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Silvano Petrosino "Desiderio"

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Giordano Cavallari conversa con Silvano Petrosino, filosofo e docente ordinario presso l’Università Cattolica di Milano, intorno a due suoi recenti libri sul tema del desiderio.

Gentile professore, la tesi fondamentale del suo libro “Il Desiderio, non siamo figli delle stelle” (Vita e Pensiero 2019), ritrovata in altri termini in “La donna nel giardino” (EDB 2019), mi sembra sostenere l’ambivalenza del desiderio nell’umano. Da una parte il desiderio è forza propria e costitutiva della vita umana, dall’altra è motivo di inquietudine esistenziale che può portare il soggetto persino a perdere sé stesso. Può spiegare?

Per capire quell’essere particolarissimo che è l’uomo bisogna necessariamente parlare del desiderio. Nel primo libro da Lei citato, io sostengo che il desiderio non è semplicemente un bisogno. Il bisogno si ritrova al livello di ogni vivente. Tutto ciò che vive è definito dal bisogno. In questo senso sostengo che la stella polare verso cui tutto si orienta, al livello della nuda vita, è il bisogno con la sua soddisfazione. Aver evidenziato tale aspetto è merito delle interpretazioni materialistiche. L’umano è senz’altro un insieme di bisogni che devono essere soddisfatti. La soddisfazione dei bisogni consente di godere della vita.

Detto questo, non posso fare a meno di riconoscere che l’umano è attraversato da un desiderio che non è semplicemente un bisogno seguito da una soddisfazione. Uso una formula che è di Lacan, lo psicanalista francese: il desiderio dell’uomo è il desiderio di niente di nominabile. È il desiderio di che cosa? Mah…! Sì, è una forza. E la forza è in sé sempre una apertura nell’umano. Apertura è un termine usato da Heidegger. L’umano è aperto. Verso cosa?

Oltre il bisogno e il possesso

Questa concezione del desiderio ci consente di superare quella più corrente, per cui l’umano vorrebbe semplicemente godere della vita e secondo la quale l’umano sarebbe naturalmente egoistico. Io dico che non è vero, perché c’è senz’altro nell’umano un desiderio che va persino al di là della ricerca del mero proprio godimento: è il desiderio, appunto, di niente che sia nominabile.

A questo punto si pone la questione che lei mi ha sottoposto. Il desiderio introduce all’interno della scena della vita un elemento sconcertante. Il problema del vivere non si risolve col facile possesso di qualche oggetto. Sinché pensiamo che la vita sia semplice esercizio di egoismo, per certi versi, potremmo stare tranquilli. Mentre nel momento in cui riconosciamo che siamo abitati da un desiderio che non è un bisogno, entriamo in una dimensione di sconcerto, ovvero di inquietudine. Da questo punto di vista la definizione di Agostino resta fondamentale: l’uomo è una creatura inquieta.

Questa analisi descrittiva pone la vera questione dell’umano: come vivere un tale sconcerto? Come essere responsabili e all’altezza di un tale desiderio?

Certamente vivere il desiderio è rischioso. Corriamo più di un rischio. Corriamo il rischio di tradire il nostro desiderio quando torniamo a convincerci che ciò che ci rende felici è l’oggetto. In questo caso noi tradiamo noi stessi, la nostra natura. Nel mentre, corriamo il rischio di vivere irresponsabilmente il nostro desiderio, travolti dalla sua forza di irruzione che può diventare effettivamente forza di distruzione.

I rischi dunque sono almeno due. C’è il rischio di non cogliere la specificità e la profondità del desiderio riducendolo semplicemente ad un bisogno un po’ più strano di altri, pensando che non ci sia nulla di particolare in esso. Così come c’è il rischio di non cogliere la dimensione altamente drammatica della profondità del desiderio, pensando che nel desiderio tutto sia buono. Nel mio pensiero sono consapevole di entrambi i rischi. Cerco di tenermi lontano dagli estremi.

Nelle tradizioni religiose orientali specie nel Buddismo, sembra che la salvezza venga dall’estinzione del desiderio nell’umano. Si tratta di una visione totalmente diversa e inconciliabile?

