La vita consacrata nell’Europa che viene
Heiner Wilmer
(dehoniano, vescovo di Hildesheim in Germania)
Il credito e il mandato con cui papa Francesco ha investito la vita consacrata fin dall’inizio del suo ministero sembrerebbero essere quantomeno anacronistici.
Non solo per il ridimensionamento che gli ordini e le congregazioni stanno conoscendo negli ultimi decenni, ma anche rispetto al rapporto spesso conflittuale che aveva caratterizzato le stagioni ecclesiali precedenti alla sua.
Il credito ricevuto e il compito da immaginare
D’altro lato, si ha la chiara impressione che quel credito, e il compito in esso inscritto, vada ampiamente al di là di semplici ragioni biografiche – ossia del suo essere gesuita. Nelle parole di Francesco, come nei suoi gesti, vi è una persuasione profonda che investe la vita consacrata proprio quando quest’ultima sembra aver scollinato da tempo l’apice della sua presenza nella Chiesa cattolica e nel mondo di tutti i giorni.
Francesco, come sovente accade, non riempie di parole e istruzioni precise l’anacronistica fiducia con cui guarda alla vita consacrata. Generando così quello spazio immaginativo mediante il quale essa stessa è chiamata a identificare le ragioni della sua decisa rimessa in gioco nella pratica della fede della Chiesa prospettata da Francesco.
Un esercizio stimolante e, al tempo stesso, maledettamente difficile perché chiede libertà di spirito e coraggio evangelico nel ridisegnare il senso e la destinazione di un carisma dentro la storia della vita degli uomini e delle donne di oggi. Ma, d’altronde, la ragione del carisma intorno a cui si articola la vita consacrata non si radica proprio in questa liberalità degli spiriti e nell’azzardo di immaginare il cristianesimo sempre di nuovo a partire dall’Evangelo di Gesù?
Aderenti al Vangelo e alla vita quotidiana
Esattamente la figura elementare dei consigli evangelici, intorno alla quale converge la buona e necessaria pluralità dei carismi che articolano la vita consacrata, mostra questo legame costitutivo tra l’attestazione del Vangelo e il distendersi quotidiano della storia umana come «luogo» non solo della sua continua attualizzazione, ma anche della sua scoperta da parte della fede.
È a mio avviso in questa prospettiva che si potrebbe inquadrare fecondamente, e non senza alcune sorprese, la vita consacrata nell’Europa che bussa oggi alle nostre porte. Che è prevalentemente l’Europa dei giovani, delle generazioni a cui stiamo erodendo il futuro dell’abitabilità della terra, e di cui stiamo incassando illecitamente i dividendi lasciandoli senza risorse per affrontare a dovere i loro giorni a venire.
Un patto generazionale
La vita consacrata in questa Europa che viene potrà avere un senso, e quindi potrà onorare il credito ricevuto da Francesco, se saprà stringere un patto con le generazioni più giovani, cogliendo il potenziale evangelico delle loro giuste aspirazioni e della loro rivolta contro un sistema tecno-finanziario che ha monopolizzato il potere abbandonando ogni dovere civico e civile del suo esercizio.
Per intessere la trama di questo patto generazionale la vita consacrata può attingere al tesoro della propria tradizione. Una tradizione che custodisce potenzialità inaspettate (e forse dimenticate) che hanno non solo la capacità di interloquire con i giovani europei, ma che rappresentano anche dei veri e propri poli di attrazione.
Intorno a questi poli i nostri giovani possono dare forma concreta al loro desiderio di una giustizia che non si consuma e si destina a tutti senza eccezione, di relazioni dove l’altro non sia, fin dall’infanzia, un concorrente da eliminare sulla strada del successo, e di una politica che riscopra il suo dovere di cura sulla qualità umana della coesistenza plurale di molti nella socialità che tutti abitiamo.
La scommessa, a mio avviso, è proprio questa: se la vita consacrata saprà creare le condizioni per questo patto con le giovani generazioni europee, allora il sottofondo evangelico che scorre in questo desiderio di giustizia, di relazioni buone e affidabili, e di impegno appassionato per ciò che è di tutti e non solo di uno o di alcuni, tornerà a vantaggio della Chiesa intera del nostro continente.
