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Luciano Manicardi "E' primavera nella Chiesa?"

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Settembre 2019
di Emanuela Citterio

Quando, nel maggio 1965, viene pubblicata la traduzione in inglese del Giornale dell’anima, di papa Giovanni XXIII, la famosa filosofa ebrea tedesca naturalizzata statunitense Hannah Arendt scrisse su The New York Review of Books un articolo dal titolo: Un cristiano sul trono di Pietro.
Possiamo, oggi, dire anche di papa Francesco che un cristiano siede sul trono di Pietro? A Molte fedi sotto lo stesso cielo (il prossimo 19 ottobre), Luciano Manicardi, dal 2017 priore della Comunità monastica di Bose, proverà a rispondere a questa domanda, in dialogo con Ferruccio De Bortoli, per molti anni direttore del Corriere della sera.

Vede segni di “primavera” nella Chiesa di oggi?
«Il grande segno di speranza che c’è oggi nella Chiesa cattolica è esattamente il pontificato di Francesco. Un uomo, un cristiano sul soglio di Pietro. Il suo è un pontificato di “apertura”, con tutta l’approssimazione che può derivare dal racchiudere in una sola parola uno stile e un operato. Ha aperto prospettive in molti ambiti: ecclesiologico, pastorale, di riforma della Curia, anche morale. A volte è un’apertura possibile, solo accennata, che deve essere approfondita. Sono un segno di speranza i suoi discorsi, i documenti e le omelie, ma principalmente i suoi gesti – pensiamo solo a quelli in ambito ecumenico – insieme all’umanità del suo modo di porsi, al linguaggio che utilizza, così poco paludato e così evangelico».

Il magistero di Francesco dà indicazioni su come ritrovare la speranza, in un contesto profondamente segnato da spaccature e divisioni come quello attuale?
«Gli assi principali su cui si muove il magistero di Francesco sono, da un lato, la radicalità evangelica – essere segno di Vangelo in ogni suo gesto – e dall’altro la passione per l’umano. Lo si vede anche da come si spende, fronteggiando opposizioni e critiche, per esempio sulla questione dei migranti. La sua è un’azione che declina la speranza come lavoro, come fatica, costruzione paziente e progressiva, come responsabilità. Ecco, la speranza, in un linguaggio cristiano, è soprattutto responsabilità. Penso alle parole che Francesco ha rivolto ai terremotati nelle Marche. Parlò di tre azioni da mettere in atto per ritrovare una prospettiva di futuro: ricordare, riparare, ricostruire. È un’indicazione che si può applicare in senso più ampio: la speranza oggi richiede un lavoro di memoria, di correzione – nel senso di riparazione e guarigione – e di ricostruzione».

La Chiesa stessa appare divisa. Fra tradizione e cambiamento, identità e accoglienza. O, forse, c’è chi ha interesse a incoraggiare questa dicotomia...
«Francesco si muove sulla scia di una fedeltà creativa al Vaticano II, e non può che fare così; questa è la sua opzione. Questa divisione interna alla Chiesa c’è. È evidente. Le critiche a Francesco sono palesi e agguerrite. Uno dei giudizi più beceri e diffusi è quello che lo accusa di non avere dottrina, di non essere teologo. Io credo invece che abbia una straordinaria capacità di andare dritto alla radice della tradizione, che non può che essere il Vangelo e Gesù crocifisso e risorto. Francesco usa una comunicazione neo-parabolica: riesce a declinare il Vangelo in nuove parabole adatte all’oggi. La tradizione non è uno sguardo rivolto all’indietro: il suo senso più profondo è escatologico, il suo compito è indicare il regno di Dio. E non è qualcosa di statico: per definizione vive del suo superamento nella storia, altrimenti si atrofizza e muore».

