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Autorità della chiesa, autorità della coscienza

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Autorità della chiesa, autorità della coscienza
in “Riforma” 
settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi  
del 19 giugno 2020

Ho molto apprezzato l’articolo di Fulvio Ferrario sulla «Autorità nella chiesa» (n. 23, del 12 giugno scorso, p. 10) sia perché solleva il tema, tanto antico e tanto nuovo, dell’autorità della chiesa e nella chiesa, sia per come lo ha trattato. Condivido e sottoscrivo l’articolo in ogni sua parte. Vorrei qui prolungare un po’ le linee di quel discorso, perché quanto Ferrario espone – com’egli stesso dichiara – è solo «il punto principale» di un ragionamento che è necessariamente più ampio e che vale la pena riprendere e proseguire.

Una delle questioni primarie che si impongono è la seguente: che cosa succede quando la decisione dell’autorità (qualunque sia la sua origine e la sua natura: nell’ambito ecclesiastico, può essere quella di un sinodo, oppure di un papa, o di un vescovo, o di un singolo pastore o leader) è riconosciuta da un cristiano o una cristiana come ingiusta? Bisogna accettare l’ingiustizia ubbidendo all’autorità («baciando la mano che, ingiustamente, ti schiaffeggia»), o invece disubbidire all’autorità ubbidendo alla giustizia?

Autorità e giustizia sono entrambe dei valori.

Ma quale delle due deve, alla fine, prevalere? Quand’è che l’ubbidienza non è più una virtù, come ci insegnò don Lorenzo Milani, ma diventa complicità con l’ingiustizia, quindi non è più un bene, ma un male? Quand’è che l’ubbidienza all’autorità non solo non corrisponde alla volontà di Dio (cioè a quella che possiamo pensare o credere sia la volontà di Dio), ma apertamente la contraddice? Tutti ricordiamo la nota alternativa posta dall’apostolo Pietro, agli albori del cristianesimo, ai membri del Sinedrio, a Gerusalemme: «Giudicate voi se è giusto, davanti a Dio, ubbidire a voi anziché a Dio» (Atti 4, 19). È dunque possibile che l’ubbidienza «a voi», cioè alla massima autorità giudaica del tempo, che si riunì al completo, con il sommo sacerdote Caifa in persona (v. 6), e l’ubbidienza a Dio siano antitetiche e alternative: ubbidendo all’autorità si disobbedisce a Dio; per ubbidire a Dio bisogna disubbidire all’autorità.

Ma chi è arbitro in questo possibile conflitto, che naturalmente non fa piacere a nessuno, ma qualche volta non può essere né evitato né eluso? Alla fine l’arbitro non può essere altro che la propria coscienza, con tutti i rischi di fallibilità che sono qui da mettere in conto: una coscienza, se possibile (almeno per chi è o cerca di essere cristiano) guidata e illuminata dalla Parola di Dio, unico specchio disponibile della sua volontà.

E che cosa succede se, ubbidendo alla propria coscienza, si disobbedisce liberamente e consapevolmente alla propria autorità? Succede che si esce dalla comunione che intorno a quella autorità si costituisce. In concreto, se l’autorità è quella di una chiesa (ripeto: di qualunque chiesa, di qualunque segno confessionale o denominazionale, perché il principio d’autorità – che qui è in gioco – è operante in qualunque organismo umano), si esce dalla comunione di quella chiesa.

Per andare dove ? Non c’è una meta: l’esigenza non è di andare da qualche parte, ma di uscire da un quadro nel quale ci si sente fuori posto o, semplicemente, non ci si ritrova più.

È questa un’uscita dalla Chiesa di Cristo? In nessun modo, al contrario: quella uscita è possibile, come atto di fede, proprio perché si sa (ogni cristiano lo sa) che la Chiesa di Cristo è più grande di qualunque chiesa storica, grande o piccola che sia. Uscire da una chiesa non implica necessariamente entrare in un’altra. Si può anche diventare “cristiano senza chiesa”, che poi non è affatto “senza chiesa”, ma solo senza chiesa visibile.

Certamente non è facile, ma non è impossibile.

Si può essere cristiani da soli, almeno per un tempo, per quanto arduo possa essere. È accaduto tante volte. Accadde al profeta Elia che a un certo punto confessa: «Sono rimasto solo» (I Re 18, 22; 19, 14), come del resto rimase solo Gesù (Giovanni 16, 32) e l’apostolo Paolo (II Timoteo 4, 16), e innumerevoli cristiani della diaspora in tutti i secoli e anche oggi.

A questo punto si pone la domanda cruciale: che cos’è la chiesa? E soprattutto: dov’è? Dov’era la chiesa ai tempi di Elia? È la domanda che Lutero sottopose a Erasmo in un passo giustamente famoso: «La Chiesa di Dio, mio caro Erasmo, non è qualcosa di così comune come le parole “Chiesa di Dio”, né i santi di Dio si incontrano tanto facilmente come le parole “santi di Dio”. Sono come perle e nobili gemme, che lo Spirito non getta dinanzi ai porci [Matteo 7, 6], ma, come afferma la Scrittura [Matteo 13, 46], le conserva nascoste, affinché l’empio non veda la gloria di Dio […] Che cosa faremo dunque? La Chiesa è nascosta, i santi rimangono occulti [o sconosciuti] (Abscondita est ecclesia, latent sancti)» – finché venga il Signore a svelare i cuori e a illuminare ogni cosa con la sua luce.
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