Rosella De Leonibus "Il costo psicologico della pandemia"
Con l’espressione
«traumatico» noi
designiamo
un’esperienza che
nei limiti di un breve lasso di tempo
apporta alla vita
psichica un incremento di stimoli
talmente forte che
la sua liquidazione
o elaborazione nel
modo usuale non
riesce, donde è giocoforza che ne discendano disturbi
permanenti nell’economia energetica della psiche.
(Sigmund Freud)
Nella nostra vita quotidiana di solito percepiamo (o meglio percepivamo), anche senza accorgercene, un sentimento complesso,
che si chiama «senso di mastery». Mastery vuol dire padronanza, quella sensazione di avere una certa
possibilità di controllo sulla realtà. Quel
sentimento che ci permette di progettare
con successo le nostre azioni e le nostre
scelte.
«Il mondo reale esiste solo nella presunzione costantemente prescritta che l’esperienza continui costantemente nel medesimo stile costitutivo», scriveva Edmund
Husserl, nelle sue Meditazioni cartesiane.
La pandemia ha disarticolato e alterato la
linearità dell’esperienza, la presunzione
dell’aspettativa attesa, ha disarticolato il
mondo reale per come lo viviamo. Questo
tipo di esperienza genera un alto livello di
stress, e rappresenta una situazione potenzialmente traumatizzante.
dallo stress al trauma
La reazione del nostro organismo a simili
situazioni è la «Risposta acuta da stress»,
cioè una attivazione psicofisica intensa,
che richiede un certo lasso di tempo per
diminuire, calmarsi ed estinguersi. Il nostro sistema di sopravvivenza, il sistema
nervoso autonomo (l’ortosimpatico e il
parasimpatico e la loro reciproca modulazione), entrano in azione in caso di minaccia.
Si attivano fisiologicamente tutte le risorse (biologiche, emotive, psicologiche, relazionali, affettive, sociali) dell’essere vivente, legate alla sua sopravvivenza e al suo
benessere. Queste risorse possono essere descritte come «ombrello» di resilienza.
La «Risposta acuta da stress» è allora la
normale risposta fisiologica ad un evento
abnorme. Ed è capace di attivare un processo di resilienza, una risposta adattiva
potente e versatile, che previene in molti
casi la traumatizzazione. Se durante lo stato di crisi acuta la resilienza viene spezzata, si instaurata la traumatizzazione con
tutto il suo corteo sintomatologico, cioè il
disturbo da stress post-traumatico o Ptsd.
Le scienze della psiche hanno quantificato con precisione queste risposte. Se all’inizio abbiamo una Risposta acuta da stress,
che presto si normalizza, tutto torna a posto. Ma se i disturbi durano fino a 30 giorni subentra uno stato disadattivo più permanente, che è il Disturbo acuto da stress,
Se poi i pensieri intrusivi, gli evitamenti,
le alterazioni del sistema nervoso autonomo e la disregolazione emozionale (sentimenti di rabbia, paura, tristezza, vergogna,
senso di colpa) persistono oltre i 30 giorni, siamo in pieno nel Disturbo da stress
post-traumatico (Ptsd). Questo disturbo è
capace di alterare profondamente la nostra esistenza, e di permanere per anni e
anni nella psiche, fino a che il trauma non
sarà stato elaborato. Ma intanto avrà influenzato la nostra vita, gli affetti, le scelte, l’immagine di noi stessi, e ci avrà precluso molte esperienze di tipo esplorativo,
consolidando un sentimento di fondo di
fallimento e insicurezza.
Bisogna sottolineare qui con forza che risultare traumatizzati non è un segno di
debolezza psicologica: «Ognuno di noi ha
il suo punto di frattura» come dice Onno
van der Hart, che viene raggiunto e soverchiato dall’insieme dell’esperienza traumatizzante in corso. La possibilità del trauma riguarda la condizione umana, come
il tallone vulnerabile del grande guerriero
greco Achille. Non esiste nessuna dicotomia tra forti e deboli.
