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Cura e responsabilità. Il male che può essere vinto

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Teresa Bartolomei
 
quindicinale online della rivista Vita e Pensiero. 
7 novembre 2020 

Viviamo in tempi non facili, minacciati non solo dalla storia (e dalla pandemia), ma anche dall’agonia della terra, asfissiata dalla cappa di ozono che la racchiude come un gigantesco sacchetto di plastica, impalpabile e letale, che si stringe lentamente, fino a toglierle il respiro… 

La violenza umana deturpa ormai non solo la società, ma la natura, e la pulsione omicida che la genera si converte in minaccia suicida: nel declino drammatico della biodiversità è la sopravvivenza stessa del genere umano che è a rischio, anche se la maggioranza di noi non sembra ancora accettare il fatto che un cambiamento radicale di modelli di vita violenti ed ecocidi è urgente, non ulteriormente rinviabile. Perché tanta indifferenza? Perché questa resistenza a fare i conti con una realtà che pure riguarda tutti noi direttamente? Se è più che mai necessaria una riflessione critica sulle cause politiche ed economiche che bloccano o quantomeno rallentano l’adozione di scelte personali e collettive ‘ecofile’ e sostenibili, non è meno necessaria un’analisi spassionata dei fattori culturali che contribuiscono non solo al comportamento ecocida del genere umano ma a questa massiccia autoanestetizzazione in relazione alle sue conseguenze. I cristiani, in particolare, devono interrogarsi su sé stessi, sul proprio patrimonio teologico e sulle precomprensioni religiose ad esso associate, cercando di identificare in esso positivi indirizzi di azione e di lettura dei segni dei tempi validi per tutti, così come pregiudizi e perversioni della Parola di Dio che hanno condizionato negativamente il rapporto con il creato costruito da due millenni di civiltà profondamente modellata dal cristianesimo. 

Un percorso fondamentale di questo esercizio di autoriflessione criticamente costruttiva e purificatrice è il ‘ritorno alle fonti’, la lettura diretta della Parola di Dio trasmessa dalle Scritture, e in questo contesto la storia di Noè, l’“ultimo uomo” che incontriamo in Genesi 6-9, si dimostra straordinariamente ricca di prospettive illuminanti sul presente e sugli errori del passato in relazione alla necessità di una conversione individuale e collettiva da una falsa coscienza ecocida ad una autentica coscienza ecologica. 

Certo, la coltre leggendaria del racconto illeggiadrisce e al tempo stesso diluisce nella distanza fantasiosa del fiabesco la cupa atmosfera apocalittica della situazione narrata, quella di un collasso morale di un’intera civiltà che comporta la distruzione dell’habitat naturale, la quasi estinzione dell’umanità e delle specie animali. Nella memoria pigra di chi non frequenta regolarmente la Bibbia, non sembra possibile che la chiave del rapporto ermeneutico con “l’ultimo uomo”, il patriarca chiamato a compiere una meravigliosa impresa di salvezza della vita umana ed animale sulla terra devastata da una immane catastrofe ecologica, possa essere quella della diretta identificazione morale e spirituale. 

E invece, contro ogni aspettativa, riprendere in mano oggi queste pagine ancestrali dà il brivido del riconoscimento: quello di una fiaba crudele (tutte le fiabe sono dense di morte e violenza) che diventa realtà. La responsabilità umana della crisi ecologica è univoca nel racconto (in cui Dio è agente e non autore della distruzione), così come il messaggio che nessun miracolo, nessun diretto intervento divino può scongiurare la rovina totale. La sopravvivenza della vita sulla terra, evidenzia il racconto, può essere garantita solo da un impegno consistente, coerente, tenace dell’uomo; da un cambiamento radicale di abitudini e di mentalità (la costruzione di ‘arche’: nuovi modelli di convivenza con le creature); da un nuovo patto con tutti gli esseri viventi, in cui essi vengano ad essere considerati non risorse da sfruttare ma “compagni” da rispettare e verso cui assumere la responsabilità di “guardiani”. Nella crisi gravissima che mette a rischio il futuro della vita sulla terra e della stessa umanità, la via d’uscita possibile si costruisce insomma - come illustrato dal paziente impegno pedagogico di Dio a fianco dell’uomo – unicamente nel ripensamento profondo del proprio modello di civiltà. È necessario il superamento di strutture sociali ed economiche improntate alla violenza e alla dominazione interumane e intercreaturali, al fine di costruire un’architettura sociale non univocamente antropica ma inclusivamente creaturale, sancita solennemente come un patto universale che include tutti gli esseri viventi, accogliendoli in un rapporto di amicizia e corresponsabilità e non più di reificazione e mero sfruttamento. 

La “teologia dell’ecocidio” presentata dalle pagine bibliche su Noè, si presenta perciò come uno sviluppo significativo e necessario della tradizionale “teologia della creazione”, promuovendo un distanziamento critico dagli errori e dalle conseguenze di quella funesta “teologia della maledizione” (dell’inimicizia tra l’uomo e il creato come frutto della colpa originale), che una lettura culturalmente condizionata del racconto biblico della “caduta” le ha associato per secoli, inquinandone il messaggio. Solo purificando la teologia della creazione dalla teologia della maledizione, ci suggerisce la teologia dell’ecocidio elaborata dalle pagine di Genesi 6-9, sarà possibile mettere in pratica quel patto della seconda creazione tra Dio e l’uomo, in cui la vita sulla terra è messa al riparo dall’estinzione. 

Il futuro della vita della terra è nelle mani dell’uomo, e la tentazione di proiettare sul creato, come inimicizia di una natura condannata, la violenza che l’uomo sempre di nuovo torna a scegliere è una fuga ideologica dalle nostre responsabilità di guardiani del Creato. Purificare la nostra autocomprensione teologica è un impegno più che mai urgente: è il piccolo, grande contributo del lettore della Bibbia nella costruzione di quell’arca di salvezza a cui, dal fondo della notte dei tempi, Noè non cessa di lavorare.

Teresa Bartolomei (1959), docente e ricer­catrice presso la Facoltà di Teologia dell’U­niversità Cattolica di Lisbona, ha studiato Filosofia del linguaggio alla Sapienza di Roma con Tullio De Mauro e alla Goethe-Universität di Francoforte con Karl-Otto Apel. Ha pubblicato saggi di etica, religio­ne e letteratura, così come narrativa breve, in riviste italiane, francesi e portoghesi, e in Germania per Campus Verlag.
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