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Gianfranco Ravasi "I Vangeli e la Sindone"

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I VANGELI E LA SINDONE

Questo articolo è tratto dal numero 

Devo confessare che, pur contemplando con venerazione e con un certo fascino la Santa Sindone di Torino con la doppia impronta, in negativo, di una figura umana e con quel volto che ormai è divenuto una delle maggiori icone cristologiche, non sono particolarmente coinvolto nell’eventuale questione storica della sua autenticità e del suo rilievo teologico, che non ritengo importante.
E spiegherò perché, proponendo una breve e semplificata lettura dei passi evangelici che evocano il lenzuolo funebre, destinato ad avvolgere il corpo di Gesù crocifisso e deposto nel sepolcro.
Talora si è annunciato che sono venuti alla luce reperti funerari analoghi: così lo si è affermato nel 2009 riguardo ad alcuni frammenti di lini scoperti in una tomba di Gerusalemme, databili forse al I secolo. La notizia, al di là della sua verificabilità soprattutto cronologica, non deve stupire più di tanto: le sepolture anche odierne nel Vicino Oriente esigono che la salma venga avvolta in un lenzuolo rituale, un sadîn in ebraico, una sindôn in greco, vocabolo che si pensa ricalcato sull’egizio shendo, «tessuto». Questo termine «sindone» è rimasto in vita anche nelle lingue moderne esclusivamente per la sua applicazione a un solo defunto, Gesù di Nazaret, e tutti spontaneamente lo collegano al telo venerato fin dal 1578 a Torino, di proprietà dei Savoia, donato nel 1983 da Umberto II alla Santa Sede e custodito nell’omonima cappella, gioiello architettonico di Guarino Guarini (1668-1694) con la sua sorprendente cupola conica composta da sei ordini di archi sovrapposti.

È, quindi, a quel particolare cadavere che noi tutti risaliamo, non di rado ignorando però il fatto che nel vangelo di Marco la parola «sindone» entra in scena due volte, poche ore prima della morte di Cristo. Appena arrestato nel Getsemani, Gesù viene lasciato solo dai suoi discepoli che fuggono spaventati: c’era, tuttavia, «un ragazzo che lo seguiva e che indossava solo una “sindone”. Lo afferrarono, ma egli lasciata cadere la “sindone”, fuggì via nudo» (Marco 14,51-52). Senza voler entrare nel merito di questo episodio (simbolico oppure autobiografico di Marco?), è evidente che qui siamo in presenza di qualcosa di simile alla jellaba araba, una tunica approssimativa.
La «sindone», allora, è genericamente un tessuto di lino adottato per usi diversi e che un personaggio di rilievo, uno dei 70 membri del Sinedrio giudaico, Giuseppe di Arimatea (Rama, patria del profeta Samuele, o l’attuale Ramalla), acquista per avvolgere la salma del maestro cui aveva aderito, Gesù. È ancora Marco a usare per due volte in questo senso specifico il vocabolo sindôn: «Comprata una “sindone”, lo depose dalla croce, lo avvolse con la “sindone” e lo collocò in un sepolcro scavato nella roccia» (15,46).
A voler essere pignoli, bisogna notare che l’evangelista Marco usa il verbo eneileín che letteralmente indica un “legare strettamente”, come si fa per le fasce di un bambino, e questo particolare naturalmente viene usato per spiegare l’impronta particolareggiata lasciata sulla Sindone da quel corpo insanguinato, sottoposto prima a tortura e al macabro trattamento dell’esecuzione capitale per crocifissione.
Matteo nella relazione parallela aggiunge un altro dettaglio: la «sindone» è kathará, cioè non solo “pulita” ma anche ritualmente “pura”. È, noto, infatti, che la Torah biblica vieta di miscelare nella tessitura fili di lino e di lana, secondo una norma arcaica di purità rituale (Deuteronomio 22,11). Ma per lo stesso Matteo e per Luca, nella narrazione dell’evento della sepoltura, la «sindone» funebre «avvolge» semplicemente il corpo di Gesù: il verbo greco non è più l’eneileín, ossia lo “stringere” di Marco, ma il più comune entylíssein che evoca appunto un “avvolgere”.