In questa ottica la traumatizzazione arriva quando sono state oltrepassate le capacità di resilienza: un cocktail dove l’evento
entra in contatto con la situazione del
momento, le vulnerabilità della persona
(sia quelle precedenti all’evento, sia quelle
attivate dall’evento stesso) e le sue risorse
disponibili (fisiche, psicologiche, relazionali, sociali, ambientali) in quel preciso
istante.
Un evento diventa traumatizzante se soverchia la possibilità di adattarsi alla stimolazione eccessiva insita nell’evento stesso. Si vive il trauma se l’evento sovrasta ed
annienta la resilienza dell’individuo, che
vive questo peculiare stato come annichilimento, impotenza totale, come essere in
totale balìa di quel che accade senza poterne avere alcun controllo, come se la
volontà fosse stata sopraffatta per sempre
da parte dell’evento.
siamo tutti a rischio di Ptsd?
Se l’evento traumatico è prolungato o ripetuto nel tempo, se le nubi all’orizzonte
non accennano a schiarirsi, se il livello di
stress a cui siamo stati acutamente esposti con la pandemia non sta calando, alcune persone (una quota non marginale,
come si rileva dalle ricerche svolte di recente) entrano in una condizione di traumatizzazione e sono fortemente a rischio
di sviluppare un disturbo da stress acuto
oppure anche un Ptsd. Se Sparta piange,
Atene non ride, dicevano gli antichi: anche se la maggior parte di noi non svilupperà un vero e proprio disturbo, tutti siamo immersi in una difficoltà reale e umana, fatta della fatica psicologica quotidiana che sosteniamo per adattarci a condizioni pesanti e imprevedibili, a eventi abnormi (perdita della qualità del tempo libero, incertezza sul futuro, emergenze,
malattie, lutti, impoverimento) non usuali, di difficile decifrazione. Svilupperemo
allora, se non li abbiamo già messi in atto,
dei problemi di adattamento. Il nostro funzionamento medio continua, ma si deforma, si logora, e diventiamo passo passo più
irritabili, più pessimisti, meno capaci di far fronte creativamente ai problemi, tenderemo ad arrenderci, a rinunciare e chiuderci, piuttosto che tentare soluzioni nuove, saremo scoraggiati e ci sentiremo inermi. Oppure entreremo in un processo di
negazione, sembreremo convinti che il
pericolo non esista, o che qualcuno lo abbia inventato per oscuri fini, e ci comporteremo in un modo che la psicologia conosce bene, la «manovra controfobica»,
dove a fronte di una paura che non voglio
ammettere a me stesso, mi comporto in
modo spavaldo e assurdo correndo rischi
tanto inutili quanto gravi. Altra possibilità: mi sommergono le ossessioni, sono costantemente in allerta, rinuncio a vivere
per barricarmi nel mio circuito difensivo
fobico o paranoide, e divento aggressivo
nei confronti di chi si comporta in modo
più sensato e più libero, sentendomi giustificato nella mia acrimonia dalla certezza che io sono nel giusto e gli altri invece
sono tutti pericolosi incoscienti, se non criminali.
«Quando non è possibile resistere né fuggire, il sistema umano di auto-difesa viene sopraffatto e si disorganizza. Ogni
aspetto della normale risposta al pericolo,
avendo perso la sua utilità, tende a permanere in una modalità alterata ed amplificata per molto tempo dopo che l’effettiva
situazione di pericolo è terminata», afferma Judith Herman.
Il Ptsd (disturbo da stress post traumatico), la risposta più sofferente alle esperienze traumatiche, è stato studiato in particolare su soggetti provenienti da contesti
di guerra. La vita si spezza in due parti,
prima e dopo il trauma. Entra in crisi il
senso di stabilità di un individuo, si instaura uno stato di costante mancanza di sicurezza, che sembra insuperabile. La sensazione di non avere luoghi protetti o sicuri
dove poter rilassare la mente e trovare ristoro, che oggi è tragicamente reale, diventa talmente pervasiva da produrre uno stato di profonda stanchezza psichica, che
può venire scambiata per uno stato depressivo. Non c’è riparo neanche negli affetti,
perché manca la capacità di investirvi energia, e le relazioni si deteriorano, fino al ritiro sociale.
