Massimo Recalcati "Ed io avrò cura di te"
Ed io avrò cura di te
Ne La peste Albert Camus descrive l’esperienza della malattia e della morte nella forma estrema di
una epidemia pestilenziale. Il pastore della città invasa dalla peste tiene due prediche in due diversi
momenti dell’ondata epidemica. Una all’inizio quando la curva del contagio ha appena iniziato la
sua tremenda impennata; l’altra nel suo punto più alto quando i morti hanno prevalso sui vivi e
l’avvenire è diventato pesantemente incerto. Nella prima predica Paneloux parla dal pulpito in una
chiesa gremita di fronte ad un popolo impaurito e smarrito. La sua voce è forte e ammonitrice ed
impone una lettura teologica della peste fondata sul principio della maledizione: il male che ci ha
colpiti non è affatto estraneo al male che abbiamo fatto. La peste è il flagello che Dio ha scatenato
contro l’uomo affinché l’uomo possa comprendere la gravità dei suoi peccati. È la frusta con la
quale Dio richiama l’uomo alle sue responsabilità. Se la peste semina morte tra gli uomini è per
riportarli sulla retta via. Non è semplicemente una terribile malattia quanto un giusto castigo, un
segno della provvidenza che spetta agli uomini riconoscere e accettare al fine di redimere i propri
peccati.
In questa prima predica la violenza della peste acquista un significato teologico rivelando da una
parte la natura spietata della giustizia divina e, dall’altra, quella irrimediabilmente peccaminosa
dell’uomo. Il principio che è alla base della sua interpretazione è quello di una concezione
rigidamente proporzionale e retributiva della giustizia di Dio: più l’uomo è cattivo e più severa è la
sua punizione. Ma se fosse come il prete ha raccontato al suo popolo terrorizzato non dovrebbe
esistere il dolore e la morte dell’innocente. Solo il malvagio dovrebbe assaggiare la frusta di Dio,
solo il colpevole dovrebbe essere sanato attraverso la sofferenza. Ma i conti chiaramente non
tornano. È lo scandalo che s’incarna nel grido di Giobbe: perché il giusto è colpito nonostante la sua
santità? Perché non c’è alcun rapporto tra il bene fatto e il male subito? Perché anche il giusto e
l’innocente possono cadere sotto i colpi del male?
Tra la prima e la seconda predica la peste ha falcidiato la popolazione senza distinguere tra giusti e
colpevoli. La sua furia maligna ha colpito ciecamente, senza distinzioni. Ma tra la prima e la
seconda predica il Padre ha visto morire tra le sue braccia, in una lenta e straziante agonia, un
bambino. Questa esperienza ha demolito traumaticamente la teologia della maledizione che aveva
ispirato la prima predica: Dio non può volere la morte di chi non ha colpe, il dispositivo della
giustizia retributiva che proporziona la punizione al male commesso viene bruscamente demolito
dalla tragedia del dolore e della morte dell’innocente. Per la seconda volta il Padre convoca il suo
popolo prendendo la parola «in un giorno di gran vento» e in una chiesa «fredda e silenziosa». La
morte ha decimato la popolazione, la gente teme di uscire di casa vivendo impaurita e confinata nel
chiuso delle proprie abitazioni. La voce del prete appare «più dolce e riflessiva», le sue parole non
hanno più alcun tono di rimprovero; non dice più «voi» ma «noi». Il suo ragionamento sovverte uno
ad uno i principi teologici che avevano ispirato la sua prima predica: non è vero che la peste ha un
significato morale, non è vero che in essa si manifesta la volontà di Dio, non è vero che è la sua
punizione inflitta agli uomini per i loro peccati, non è vero che è un segno della provvidenza. La
sola cosa vera è che la peste è un male "inaccettabile" che porta la morte ovunque e che la nostra
ragione non è in grado di spiegare perché la sua violenza resta in se stessa inesplicabile, illeggibile,
senza ragione. Mentre allora nella prima predica l’accento cade su Dio e sulla giustificazione
teologica della peste, ora invece cade sull’uomo: se non possiamo spiegare l’evento assurdo e
inaccettabile della peste c’è almeno qualcosa che possiamo imparare e che possiamo fare di fronte
al trauma senza senso del male, del dolore e della morte? Al piano astrattamente teologico della
prima predica subentra quello etico della seconda, al piano della maledizione quello della cura.
Questo male ci rende responsabili in modo profondamente differente da come la responsabilità
dell’uomo veniva descritta nella prima predica. In quel caso era la responsabilità di aver compiuto il
male e di avere conseguentemente scatenato la violenza di Dio. Ma nella seconda predica Dio si è
allontanato dall’uomo lasciandolo solo di fronte al carattere spietato non della sua giustizia, ma
della sofferenza in quanto tale.
Dunque, cosa fare? È qui che le parole del Padre illuminano il presupposto di ogni esperienza
umana della cura. Egli racconta come durante la grande pestilenza di Marsiglia degli ottantuno
religiosi presenti nel convento della Mercy solo quattro sopravvissero alla peste. E di questi quattro
tre fuggirono per salvare la loro vita. Ma almeno uno fu capace di restare. È questa l’ultima parola
che il padre consegna ai suoi fedeli: essere tra quelli che sanno restare. Saper restare è
effettivamente il nome primo di ogni pratica di cura. Significa rispondere all’appello di chi è
caduto. In termini biblici è ciò che illumina la parola «Eccomi!» che rende umana la cura umana
non abbandonando nessuno alla violenza inaccettabile del male. Non dando senso al male ma
restando accanto a chi ne è colpito.