A suo modo, la sapienza orientale ha colto benissimo l’aspetto drammatico del desiderio, tanto da porre come punto di svolta della vita umana la rinuncia al desiderio, riconoscendo nello stesso una forza talmente pulsionale da manifestarsi come distruttiva. Come noto infatti, nella cultura orientale la perfezione è raggiunta nel distacco dal desiderio. Io comprendo bene questa posizione ma non posso condividerla. È dunque vero che c’è nel desiderio un aspetto ineludibile e sconcertante, ma l’umano non può rinunciare al desiderio, semplicemente perché rinunciare al desiderio significa, per me, rinunciare all’umano. Si deve per ciò vivere una vita complicata dal desiderio piuttosto che cercare di estinguere il desiderio dalla vita. Ne sono convinto.

Drammatica del desiderio

Facciamo un esempio che viene facilmente da sé: poiché la sessualità, in certe fasi della vita, produce turbamento, si potrebbe pensare che sarebbe meglio essere a-sessuati e quindi si potrebbe cercare di divenire a-sessuati. Io dico: no, non è questa la soluzione dell’umano. Io dico che dobbiamo responsabilmente attraversare quel turbamento. L’ambito del desiderio è ovviamente molto più grande e va ben al di là della sola sfera sessuale. Dunque la questione è più generale ed è costitutiva della vita umana. Io penso che dobbiamo vivere responsabilmente il desiderio, senza sopprimerlo.

Non è forse questa dimensione pericolosa del desiderio ad aver indotto padri della Chiesa e buona parte della tradizione e del magistero a costruire l’argine, a raccomandare il massimo controllo di sé e forse ad auspicare, sia pure per grazia, l’azzeramento della potenza del desiderio umano?

Nella lettura che faccio del racconto della Genesi in La donna nel giardino – da cui il legame tra i due libri – ritengo fondamentale la questione dei due alberi: l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. Nel giardino Dio pone due alberi, non un albero solo. Tutta l’attenzione della tradizione si è concentrata sull’albero della conoscenza del bene e del male. Mentre l’albero veramente al centro del giardino è quello della vita. Gli alberi sono vicini, ma evidentemente al centro può stare solo un albero, quello della vita. Vuol dire che l’uomo è certamente chiamato a giudicare tra bene e male, attraverso la relativa immagine, senza mai dimenticare però l’immagine dell’albero della vita, ossia il bene fondamentale della vita, quale vero centro dell’esistenza umana.

Se l’umano organizza la vita senza tener conto del desiderio e senza dare fiducia al desiderio che c’è nella vita stessa, si cade nella depressione e persino nella distruzione di sé. La difficoltà sta nel tenere vicini i due alberi, senza sradicare uno dei due. La strategia comunicativa del serpente in Genesi è infatti rivolta a portare tutta l’attenzione su un solo albero, quello del bene e del male. E ci riesce. Ci riesce bene – potrei dire – anche oggi, nella crisi di Dio, della Chiesa e dello Stato. Il singolo umano sente di poter decidere arbitrariamente della propria vita. Senza considerare ciò che non riesce facilmente a contenere. Ma anche senza considerare l’albero della vita, ossia il bene della vita in sé.

Torno a quello che ho detto. A livello della nuda vita c’è l’appetito. Il sentire del vivente è l’appetito. La ricerca del godimento è sintomo della vita vivente. Ma il sintomo dell’umano più propriamente non è l’appetito, bensì l’inquietudine: una inquietudine da attraversare responsabilmente nei tumulti del desiderio.

È vero, c’è tutta una tradizione cristiana che guarda unicamente all’albero della conoscenza del bene e del male e che dimentica l’albero della vita. In questo senso esprimo una critica implicita alla antropologia cristiano cattolica che in tal modo ha cercato di ridurre la dimensione drammatica dell’umano.

Il dramma della vita non sta evidentemente nel decidere tra il bene e il male, se già codificati. Il dramma sta nel decidere rispetto alla vita. È bene tutto ciò che fa vivere. E’ male tutto ciò che fa morire. Con quale criterio è altrimenti possibile giudicare, se non in base alla vita? Io dico: scegli la vita! E’ difficilissimo. Sappiamo. Ma questa è la vita umana. È il desiderio a mantenere l’umano nella vita. Questo è vero sempre. Anche in tarda età. Sino alla morte.