Nella situazione attuale, poiché la pandemia interessa tutto il pianeta e durerà con
ogni probabilità ancora un altro anno abbondante, non esiste un luogo sicuro ove
rifugiarsi, anche solo col desiderio, né un
orizzonte temporale prevedibile oltre il
quale si immagina che lo sforzo da sostenere possa attenuarsi. Le conseguenze sulla qualità della vita degli abitanti del pianeta Terra stanno diventando già evidenti,
sia in termini di costi economici che di
costi sociali, che di emozioni negative di
lungo termine vissute da tutti noi. Le sequele più pesanti non saranno a carico tanto della generazione adulta, che possiede
comunque sistemi maturi in media abbastanza efficaci di decodifica della realtà,
ma ricadranno sulle generazioni più giovani, che negli anni della maturazione del
loro sistema nervoso avranno accumulato
una esperienza di decodifica della realtà
fatta di incertezze e interruzione delle loro
ruotine, frustrazione, impoverimento della socialità, limitazione delle funzioni
esplorative e soprattutto del peso dato dal
clima emotivo generale di paura e sfiducia.
pratiche di resilienza collettive
Poiché «i traumi producono i loro effetti
disgregatori in proporzione alla loro intensità, durata e ripetizione» (Pierre Janet), è
evidente come, accanto ai provvedimenti
di sostegno economico, sia necessario immaginare presto, prima che queste male
arie si diffondano troppo, una azione grande e creativa, nuova e potente, di sostegno
psicologico alla collettività. Bisogna pensare in grande: esperienze di narrazione
collettiva, per dare parola al vissuto traumatico, testimonianze di resilienza, per
creare occasioni collettive di identificazione al positivo, sostegno alla creatività e al
problem solving in tutte le direzioni che
rendano possibile una socialità non affollata e non pericolosa per i contagi, esperienze di peer education per sviluppare
l’empatia e soprattutto la solidarietà, favorire la circolazione di beni e servizi non
definita dalle leggi del mercato, la ricostruzione di nuove reti sociali per le nuove e
terribili solitudini, sviluppare potenti antidoti comunicativi al distanziamento fisico e alla mancanza di contatto corporeo, e
molto altro; tutto ciò che ci possa servire,
come persone e come comunità sociale, ad
adottare qualcosa che assomigli alla calma serafica e alla curiosità attiva con cui
il navigatore satellitare, mentre ci lanciamo in inutili esternazioni per la strada sbarrata che troviamo sul nostro cammino,
continua a dirci con voce suadente, tante
volte quante serve, «Ricalcolo», «Ricalcolo», «Ricalcolo», fino a che non ha trovato
la strada per uscire dall’impasse, a costo
di tornare indietro di dieci chilometri.
un nuovo modello di humanity
Si tratterà di lavorare tutti insieme, educatori di comunità, psicologi, sociologi,
antropologi, psichiatri, operatori sociali,
scienziati e tanti altri, per costruire un
modello di humanity in gran parte nuovo, cosciente della dimensione di interconnessione planetaria nella quale viviamo. E capace di sostenerci mentre speriamo di oltrepassare la tempesta, senza
doverci aggrappare per forza ai relitti delle abitudini, alle pratiche sociali che ci
avevano prima rassicurato, lasciando invece che la tempesta ci cambi, ci mostri
la trama di cui era fatto questo mondo che
il virus ha messo a soqquadro, e ci permetta tesserne una migliore, più inclusiva, più solidale, più parca, più rispettosa
del pianeta in cui ancora vogliamo vivere
in pienezza.