Fin qui i cosiddetti tre Vangeli “sinottici”, il cui racconto scorre in modo parallelo sia pure con le screziature dei particolari propri di ogni evangelista. E il quarto Vangelo, quello di Giovanni? Egli ignora il termine «sindone» e scrive: «Presero il corpo di Gesù e lo legarono con othónia, insieme ad aromi» (19,40). Che cosa sono questi othónia? Di solito si traduce con «bende» o «teli» che, a prima vista, farebbero pensare alle larghe fasce di tessuto che avvolgevano le mummie egizie e quindi si smentirebbe l’idea di una «sindone» unitaria. In realtà, il vocabolo othónia potrebbe anche designare una taglia o la categoria generale di un tessuto, per cui un importante studioso americano come Raymond E. Brown, che ai racconti evangelici della Morte del Messia (ed. Queriniana) ha dedicato un monumentale commento di oltre 1.800 pagine, ammonisce che «non dovremmo considerare contraddittorio troppo facilmente il termine sindôn dei Sinottici e il termine othónia giovanneo per il rivestimento di Gesù nella sepoltura».
Ma il quarto evangelista ripresenta l’abbigliamento funebre di Gesù nella successiva scena pasquale (Giovanni 20,1-10), quando, nell’alba ancora striata di oscurità della domenica di Pasqua, al grido di Maria di Magdala: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!», accorrono Pietro e «il discepolo che Gesù amava» (quasi certamente lo stesso Giovanni). Più veloce è il secondo che giunge per primo al sepolcro: «Si chinò, vide gli othónia posati là, ma non entrò. Giunse poi anche Simon Pietro ed entrò nel sepolcro e osservò gli othónia posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con gli othónia, ma avvolto in un luogo a parte».
Come è evidente, appare un’altra componente funebre, il sudario, un vocabolo di origine latina che rimanda al «sudore» che esso detergeva (si pensi al gesto leggendario della Veronica durante la “via crucis” di Gesù). Anche Lazzaro, amico di Cristo, aveva «il volto coperto da un sudario»: si ritiene che questo fazzoletto o velo avesse pure la funzione di impedire che la mandibola s’abbassasse (11,44). Si deve, comunque, notare che la salma di Lazzaro ha anche piedi e mani legati con «bende» (keiríai) e che forse tra i due episodi Giovanni marca un contrasto: Lazzaro è ancora legato dalle bende e la sua è una risurrezione-rianimazione che approderà successivamente ancora alla morte, mentre Cristo, che non morrà più e vivrà per sempre, abbandona, invece, i lini per terra.

Di fronte alla sorprendente scoperta della tomba vuota del cadavere, con la sola presenza del rivestimento di lino, l’evangelista Giovanni introduce una stupefacente reazione del «discepolo amato»: eíden kaì epísteusen, «vide e credette». Perché mai i lini abbandonati sul fondo del sepolcro diventano un segno della risurrezione di Cristo, cuore della fede cristiana? La risposta alla domanda non è, però, da cercare in un aspetto fenomenico di quei reperti, come si è spesso tentato di fare con varie ipotesi modulate sul dettato giovanneo che, tra l’altro, offre una descrizione non del tutto perspicua della disposizione di quei lini funerari. Ad esempio, l’esegeta tedesco Eberhard Gottfried Auer rischiava di “materializzare” l’evento della risurrezione – che, come è noto, non è direttamente descritto dai Vangeli – immaginando che davanti agli occhi del «discepolo amato» gli othónia, impregnati dell’olio aromatico con cui era stata trattata la salma di Gesù, sarebbero apparsi rigidi e diritti, conservando quasi la forma del corpo che ne era scivolato fuori!
In realtà, nel linguaggio raffinato del quarto evangelista il “vedere” che genera il “credere” è un’esperienza ben più profonda, così come la risurrezione è ben più di una rianimazione di un cadavere, ma è il ritorno di Cristo alla pienezza della vita umana e divina, col corpo irradiato di eternità e di trascendenza. Il discepolo che è “amato” e ama, ossia il credente puro, riesce a comprendere che i dati certamente storici della sindone e del sudario abbandonati, così come la pietra ribaltata del sepolcro, sono il segno di un evento che non è solo storico ma anche trascendente, destinato a rivelare la vittoria di Dio sulla morte, il trionfo dell’eternità sulla caducità e sulla finitudine umana.
Davanti al segno evangelico della sindone il nostro sguardo può, certo, ritrovare un emblema che ci rimanda alla radicale fraternità del Figlio di Dio con la nostra realtà di esseri mortali e limitati (è quella che chiamiamo l’«incarnazione»), con le stimmate di una sofferenza lacerante e di una morte tragica. Ma lo sguardo interiore e trascendente della fede è invitato ad andare oltre il lenzuolo in sé e a cercare il Cristo glorioso, colui che vive per sempre. Anche allo spettatore di oggi è, perciò, rivolto lo stesso appello angelico indirizzato alle donne poste di fronte al sepolcro vuoto e, quindi, anche al lenzuolo funerario: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto!» (Luca 24,5-6).
Il discorso sulla sindone, perciò, ammessa la sua autenticità, invita a risalire a una dimensione trascendente che va oltre la sua materialità. Come scriveva il filosofo tedesco Friedrich W.J. Schelling (1775-1854), lo storico deve «custodire castamente la sua frontiera», senza pretendere di varcarla dimostrando o negando l’altro territorio che è quello della teologia e della fede (e naturalmente anche viceversa).
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