La difesa della propria tradizione culturale e religiosa nei confronti dell’altro, a volte “contro” l’altro, è un atteggiamento sempre più diffuso. Che parola ha da dire, a questo proposito, la Chiesa di Francesco?
«Devo confessare che sono molto critico verso la parola identità, proprio per come viene usata. L’identità è sempre plurale, molteplice e stratificata. Perciò, ogni identità è meticcia. La sfida che anche la Chiesa deve affrontare è essere capace di un pensiero adeguato all’oggi, che assuma la complessità e riesca a interpretarla. La Laudato si’, l’enciclica sul creato, è riuscita a parlare a tutto il mondo, non solo ai cristiani, esattamente perché è riuscita a far vedere le interconnessioni: fra l’ambiente, la politica, l’economia... e a cogliere la portata etica della sfida in atto».

In tempi nei quali si odono soprattutto slogan gridati, cosa può dire una comunità monastica che custodisce la Parola e il silenzio? Come ritrovare una parola “umana”, e che rende umani?
«Occorre recuperare la pacatezza dell’argomentazione, e in questo i social media non aiutano. Si sparano – a volte si vomitano – sentenze, ma non c’è dialogo, che è ciò che serve per costruire senso. Il dialogo, cioè mettere la parola “fra” me e l’altro, ci consente di creare una via da percorrere insieme. Non bisogna dimenticare che la parola è autentica quando dà la parola all’altro, non lo zittisce, quando ascolta. Parlare e ascoltare non sono momenti che si alternano, sono concomitanti. La mia parola è autentica quando, mentre parlo, dimostro di accogliere l’altro. Il panorama, non solo in Italia, è abbastanza sconfortante, soprattutto per ciò che riguarda l’uso politico della parola. In base a menzogne si sono scatenate guerre: lo abbiamo già visto, non è una novità nella storia. Credo che per restaurare un’etica della parola sia necessario recuperare la pratica del silenzio, che non è il contrario della parola, ne è l’altra faccia. È lo spazio vuoto fra le parole a dar senso compiuto a una frase. Il silenzio è creatore, mette ordine, dà forma. Sarebbe da riscoprire un’ascesi della parola, grazie al silenzio stesso. Solo così ridiventa possibile costruire discorsi sensati e rispettosi degli altri. Dietro l’incapacità di usare in modo dialogico la parola c’è anche il problema del tempo: viviamo ritmi troppo frettolosi, troppo accelerati e questo impedisce quella lentezza, quell’avere delle pause che consentono la ponderazione, che è la prima condizione del pensare. Ritrovare un rapporto di amicizia con il tempo ci aiuterebbe a riscoprire una parola umanizzata. E Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno».

Il titolo di uno dei suoi ultimi libri, Spiritualità e politica, sembra un ossimoro. Come le è venuto in mente di accostare queste due parole?
«Sì, è vero: in questo momento sono due dimensioni che faticano a incontrarsi, e sono problematiche in sé stesse. È anche vero, però, che la vita interiore – intesa in senso laico, come capacità di nutrire un pensiero proprio, che porta a prendere delle decisioni e a compiere delle azioni – è il primo luogo in cui è possibile elaborare una scelta di libertà, in cui è possibile anche dire di no, optare per la resistenza verso politiche che giudichiamo inumane. È la virtù dei cittadini, la vita interiore. Ma direi che oggi è problematica. Dove troviamo spazi di silenzio? Di solitudine “abitata”, che non è quella cattiva di chi è abbandonato ma quella di chi ascolta e abita se stesso? La filosofia dei “non luoghi” elaborata dall’antropologo Marc Augé dovremmo applicarla a noi stessi: spesso diventiamo dei “non luoghi” a noi stessi. Non siamo più capaci di abitarci perché siamo troppo pieni di parole e opinioni che ci gettano fuori da noi. Di conseguenza, non riusciamo più a governare noi stessi. Ma la politica inizia proprio dall’autogoverno interiore e dalla costruzione di un “noi”, di una collettività. Anche qui è possibile intravedere, però, piccoli segni di primavera. In alcuni gruppi vedo risorgere una passione per l’analisi, lo studio, la riflessione e l’interiorità, che è la premessa per un’azione politica degna di questo nome».
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