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Alberto Maggi "Non abbiate paura di cambiare"

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Chi resiste, chi rimane attaccato al vecchio, rischia di non accorgersi di quel che continuamente nasce. Per questo il vangelo preme perché l’uomo si apra al nuovo, all’azione dello Spirito “che fa nuove tutte le cose”. In una fase di grande precarietà e timore per il futuro, in cui ci si sente frenati, ilLibraio ospita la riflessione del biblista Alberto Maggi: “Solo chi è capace di rompere con il passato e aprirsi al nuovo, può inserirsi e collaborare alla stessa azione creatrice di Dio. Quanti s’inseriscono in questo dinamismo vitale, scoprono che le difficoltà diventano opportunità, e gli ostacoli occasioni…”

PERCHÉ CAMBIARE?

“Perché cambiare? Si è sempre fatto così!…”. Questa obiezione è la pietra tombale con la quale si cerca di bloccare sul nascere ogni proposta di rinnovamento e, in nome di quel che si è fatto in passato, si resiste strenuamente a ogni cambiamento. I grandi personaggi del passato, quelli che hanno inciso indelebilmente nella storia dell’umanità, segnandone il percorso e arricchendola con la loro presenza, lo sono stati perché, contro tutto e tutti, hanno osato cambiare, rischiare, andando incontro all’incognito.

Come Abram, sconosciuto personaggio che viveva tranquillo nella sua terra, Carran, nell’immensità della pianura dell’Alta Mesopotamia. Abram aveva già settantacinque anni e la sua esistenza poteva considerarsi ormai conclusa. È vero, non aveva avuto figli, ma ormai lui e Sara, sua moglie, si erano rassegnati a questa condizione e non pensavano più di poter avere una discendenza. Eppure, il Signore irruppe nella vita dei due anziani, chiese loro di lasciare tutto, la terra, la sicurezza, e avventurarsi verso l’ignoto: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò” (Gen 12,1). Abram si fidò, “partì senza sapere dove andava” (Ebr 11,8), lasciò tutto, ma trovò molto di più: terra e, soprattutto, l’ormai insperata discendenza (Gen 11-17). Secondo la Bibbia, Abram e Sara sono stati i primi personaggi storici ad aver creduto in quel Dio la cui identità e attività sono formulate nell’assicurazione “C’è forse qualcosa d’impossibile per il Signore?” (Gen 18,14), che accompagna la storia d’Israele, da Abram a Maria di Nazareth (“Nulla è impossibile a Dio”, Lc 1,37).

Anche a Mosè l’incontro col Signore cambiò radicalmente l’esistenza. Ricercato dal faraone, che voleva la sua morte per l’assassinio di un Egiziano (Es 2,11-15), Mosè si era rifugiato nella lontana regione di Madian, in Arabia, e lì si era ben sistemato, sposando Sipporà, figlia del sacerdote Ietro, benestante possidente di bestiame. Mosè e la moglie avevano due figli, Gherson e Elièzer, e probabilmente altri ne sarebbero arrivati, e poteva considerare la sua esistenza ormai tranquilla, senza aspettarsi alcuna novità. Il Signore, invece, irruppe nella vita di Mosè e la stravolse, incaricandolo di liberare il popolo ebraico ridotto in schiavitù. Mosè non fu entusiasta della missione ricevuta… lui, ricercato per omicidio, che doveva affrontare nientemeno che il faraone, colui che era considerato una divinità. E accampò delle scuse, tra le quali la sua evidente balbuzie (“sono impacciato di bocca e di lingua”, Es 4,10); ma per il Signore, che “ha dato una bocca all’uomo”, non era certo un problema e incaricò Aronne, fratello di Mosè, di essere il suo portavoce. E quando Mosè si scoraggiò, di fronte all’enormità del compito che lo attendeva, Dio lo rassicurò: “il braccio del Signore è forse raccorciato?” (Nm 11,23). E così, “Mosè prese la moglie e i figli, li fece salire sull’asino e tornò nella terra d’Egitto” (Es 4,20), dove iniziò la sua opera di liberazione del popolo dal faraone.

