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Francesco Cosentino: Una Chiesa “ai confini”

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Francesco Cosentino
Una Chiesa “ai confini”.
Per una riflessione teologico-pastorale sui credenti “non praticanti”
Orientamenti Pastorali
Agosto 2020

Per introdurmi alla riflessione teologico-pastorale su coloro che hanno abbandonato una regolare pratica ecclesiale, vorrei ispirarmi all’immagine del “confine”;
questo termine, nel senso di frontiera e ancor più di “soglia”, è un’immagine usata per descrivere lo statuto della teologia fondamentale, ma che può essere applicata al pensiero teologico in generale e, specialmente sotto la spinta del Magistero di Francesco, può essere metafora ecclesiologica che rilegge l’agire pastorale.

Il teologo tedesco Wandenfels l’ha usata proprio come metafora della teologia fondamentale:

Il cultore di teologia fondamentale può essere paragonato a uno che sta sulla soglia di una casa (Türsituation). Chi sta sulla soglia si trova per così dire contemporaneamente dentro e fuori. Ode gli argomenti di coloro che stanno davanti alla porta e di coloro che sono in casa. La cosa che però gli sta a cuore è l’ingresso nella casa. Da un lato fa suo quello che gli uomini di fuori sanno e vedono — nel campo della filosofia, delle scienze storiche e sociali —, quel che essi pensano di Dio, di Gesù di Nazaret e della Chiesa, di se stessi, del mondo e della società in cui vivono. Dall’altro si presenta col sapere che viene dal di dentro come un invito a tutti coloro che sono dentro e fuori. Il punto saliente della teologia cristiana è poi quello di presentare la porta, di cui parliamo metaforicamente, come la porta della salvezza reale dell’uomo in ordine a colui che, nelle parole del Vangelo di Giovanni, ha detto: “Io sono la porta” (Gv 10,7.9) .

Ora, l’immagine del “confine” riesce a evocare due realtà diverse ma connesse tra loro: da una parte, descrive l’attuale collocazione del problema di Dio e della fede cristiana nel mondo occidentale, dove sembra che Dio sia stato messo “ai confini”; dall’altra parte, e proprio a motivo di ciò, suggerisce un approccio teologico e pastorale che è quello di collocarsi sulle frontiere, di essere una Chiesa della soglia, che rimane aperta, oltre le proprie certezze, al dialogo e alle sorprese di Dio. Il confine, infatti, è una linea di congiungimento che mentre chiude il campo delimitandolo, fa anche intravedere un “oltre”, cioè l’orizzonte e il territorio che si estendono oltre il mio spazio.

Di questo aveva parlato anche il teologo protestante Paul Tillich, dopo la sua emigrazione negli Stati Uniti, avvenuta dopo le critiche al regime hitleriano; qui, egli tenne delle lezioni il cui centro era determinato dallo studio sulla relazione tra fede e mondo secolare e che furono poi pubblicate nel 1959. In esse, si vede come Tillich non interpretò la sua emigrazione come un fatto semplicemente biografico, ma anche come un evento spirituale; se è vero che ogni cristiano dovrebbe esercitare uno sguardo profetico sulla realtà e sulla propria vita e – secondo il motto ignaziano – “trovare Dio in tutte le cose”. Tillich fece proprio questa opera di discernimento: emigrando, egli rilesse attraverso l’immagine dell’essere ai confini la stessa rivelazione di Dio.
Tutta la Rivelazione di Dio, afferma Tillich, è uno “stare al confine” che inizia con una “emigrazione”: Cristo in un certo senso “emigra” dalla Trinità e si situa nelle terre di confine dell’umano, nella sofferenza, nel dolore, nella colpa, nella povertà, nella discriminazione. Questa lettura non a caso farà di Tillich un teologo che pensa la fede al confine tra filosofia e teologia, tra teoria e prassi, tra Chiesa e società secolare.

Una Chiesa che abita i confini

Questo implica una rilettura dell’azione pastorale ecclesiale e, più radicalmente, dell’essere stesso della Chiesa; non un luogo che preserva se stessa e, in un momento di crisi e di irrilevanza della fede spende energie solo per conservare il poco che ha e i pochi resti connotati cristianamente, ma, diventando realmente una “chiesa in uscita”, cioè una Chiesa che supera i confini e gli schemi tradizionali e si lascia ferire e inquietare dai cosiddetti “non praticanti”.
Karl Rahner aveva riflettuto su questo aspetto già molto tempo fa, affermando dinanzi ai notevoli cambiamenti del mondo:

Io credo che la Chiesa, negli ultimi 150 anni, non abbia affrontato questo nuovo mondo in modo giusto, e penso che essa si sia ritirata nei residui di raggruppamenti sociali ancora cristianamente omogenei […] La Chiesa deve dimostrarsi viva in una società pluralistica, e non può continuare a fare affidamenti su questi resti ancora omogenei della società […] Ciò non è ammissibile. La soluzione a questo stato di cose non è il ritiro nel piccolo gregge, ossia nel “ghetto”. Semplicemente non abbiamo il diritto di rifugiarci nel sottobosco della storia […] Non bisogna tuttavia dimenticare che una mentalità da ghetto (cioè quella sorta di ritiro e di fiducia in un gruppetto di cristiani di stampo tradizionalista), sarebbe un tradimento del cristianesimo .