Rendere inoperoso il possesso
Appunto, la vita consacrata non deve fare piroette magiche per poter attingere alle ragioni che possono rendere plausibile il desiderio di questo patto alle generazioni più giovani dei nostri concittadini europei. Sono persuaso che essa porti già in sé un profilo «politico» che è di sicuro interesse per loro, solo che è stato lasciato languire nel dimenticatoio di una eccessiva preoccupazione per sé.
La riattivazione convinta di questo profilo è la condizione previa per intercettare, sul loro campo, le generazioni dei giovani e offrire loro pratiche concrete sulle quali esperimentare, confrontare e mettere alla prova il loro desiderio.
Un primo nucleo «politico» potrebbe essere elaborato intorno alla figura della povertà. Mi addentro brevemente in qualche esercizio di possibile declinazione, senza la pretesa di essere esaustivo. Credo che sottovalutiamo la capacità di interlocuzione con le generazioni più giovani che è racchiusa nella critica all’ossessione del possesso come proprietà esclusiva, privata, coltivata per sé, che è uno degli assi portanti della vita consacrata.
I legami fraterni della comunità religiosa si radicano in questa disponibilità a rendere inoperoso il possesso come strumento di esercizio del potere che stabilisce gerarchie e sudditanze. All’interno della vita consacrata, se e quando si dà, il possesso non è mai affare privato, appunto non accede mai al grado di proprietà esclusiva, ma è possibile solo e nella misura in cui esso ha un carattere eminentemente pubblico: ossia è di tutti. E proprio in questo essere-di-tutti che, nella vita consacrata con le sue pratiche comuni di vita, il possesso (come proprietà, privatezza, esclusività) viene reso inoperoso all’interno di una società che ha finito col farne un idolo a cui sacrificare ogni cosa.
Non credo che nella nostra società europea odierna vi siano molti luoghi in cui si mette in atto questa radicale sospensione del possesso, e del potere che esso concede, come avviene quotidianamente nella vita consacrata. Ed è (anche) così che dovremmo imparare a presentarla ai nostri giovani: come il pungiglione di una critica radicale all’idolo che genera separazione, per spaccare quella solidarietà originaria che ci lega gli uni agli altri nel comune della nostra umanità.
L’essere-di-tutti è l’antidoto più efficace contro questa macchina della partizione e separazione, che vuole farci credere che l’altro sia in primo luogo un concorrente e una minaccia per la nostra affermazione di noi.
A questo i nostri giovani sono estremamente sensibili; ne intuiscono l’urgenza, ma fanno fatica a trovare modi per rendere concreta questa loro aspirazione a una giustizia per tutti nella destinazione delle cose, delle risorse, dell’ambiente, e così via. L’inoperosità del possesso, resa possibile dal vincolo fraterno della vita consacrata, è esattamente una di quelle pratiche quotidiane (forse la più importante oggi) di cui essi sono in cerca e che tentano di realizzare in molti modi estemporanei.
La vita comune come cellula di pratiche democratiche
Il possesso reso inoperoso dall’essere-di-tutti apre non solo a una destinazione pubblica, non privatistica, delle cose e delle relazioni, ma è possibile unicamente attraverso una riscrizione continua della forma condivisa ed egualitaria del vivere insieme fra persone che non si sono scelte tra loro.
In questo senso, mantenere inoperoso il possesso, ossia non farlo diventare chiave di volta esclusivista per l’accesso al e la gestione del potere, implica il coinvolgimento attivo di ognuno di coloro che danno corpo all’essere-di-tutti.
In questo, la vita consacrata ha imparato a proprie spese che l’ideale della condivisione e dell’uguaglianza fra fratelli e sorelle accomunati da un medesimo carisma, in vista di una pratica comune di uno stile di vita proprio a ogni ordine e congregazione, non è un «diritto» che si genera da sé come d’incanto. Per questo diritto bisogna lottare e impegnarsi in prima persona, anche e proprio all’interno di quello spazio comune che esso è chiamato a garantire in quanto tale.
Questo azzardo e l’esposizione che esso comporta esercita oggi sui nostri giovani un fascino dimenticato da tempo. Ed essi sono in cerca di pratiche di vita che lo mettano in esercizio quotidianamente. Qui la vita consacrata, nel contesto europeo, ha la sua grande chance da giocarsi scommettendo il suo stesso futuro.
