivolse a Firenze, al Convegno della Chiesa Italiana, in questi giorni ha sentito il bisogno di ripeterlo con tono più deciso: questo è il tempo in sui si deve fare un Sinodo della Chiesa italiana, comunità per comunità. Perché questo invito, dopo anni, rimane inascoltato?

Tre questioni intorno al Sinodo

La domanda appare perfino retorica, considerata quell’abitudine al «quieta non movere» di cui parlavamo sopra e che, con tagliente ironia, è stata anche proposta sotto forma di lettera da Gabriele Cossovic. Piuttosto è importante capire come questo invito di Francesco va raccolto e su quali aspetti si potrebbe cominciare ad aprire un cantiere di lavoro.

Anzitutto, è importante chiarirsi subito: il Sinodo implica una vera dimensione interiore e spirituale «sinodale», cioè l’autentica attitudine al dialogo, che sottintende un comune punto di partenza: siamo in cammino alla ricerca della verità e nessuno, neanche da posizioni gerarchiche particolari, ha soluzioni in tasca. Ciò apre a un confronto vero e a scelte significative che si concretizzano nella reale vita ecclesiale, onde evitare di pensare al Sinodo – come troppe volte è già accaduto – come un’assemblea dove per l’ennesima volta si mette in piedi un apparato strutturale – con tanto di temi, slogan, argomenti, relatori, cartelline colorate e badge di ogni tipo – e poi tutto resta come prima.

Secondo aspetto: Sinodo significa avviare un cammino di ascolto reciproco e di dialogo tra tutti i battezzati, tra tutti i membri del Popolo di Dio e tra tutti coloro che, a prescindere dalle frettolose categorie con cui li etichettiamo vicini o lontani, desiderano interrogarsi in qualche modo su Dio, sul nostro tempo, sulla vita e sulla morte in tutte le loro rispettivi appendici. Il Sinodo non è la convention dei vescovi o dei preti o degli addetti ai lavori, ma l’espressione viva di una Chiesa-comunione in cui si cammina insieme: «Popolo e pastori insieme – disse papa Francesco a Firenze – per interpretare e non subire il cambiamento».

Terza questione: il Sinodo va accolto e vissuto come una possibilità per vivere una sfida culturale, oggi più urgente che mai. Quando fu Padre Spadaro a lanciare la pietra nello stagno, parlò della necessita di «leggere la nostra storia d’oggi e fare un discernimento». Dunque, un Sinodo per dialogare non solo ad intra, ma per avanzare insieme nella lettura del nostro tempo e delle sue sfide, cosicché l’annuncio del Vangelo non sia mai separato dalla cultura in cui è chiamato a incarnarsi.

E, qui, occorre evitare il rischio paventato da Giuseppe Lorizio dalle colonne di  SettimanaNews: attenzione a non ripetere l’errore di pensare alla «cultura» pensando semplicemente alle elite accademiche e agli specialisti del settore. Esiste una «cultura della strada», una cultura del vissuto quotidiano e reale, che bisogna ascoltare e cui occorre dar voce. Solo così, afferma Lorizio, si può «rivitalizzare la valenza culturale del kerygma, coinvolgendo energie, risorse e persone non solo disponibili, ma soprattutto competenti e appassionate ad un cammino di nuova evangelizzazione».

Un cantiere di lavoro: quali temi per un Sinodo?

Poste le tre questioni, sarebbe importante aprire un cantiere di lavoro. Sarebbe bello se le comunità cristiane iniziassero ad avanzare delle proposte, non elaborando idee astratte per un convegno perfetto, ma semplicemente interrogando le proprie difficoltà e le proprie speranze. Sarebbe bello se i preti e i vescovi, come pastori in mezzo al loro popolo, si facessero compagni attenti di questo sapienziale cammino di discernimento, offrendo il prezioso contributo di uno sguardo «altro» che, nella sua diversità, non si contrappone ma si completa con l’altro.

Da un cantiere simile – lo possiamo immaginare – non potrebbero non emergere alcune questioni urgenti: la grave crisi della catechesi dell’iniziazione cristiana; l’assenza dei giovani e le difficoltà legate alla trasmissione della fede; il rinnovamento della eccessiva «stabilità» della parrocchia in un mondo che ha inaugurato stili di vita mobili, fluidi, veloci e plurali; la sfida della centralità della Parola di Dio, spesso marginalizzata da un agire pastorale «sacramentalizzato» e da forme di cristianesimo eccessivamente devozionistico e sentimentalista; una nuova riflessione sul ministero e sulla formazione del presbitero e sui ministeri nella comunità cristiana; una seria riflessione sul ruolo della donna nella Chiesa e sull’accompagnamento di tutte le situazioni esistenziali ferite, oltre il muro di una religiosità legalista che «scaglia pietre» e oscura la fede che si fa compagna solidale con l’umano.

Sui questi e altri temi, come sta la Chiesa italiana? Quali cambiamenti attuare, quale strada da percorrere, quali possibilità nuove si aprono in un tempo come questo? Sarebbero solo alcune delle questioni. Il cantiere è aperto e speriamo si aggiungano operai entusiasti di iniziare un cammino di rinnovamento.

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