Oggi, soprattutto nei confronti di un crescente numero di “credenti non praticanti”, abbiamo queste due possibilità: la Chiesa del ghetto, che si rifugia in se stesso e preserva l’esistente, e la Chiesa dell’evangelizzazione, che chiamerei anche la Chiesa del coraggio, che si decentra e, superando gli angusti confini del sacro, esce verso il mondo. In fondo, è la consegna di Evangelii gaudium: una Chiesa che vince la tentazione dell’immobilismo e la fissazione sulle strutture, e si sporca le mani per essersi coinvolta “al limite”, cioè nelle periferie dell’esistenza.

Alcune sfide per l’evangelizzazione dei “credenti non praticanti”

Dei credenti non praticanti si è occupata, in un interessante libretto, Valérie Le Chevalier. La tesi di fondo – non lo si può negare – è intrigante: abbiamo rinchiuso in uno schema abituale l’esperienza della fede attraverso la distinzione tra praticanti e non praticanti, e ciò ha generato un’incapacità di ascoltare l’esperienza reale della vita di coloro che non frequentano la Chiesa i quali, tuttavia, affermano di “vivere la loro fede altrimenti” .

In realtà, l’origine di un errore di fondo nascerebbe, secondo l’autrice, da una sorta di appiattimento della teologia sulle letture sociologiche le quali, per ragioni di metodo, non possono che seguire la via di una classificazione percentuale e, alla fine, di fissare l’appartenenza alla fede a seconda di quella ecclesiale; dunque, l’adesione alla pratica ecclesiale, nei suoi diversi gradi, diventa criterio di classificazione dell’esperienza di fede delle persone. Ne deriva che “la credenza di un laico non è più pensabile se non in termini di tasso di pratica” ; la partecipazione all’Eucaristia diventa fondamento del tutto, anche a discapito del Battesimo, che viene ridotto a sacramento minore, in attesa della cresima; non è tutto: la terminologia è progressivamente cambiata e il fedele ha ceduto il posto al praticante. A rigor di logica, però, fedele è ogni battezzato, anche se la sua pratica della fede e appartenenza ecclesiale conosce gradi e stadi diversi.

In parallelo, il Concilio Vaticano II, col buon intento di recuperare la specificità della vocazione del laico battezzato, ha sognato una spiritualità laicale che risulta essere praticamente utopica e irrealizzabile, in quanto egli sarebbe chiamato a vivere tutto secondo un altissimo livello:

ciò che gli viene raccomandato è pressoché irraggiungibile in una vita ordinaria suddivisa tra famiglia, lavoro, vita sociale…Per pretendere di avvicinarsi alla perfezione secondo il Concilio, il laico dovrebbe essere una sorta di esperto della spaccata, a cui è richiesto di essere tanto profano quanto religioso, il tutto ad alto livello: molto praticante, molto impegnato nella società, molto integrato ecclesialmente, molto orante .

La domanda è: siamo sicuri che questa è la vocazione del laico e non, piuttosto, l’ideale di vita dei religiosi? Per un rinnovamento della spiritualità laicale, ma soprattutto per un cambiamento di paradigma pastorale, occorre fissare meglio lo sguardo su quelle relazioni di prossimità e amicizia che Gesù ha inaugurato con molti, senza tuttavia chiamare tutti a far parte del gruppo ristretto dei discepoli; come dire, negli incontri di Gesù e nella sua rete “amicale” vi sono diversi personaggi che da una parte superano l’anonimato della folla – si pensi a Bartimeo, a Nicodemo, e ad altri – ma, dall’altra, non entrano a far parte della cerchia ristretta dei discepoli e né ci viene detto di loro che si misero a seguire Gesù in modo itinerante e stabilmente. Sono personaggi per così dire secondari, intermedi tra la folla e i discepoli, compagni di strada o “simpatizzanti” che restano nel frammezzo .