Dall’esperienza di liberazione dalla schiavitù, Israele comprese che il suo Signore è sempre dalla parte degli oppressi e mai da quella degli oppressori (Es 22,20; 23,9), ma questa fede sembrò vacillare quando, per le traversie della storia, gran parte del popolo ebraico fu deportato da Nabucodonosor a Babilonia, dopo il primo assedio di Gerusalemme, nel 597. Gli ebrei avevano perso tutto: il regno, che Dio aveva promesso a Davide che sareb­be durato in eterno, la terra promessa, la certezza di essere il popolo eletto, ed entrò in crisi anche la fede in un Dio che li puniva per i peccati dei loro padri. Tra i deportati c’era anche un sacerdote, Ezechiele. Uomo del culto, della tradizione, Ezechiele aveva svolto regolarmente la sua funzione sacerdotale finché l’evento traumatico della deportazione lo strappò dalla sua Gerusalemme. In terra pagana, lontano dal tempio e dalle sue stupende liturgie, Ezechiele anziché deprimersi, rinacque, come se la sua autentica identità attendesse questo evento per manifestarsi. E lì avvenne la sua profonda trasformazione, ed Ezechiele da sacerdote, uomo del rito, divenne profeta, uomo della parola; era abituato a incensare il Signore nel tempio e lo ritrovò invece nella vita del suo popolo. E l’austero sacerdote si convertì in un cantastorie, pur di far giungere a tutti la parola del Signore: “tu sei per loro come una canzone d’amore: bella è la voce e piacevole l’accompagnamento musicale” (Ez 33.32). E anziché avere rimpianto per il passato, Ezechiele invitò i deportati a guardare il nuovo, la realtà, al punto che, per il profeta, l’attaccamento nostalgico a Gerusalemme, al tempio, alla patria, diventano solo idoli dai quali invita il popolo a liberarsi (Ez 14,1-11).

Quando l’incontro con Dio è autentico e non immaginato, questo cambia per sempre l’esistenza delle persone, perché in ognuna di esse il Signore fa fiorire il suo progetto d’amore. Il criterio che la Scrittura offre, sull’autenticità dell’incontro con il Signore, è che questi non lega gli uomini a sé, ma li proietta fuori, non assorbe le persone, ma comunica loro la sua stessa forza: Il suo ordine è “Vai!”, e non “Vieni!…”. Ne sa qualcosa il profeta Elia, “che camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb” (1 Re 19,8) per incontrare il Signore e restare da solo, intimamente, con lui. Ma, a quanto pare, il Signore non gradì questo trasporto mistico e per ben due volte gli chiese “Che cosa fai qui, Elia?” (1 Re 19,9.13), per poi rimandarlo dalla sua gente: “Su, ritorna sui tuoi passi…” (1 Re 19,15).

La fiducia nella continua azione creatrice di Dio accompagna tutte le vicende del popolo dell’antica alleanza, forte della promessa del Signore: “È forse la mia mano troppo corta per riscattare oppure io non ho la forza per liberare?” (Is 50,2; 59,1), e apre quelle della nuova, dal “Nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37), a “Tutto è possibile a Dio” (Mc 10,27; Lc 18,27). Quel che, infatti, accomuna questi personaggi è stata la fede (Eb 11,8); si sono fidati e affidati allo stimolo vitale che li spingeva con forza a rompere con quel che erano per diventare nuove persone e il Nuovo Testamento si apre con Giovanni il Battista che, figlio del sacerdote Zaccaria, avrebbe dovuto continuare come il padre il servizio nel tempio di Gerusalemme. Ma Giovanni, “colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre” (Lc 1,15), rompe con la tradizione sacerdotale paterna, con il tempio, con Gerusalemme, e nel deserto inizia la sua opera di “ricondurre i cuori dei padri verso i figli” (Lc 1,16), il passato verso il nuovo, preparando la strada a Gesù e al suo invito alla conversione (“Convertitevi e credete al vangelo”, Mc 1,14), al cambio indispensabile perché l’uomo realizzi pienamente se stesso.

Chi resiste, chi rimane attaccato al vecchio, rischia di non accorgersi di quel che continuamente nasce. Per questo il vangelo preme perché l’uomo si apra al nuovo, all’azione dello Spirito “che fa nuove tutte le cose” (Ap 21,5). Solo chi è capace di rompere con il passato e aprirsi al nuovo, può inserirsi e collaborare alla stessa azione creatrice di Dio. Quanti s’inseriscono in questo dinamismo vitale, scoprono che le difficoltà diventano opportunità e gli ostacoli occasioni. Sta all’uomo non scoraggiarsi mai di fronte alle inevitabili avversità che l’esistenza presenta, saper accogliere le sfide e le proposte della vita, e trasformare quel che per molti non è neanche possibile immaginare, in realtà, perché “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano” (1 Cor 2,9).
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