Mi pare che l’umano porti con sé persino l’esperienza di non sentirsi più padroni di sé perché in preda alla forza del desiderio. Persino san Paolo scrive “faccio quel che non voglio” oppure dice “chi mi libererà dal mio corpo mortale?”. L’umano può o non può essere all’altezza del suo desiderio?

L’uomo non è quasi mai all’altezza del desiderio. È più facile rinunciare al desiderio. Oppure è più facile abbandonarsi preda del desiderio, per poi fare finta di nulla. Uno dei tratti più comuni, per tutti, è la superficialità. Ma quando Paolo dice “ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”, ovvero dice, in altre parole, sono rimasto umano nel desiderio e adesso sono pronto, sta precisamente testimoniando, secondo me, di essere stato all’altezza del suo desiderio, di aver mantenuto vivo il desiderio, di non avervi mai rinunciato, di aver corso i rischi di cui abbiamo detto, ma di aver saputo vivere bene il desiderio, sino alla fine, sino ad essere giustiziato.

L’innominabile

Che cosa ha a che fare l’esperienza umana del desiderio col pensiero di Dio?

L’umano si accorge abbastanza in fretta che il problema della vita non sta nella soddisfazione del bisogno, non sta nel possesso dell’oggetto: non sta nei soldi, non sta nella donna o nell’uomo da possedere, non sta nella casa o nella proprietà. C’è chi arriva a capire prima, c’è chi arriva a capire poi. Ma prima o poi ci si rende conto che non è questo l’umano vero.

Arriva allora la risposta alla domanda: è forse “Dio!?”. La risposta “sì” è quella giusta. È giusta, a mio avviso, anche per chi non crede. Il desiderio umano – come abbiamo detto – è un desiderio strano: è desiderio di niente che sia nominabile. Ora l’unico nome adeguato all’innominabile è chiaramente il nome di Dio E questo per tutti, semplicemente per una via logico razionale.

Certamente subito dopo viene la seconda domanda: come si intende in tal caso “Dio”? Non è possibile intendere Dio come un super-oggetto. Anche se avviene anche in ambito credente. Ma, se così fosse, non ha umanamente alcun senso. E’ solo uno spostamento, poco più in là, del problema dell’esistenza. L’analisi di Heidegger, a tal proposito, è acuta, quando dice che il pensiero occidentale ha pensato l’Essere – Dio – sul modello dell’ente, come se fosse cioè un super-oggetto. Dio non può essere il super-oggetto che appaga il desiderio umano. Dio risponde piuttosto in un altro modo, assai strano, al desiderio dell’umano. Dio risponde al desiderio dell’uomo accrescendolo, anziché acquietandolo. Oso dire che in Paradiso il desiderio umano è massimo poiché l’umano senza desiderio non può essere umano.

La sua visione del desiderio è per questa società e per questo tempo in particolare?

Da una parte, la nostra società fa del desiderio la sua cifra, la sua esaltazione: tutto si può desiderare, tutto si può ottenere, comprare. La pubblicità è in tal senso impressionante. La società di oggi ci sta convincendo che non si debbono porre più limiti al desiderio. Ma dall’altra parte, la nostra società ci sta semplicemente ingannando. Ci sta mostrando una caricatura del desiderio. La società del consumo è una società idolatrica, come ho sostenuto in altri libri, poiché trasforma il desiderio in un bisogno sempre più raffinato dell’oggetto. Ma solo dell’oggetto.

Viviamo una situazione davvero paradossale. Si sta alimentando, specie nei giovani, il desiderio di raggiungere obiettivi sempre più alti di possesso, di realizzazione, di successo. Sapendo bene che l’umano non è questo. Questa è la grande menzogna del nostro tempo.

L’umanità arriverà a mutare atteggiamento?

Non lo so. Doveva forse capitare quello che sta capitando per mutare atteggiamento. La vicenda del virus sta fermando tutto un sistema. Questo fatto enorme dovrebbe far capire che ciò è stato prodotto in questo modo non risponde alla natura propria del desiderio umano.

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