In tali incontri, Gesù spesso rimanda a quella fede primordiale, che è presente in ogni persona desiderosa di vivere, nonostante il peso dell’esistenza. Anche se l’autrice, in un breve riferimento, sembra volersi differenziare dall’impostazione rahneriana sul tema, si può qui ravvisare un accordo con quanto Karl Rahner aveva cercato di chiarire circa il dono dell’opera dello Spirito nel cuore dell’uomo, che ci precede e rappresenta una sorta di base di speranza e una presenza di Dio in noi, la quale ci rende già capaci di fare una certa esperienza di Lui, sebbene questa potrebbe essere non riflessa e non esplicita.

Secondo Rahner, infatti, a motivo di quella dimensione trascendentale che è l’esperienza di Dio nel bel mezzo della nostra vita, noi possiamo fare esperienza dello Spirito ogni volta che non ci abbandoniamo alla semplice logica degli eventi; cioè, quando perdoniamo con gratuità, certi di non avere tornaconti o quando «cerchiamo di amare Dio, quantunque abbiamo l’impressione di non ricevere alcuna risposta amorosa dalla sua silente incomprensibilità”, così come quando “possiamo notare all'improvviso come il rivolo della nostra vita serpeggi attraverso il deserto della banalità, apparentemente senza scopo è accompagnato dalla paralizzante paura di essiccarsi del tutto. E, ciononostante, senza sapere come speriamo che esso trovi l'immensità del mare, anche se per il momento gli è ancora nascosto dalle dune grigie, che sembrano distendersi all'infinito davanti al suo piccolo corso” .

In queste circostanze ordinarie e quotidiane, secondo il teologo tedesco, è nascosta la mistica della vita quotidiana e la possibilità di trovare Dio in tutte le cose; di conseguenza,

Bisogna pero combattere il sentimento molto diffuso secondo cui o si è un membro deciso della chiesa con tutti gli obblighi che ne conseguono oppure ci si pone nei confronti di essa in un atteggiamento necessariamente ostile o assolutamente indifferente. […] E teologicamente permesso e moralmente comandato di considerare tali marginali come dei fratelli, senza far loro notare ad ogni occasione che, a rigore, non sono dei veri cristiani nella chiesa. Essi cioè, per esprimerci con Agostino, quanto al "cuore" appartengono alla Chiesa più salutarmente di coloro che sono in essa "corporalmente" quindi solo in maniera sociologica” .

Secondo Valérie Le Chevalier, con l’indicazione di “tornare a casa” dopo essere stati guariti da una “fede che salva”, Gesù indica a molte persone di ritornare in quei luoghi della vita quotidiana, dove spesso hanno subìto esclusione, e trovare lì sia loro stesse che Dio; in tal modo, Egli “sacralizza anche la vita ordinaria e sedentaria, quella del resto da cui egli stesso proviene, lui che ha trascorso circa trent’anni nell’anonimato di Nazaret” .

Dunque, a partire da una lettura adeguata del sacramento del Battesimo, la vocazione dei laici dovrebbe essere anzitutto quella di essere dei “fedeli” e non dei “praticanti”; la fede non può misurarsi dal tasso di pratica e, dunque, come afferma Joseph Ratzinger, “ci devono quindi essere forme diverse di coinvolgimento e partecipazione, la chiesa deve aprirsi interiormente a coloro che stanno ai margini della sue comunità” .

Dunque, c’è una fede elementare “che salva”, afferma la teologa francese, pur senza la fede ecclesiale e confessante che, in tal senso, diventa non “necessari”. Rimane però da avviare una riflessione sull’assenza di questi fedeli non praticanti, che non sia letta solo dal punto di vista sociologico, innescando da parte della Chiesa un atteggiamento di frustrazione e rimprovero unito al solo scopo di reintegrare nell’ovile queste persone; al contrario, occorre interrogarsi su come e quanto l’assenza di questi fratelli rappresenti di per sé una ferita, su quanto ci manchino al di là se mai torneranno o meno, e su come, almeno fino ad oggi, “questa dimensione dell’assenza è paradossalmente abbastanza poco presente nelle proposte pastorali di tipo nuova evangelizzazione” . Si tratterebbe, come afferma Papa Francesco, di vincere la tentazione di accusare, rimuginare e semplicemente pensare ad attrarre nell’ovile, ma di uscire dalle nostre mura per raggiungerli laddove essi sono e prenderci cura di loro.

Come Gesù che si affianca ai discepoli di Emmaus, i credenti integrati attivamente nella comunità, che somigliano alla punta dell’iceberg, devono uscire e affiancare sulla strada il cammino della parte sommersa, accogliendo le domande di senso, i sussulti del vivere quotidiano e le aspirazioni profonde di queste persone: “Quei fedeli non esprimono la loro fede come desidereremmo, eppure molto spesso la loro vita è apostolica, pur restando secolarizzata. La Chiesa deve trovare delle occasioni per sollecitare esplicitamente tutte quelle competenze, quei gusti e quei desideri…” .

