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Così le neuroscienze interrogano la teologia

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mercoledì 4 settembre 2019

La teologia rischia l’irrilevanza tra gli altri saperi? O, addirittura, una marginalità ecclesiale? Da tale angolo culturale può uscire in un confronto positivo con le nuove prospettive scientifiche sull’'umano'.
Ne è convinto don Pier Davide Guenzi, presidente dei teologi morali e docente di Teologia morale e di etica sociale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e all’Università Cattolica di Milano.

Il recente seminario dell’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale (Atism) 2019 ha scelto come tema "Humanum: specie e specificità. Dialogo tra prospettive scientifiche e teologia morale". Può essere interpretato come un pieno riconoscimento che esistono diversi e relativamente nuovi livelli di comprensione del comportamento umano, se non dell’essere umano stesso. Come tutto ciò coinvolge la teologia morale?

Il seminario Atism non solo ha preso atto di nuovi livelli di comprensione dell’umano e del suo agire grazie al contributo di differenti prospettive scientifiche, ma ha voluto promuovere un esercizio dialogico e rispettoso della correlazione dei saperi. Tale approccio, che impone alla riflessione teologica di essere un permanente laboratorio di ricerca, sviluppando un metodo dialogico e interdisciplinare, come ricordato anche da Francesco in Veritatis gaudium, comporta una permanente disposizione della teologia a porre in assetto il suo sapere specifico con le forme di comprensione dell’humanum emergenti nel contributo di altri saperi. La posta in gioco è seria: il rischio che il sapere teologico risulti di fatto irrilevante nel complesso degli altri saperi. Prendere coscienza di tale marginalità comporta una chiara consapevolezza per i teologi a non autoescludersi in un mondo pensato a propria misura e così diventare irrilevanti non solo nello scenario scientifico e culturale, ma nello stesso ambito ecclesiale. Inoltre, un confronto dialogico e rispettoso dei limiti epistemici di ciascun sapere comporta un percorso di chiarificazione interno alla stessa teologia, non riducibile a un semplice aggiornamento di temi e di idee, perché possa rispondere al suo compito di sempre: operare un’intelligenza critica della fede cristiana, non timorosa del suo sviluppo, ma che rivendica nel cuore della sua stessa identità l’impulso a tenere continuamente aperto il suo sforzo comprensivo a confronto con gli sviluppi delle conoscenze.

Una delle prospettive considerate è stata quella della biologia evoluzionistica. Si può dire che l’evoluzione non è più sentita come una minaccia dalla teologia, se lo è mai stata? E come vanno rilette in questo senso la specificità umana e la 'dimensione naturale' sul piano teologico morale?

La biologia evoluzionista ha rappresentato, nel passato, un elemento di scontro tra la presunta fissità del canone antropologico elaborato dalla teologia e la dimensione storico-naturale che caratterizza i viventi, uomo compreso. Oltre l’opposizione e la diffidenza del passato, senza per questo dimenticare che esistono 'narrazioni' in ambito evoluzionistico espressamente tese a squalificare un pensiero della differenza antropologica e dunque della specificità propria dell’essere umano, va riconosciuta la possibilità di interazione feconda tra i due saperi, senza cedere a precipitosi concordismi, nella quale l’unicità dell’uomo, in una prospettiva evolutiva, si collochi nella peculiarità delle relazioni, per cui l’uomo è 'essere di linguaggio', ma anche in grado di simbolizzare la sua presenza e le forme della sua azione nell’ambito della biosfera e di conferire (o forse di riconoscere) un senso peculiare alla propria azione. Il racconto fondatore per l’antropologia ebraico-cristiana, i primi undici capitoli della Genesi, pensa alla 'natura' umana attraverso il riferimento non alle caratteristiche biologiche, quanto piuttosto attraverso le caratterizzazioni che sono il linguaggio, la cultura e la socialità in cui, accanto ai significati elementari della vita, si palesa anche la possibile contraddittorietà della condizione umana.

Le neuroscienze, tra gli altri temi, interrogano l’etica con dati che sembrano indicare uno spazio di libertà dell’essere umano molto ristretto, se non nullo. Come si può rispondere all’aspetto empirico con una riflessione teologico morale?

Le neuroscienze hanno modificato il confine tra determinismo e libertà, ben oltre i tradizionali 'condizionamenti', anche di tipo psicologico, considerati dalla morale come inibenti l’esercizio e la qualità del proprio arbitrio. Inoltre hanno contribuito a decostruire un’immagine compatta dell’io, del dominio del proprio raziocinio e della capacità di autodeterminazione. La riflessione morale, anche in ambito teologico, dovrebbe riflettere ulteriormente sulla differenza tra prevedibilità di alcune azioni e libertà del soggetto, intesa non semplicemente come esercizio tra opzioni alternative, ma come cifra sintetica dell’io che rende ragione di sé attraverso il proprio agire. In sostanza, la riflessione etico-teologica si muove a partire da una prospettiva più ampia della libertà per cui le strutture di conoscenza, oggetto dei referti delle neuroscienze, pur inerendo a essa, non si identificano con l’evento della coscienza e del sé soggettivo, che risulta loro eccedente.

Lei oggi è relatore anche al convegno dell’Associazione teologica italiana, a Enna, dal titolo 'Ripensare l’umano? Neuroscienze, new media, economia: sfide per la teologia'. A che punto è il dialogo tra la teologia e le altre scienze, che a una lettura forse superficiale sembrano ostili o indifferenti a un sapere speculativo?

Certamente sul versante della teologia (e di quella morale in particolare) non mancano resistenze all’istanza critica di spiegazione del reale operata dalle singole scienze, il che non significa dimenticare il rischio di operare una riduzione ideologica del reale da parte di qualche sapere. Una ripresa sintetica critico-costruttiva sull’intero è propria del sapere filosofico e teologico, ma – per converso – questo non significa che esso non debba lasciarsi interpellare dagli altri saperi per la verifica della portata veritativa delle proprie affermazioni. Il confronto di Perugia ha fatto emergere alcuni passaggi ulteriori per l’auspicato dialogo. Può essere ripreso l’invito di papa Francesco nella sua lettera Humana communitas del 6 gennaio 2019: «Non abbiate paura di elaborare argomentazioni e linguaggi che siano spendibili in un dialogo interculturale e interreligioso, oltre che interdisciplinare» (n. 11). L’espressione non è puramente retorica, ma individua un preciso impegno dialogico ponendosi sul livello linguistico e argomentativo. A livello di linguaggi c’è un ampio lavoro culturale che pone di fronte saperi speculativi e saperi tecno-scientifici identificando con maggiore precisione concetti e categorie, il cui spettro di comprensione risulta più ampio rispetto a quello assunto all’interno di una singola disciplina. Analoga operazione a livello argomentativo: non solo una migliore conoscenza dell’uomo, offerta dalle scienze, consente alla teologia (e all’etica) di superare talune ingenuità o debolezze, ma reciprocamente, l’attenzione alla filosofia e alla teologia garantisce alle singole discipline scientifiche di porre la costruzione del proprio sapere in un orizzonte di complessità sistemica e permette una costante disponibilità alla revisione delle proprie categorie, oltre ogni eccesso di semplificazione.
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