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Sabino Chialà "… È possibile a Dio"

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11 luglio 2020
Dal Vangelo secondo Luca - Lc 18,18-30 (Lezionario di Bose)
dal sito del Monastero di Bose

In quel tempo, 18un notabile interrogò Gesù: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». 19Gesù gli rispose: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.
20Tu conosci i comandamenti: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non testimoniare il falso, onora tuo padre e tua madre». 21Costui disse: «Tutte queste cose le ho osservate fin dalla giovinezza». 22Udito ciò, Gesù gli disse: «Una cosa ancora ti manca: vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; e vieni! Seguimi!». 23Ma quello, udite queste parole, divenne assai triste perché era molto ricco.
24Quando Gesù lo vide così triste, disse: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio. 25È più facile infatti per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio!». 26Quelli che ascoltavano dissero: «E chi può essere salvato?». 27Rispose: «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio».
28Pietro allora disse: «Noi abbiamo lasciato i nostri beni e ti abbiamo seguito». 29Ed egli rispose: «In verità io vi dico, non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, 30che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà».

Nella memoria di san Benedetto, padre dei monaci d’occidente, ci viene incontro questa parola di Gesù, che vorrebbe condurci a ricomprendere le ragioni profonde della nostra sequela, di monaci e prima ancora di cristiani.

Questo brano evangelico si compone di un duplice dialogo, in cui Gesù si confronta prima con il notabile ricco (vv. 18-23) e poi con Pietro (vv. 28-30), con al centro una riflessione del Maestro che provoca anch’essa una reazione dell’uditorio e una nuova parola di Gesù (vv. 24-27).

Ambedue i dialoghi che aprono e chiudono il nostro brano sono segnati da un certo protagonismo degli interlocutori di Gesù. Sono diversi tra loro: il ricco notabile e il pescatore di Galilea, colui che si accosta appena a Gesù e colui che ormai lo segue da tempo. Eppure questi due uomini hanno un tratto in comune: la consapevolezza di aver fatto qualcosa di meritevole. Il primo ha osservato i comandamenti “fin dalla giovinezza” (v. 21), il secondo ha lasciato tutto per seguire Gesù (cf. v. 28). Una consapevolezza che emerge con sempre maggiore forza. Infatti Pietro interviene fiero di aver già compiuto ciò che invece aveva intimorito il notabile: “Noi abbiamo lasciato” (v. 28) afferma, non senza un certo compiacimento.

Eppure Gesù sembra ricondurli ambedue su un medesimo piano. C’è infatti una parola che ritorna nei due dialoghi, pur così diversi tra loro: il pronome “nessuno” (oudéis). Al notabile, Gesù dice: “Nessuno è buono” (v. 19); a Pietro: “Non c’è nessuno che abbia lasciato … e che non riceva” (v. 29). Nessuno è buono, neppure tu, sembra dire al notabile. Nessuno lascia senza ricevere, dunque ciò che tu hai ricevuto è molto di più di quanto hai lasciato, dice a Pietro.

Gesù non vuole umiliare lo “zelo buono”, come lo chiama Benedetto nella Regola, dei suoi interlocutori: né di chi ha osservato i comandamenti, né di chi ha lasciato tutto per seguire il Signore. Vuole solo che il loro fare non smetta di affondare le radici nella terra buona, l’unica buona, in cui il loro agire possa trovare alimento: il Signore e non i loro successi “spirituali”.

Grande minaccia per ogni sequela, cristiana e monastica, è infatti il protagonismo. Ci si fa forti delle proprie prodezze, dei propri risultati, fino a dimenticare che “nessuno è buono”. Solo il Signore, che rende buono il cuore di colui che ne accoglie e custodisce la Parola. Una Parola che dice: “Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio” (v. 27). La sequela, ogni sequela, non è opera umana. Solo Dio la rende possibile e lui solo può custodirla. Spesso lo dimentichiamo, avvolti dai fumi dei nostri successi, finché non giunge il momento in cui, per grazia, per le vie che solo il Signore conosce, siamo dolorosamente ricondotti alla sequela dell’unico Signore, che è e resta buono.

Paradossalmente, ciò che Gesù vuol far comprendere al notabile come a Pietro è che il cammino dietro a lui prevede non accumulo ma perdita, non appesantimento ma alleggerimento. Così anche la vita monastica, come Benedetto l’ha vissuta e trasmessa, vorrebbe essere esperienza di liberazione, soprattutto dal proprio protagonismo, attraverso la fatica della conversione. Il padre dei monaci d’occidente lo dice mirabilmente al termine del prologo della sua Regola, che ancora oggi, a secoli di distanza, brilla per il suo grande equilibrio: “Man mano che si avanza nella vita di conversione e nella fede, con il cuore dilatato nell’inesprimibile dolcezza dell’amore, si corre sulla via dei comandamenti di Dio”.

fratel Sabino Chialà
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