Da tale prospettiva, certamente interessante, si potrebbero cogliere alcune sfide, insieme ad alcune riflessioni critiche.

1. Anzitutto, una necessaria conversione pastorale, che non è un cambiare le cose da fare, ma un agire nato da un cambiamento di paradigma teologico. La collocazione ecclesiale che dovrebbe situarsi meglio sul luogo del confine e delle frontiere, così come evocato dalla “Chiesa in uscita” di cui parla Francesco; si tratta di un tema teologico prima che prettamente pastorale: la Chiesa esiste per evangelizzare, per essere segno della presenza amorevole di Dio nella storia e non per preservare se stessa. La prassi pastorale odierna sembra invece ancora imprigionata dal tentativo – faticoso e frustrante – di “salvare l’esistente”. Occorre chiedersi cosa lasciare andare, cosa rinnovare e quali altre proposte attuare in ordine all’evangelizzazione;

2. Cuore di questa conversione pastorale dovrebbe essere un rinnovato interesse per il problema della trasmissione della fede alle nuove generazioni; in una visione spesso irreale e parallela rispetto ai mutamenti culturali degli ultimi decenni, l’impianto pastorale, le sue visioni di fondo e i suoi linguaggi sembrano riferirsi ancora a un mondo dove, tutto sommato, ancora le famiglie, i genitori, il contesto sociale trasmettono la fede o almeno i valori cristiani. Non è affatto così, come ha energicamente affermato Papa Francesco nel Discorso degli auguri di Natale alla Curia Romana del 22 dicembre 2019;

3. La sofferenza per l’assenza di tanti nostri fratelli deve stimolarci alla creatività pastorale; essi non sono atei, ma spesso sono piuttosto dei “credenti non praticanti”: cosa fare per loro? Come raggiungerli? Con quali linguaggi? Quali proposte pastorali?

4. Sarebbe auspicabile un impulso alla riscoperta del valore e della spiritualità del sacerdozio battesimale (cosa che, suo malgrado, anche il virus ci conduce a fare impedendoci l’accesso alle celebrazioni liturgiche, nonostante l’incauto esibizionismo di alcuni): si tratta di una teologia del quotidiano (cfr. Adriana Zarri, Karl Rahner), di una riscoperta della Parola di Dio in forme semplici e ordinarie (con la tecnologia odierna le potenzialità si sono moltiplicate), del reale sviluppo di una spiritualità incarnata nella vita, che includerebbe una fascia di persone più ampia dei soli praticanti;

5. Circa la tesi di Valérie Le Chevalier emerge anche qualche criticità. In ordine alla salvezza, è vero, il Concilio Vaticano II afferma che esiste una fede elementare che, per varie ragioni, non riesce a diventare esplicita, così come una fedeltà alla propria coscienza e tutto ciò che inerisce all’essere “uomo di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia”, “la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale” (GS, n. 22). Tuttavia, questo è l’ottimismo salvifico o, per meglio dire, la speranza cristiana riferita alla salvezza ultima; ma ciò rende “non necessaria” la pratica? Se è vero che il Battesimo è sacramento di salvezza, lo è anche quando esso si riduce a quella forma di “cattolicesimo convenzionale”, tradizionale e culturale, che non si traduce mai in una esplicita relazione personale con Dio e nella vita della comunità ecclesiale? Occorre formulare la relazione tra l’essere fedele, l’essere praticante e la salvezza finale.

Si tratta naturalmente di piste di lavoro al fine di liberare la riflessione sui credenti non praticanti dalla fissità di alcuni schemi linguistici, pastorali e teologici, così da individuare alcune possibilità di servizio verso di loro e di incontro tra la loro esperienza esistenziale e la gioia del Vangelo.

1) H. WANDENFELS, La teologia fondamentale nel contesto del mondo contemporaneo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1988, 101-102.
2) K. Rahner, Dimensioni politiche del cristianesimo, Città Nuova, Roma 1992, 77-78.
3) V. LE CHEVALIER, Credenti non praticanti, Qiqajon, Magnano (BI) 2019, p. 16
4) Ibidem, p. 37.
5) Ibidem, p. 46.
6) Cfr. Ibidem, 47-56.
7) K. RAHNER, L’esperienza dello Spirito. Meditazioni sulla Pentecoste, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2016, 55-59.
8) K. RAHNER, Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e come chance, Queriniana, Brescia 1973, 90-92.
9) V. LE CHEVALIER, Credenti non praticanti, 63.
10) J. RATZINGER, Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio. In colloquio con Peter Seewald, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, 405.
11) V. LE CHEVALIER, Credenti non praticanti, 100.
12) Ibidem, 106.

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