La vita comune rappresenta, infatti, una pratica di legami e relazioni che, nella loro debolezza, vulnerabilità e conflittualità, cercano di dare corpo a un’effettiva condivisione di vita all’interno della quale si realizza una circolazione di legami egualitari. La vita comune religiosa accede al suo senso evangelico quando, tra mille fatiche e umane piccolezze, si può dire con persuasione profonda «non voglio vivere senza l’altro» – questo concreto, individuo, altro che non ho scelto, ma che posso ogni giorno riconoscere e accettare come indispensabile alla riuscita dell’impresa comune del vivere.
È così che la comunità religiosa si educa, giorno dopo giorno, a diventare una cellula (imperfetta, certo, ma reale e concreta) di pratiche democratiche dello stare-insieme e della decisione condivisa sull’orientamento di una vita che, senza perdere il colore individuale di coloro che compongono la comunità, non può essere che un percorso condiviso di destino e di esperienze.
Di queste piccole attuazioni pratiche di una cultura democratica del vivere-insieme tra diversi vi è oggi un’urgenza inusuale. La vita consacrata, con tutti i suoi limiti che nessuno vuole negare, è una cellula preziosa di questo tentativo di attualizzare quotidianamente una condivisione egualitaria che renda onore al vissuto specifico di ogni persona coinvolta nel vissuto comunitario.
Colta sotto questa prospettiva, la vita consacrata può avere un suo fascino per i giovani di oggi; questo nella misura in cui essa non sia ossessionata dalla propria sopravvivenza, ma sappia spendersi a favore di una più alta qualità umana del legame democratico tra i molti e le loro innegabili differenze. In questo, essa può diventare una sorta di palestra, un attraversamento fatto insieme ai giovani per consegnarli, ben attrezzati, alla concretizzazione quotidiana del loro desiderio di un vivere-insieme condivisibile veramente da tutti, perché tutti possono effettivamente riconoscersi e sentirsi riconosciuti in esso.
Un esercizio non egemonico del potere
L’ultimo aspetto del profilo «politico» della vita consacrata nell’Europa che prenderei qui in considerazione riguarda il potere. Il tema è chiaramente vastissimo ed estremamente complesso. Quello che mi preme è mettere in risalto alcuni aspetti specifici della relazione con e della gestione del potere nella vita consacrata che impattano una domanda sincera e, allo stesso tempo, una sfida alle istituzioni del nostro continente da parte delle giovani generazioni.
Anche nelle sue espressioni di più radicale prossimità al Vangelo di Gesù, la vita consacrata parte dalla consapevolezza che il potere c’è (anche nella Chiesa e nella vita cristiana), e non può essere saltato a piè pari come se non fosse. Perché questo significherebbe abbattere ogni argine di controllo e limitazione del potere medesimo.
Allo stesso tempo, però, la vita consacrata rappresenta nella Chiesa una sorta di permanente inquietudine che non ha mai accettato il potere e il suo esercizio come qualcosa di meramente scontato e neutro rispetto alla parola evangelica di Dio. In molti modi, e in diverse forme storiche, la vita consacrata ha cercato vie efficaci per limitare il potere; non cessando mai di interrogarsi su cosa sia e come esso debba essere esercitato nella comunità dei discepoli e delle discepole del Signore.
I limiti di questi tentativi sono noti, dal paternalismo al patriarcato – passando per tutte le modulazioni di connivenza con i lati più oscuri del potere gerarchico della Chiesa. Meno note, e meno considerate nell’economia complessiva dell’attuazione della comunità cristiana, sono le forme virtuose di un confronto all’altezza del Vangelo con la questione del potere all’interno delle pratiche comunitarie della vita consacrata.
Mi sembra possibile condensare queste molteplici forme, legate ai luoghi e ai tempi della loro ideazione, intorno alla ricerca continua di un modo non egemonico di esercitare il potere (includendo qui sia il fatto che i superiori/le superiore non possono agire in solitudine, ma sono vincolati/e a un esercizio condiviso del potere attraverso forme consigliari; sia la limitazione temporale dei mandati di esercizio di posizioni di potere, e il ritorno a essere semplicemente uno fra tutti gli altri al termine del mandato).
In questo modo la vita consacrata cerca sempre di nuovo forme di limitazione e controllo del potere, ponendosi costantemente all’interno dell’orizzonte di quel rendere inoperoso il possesso (anche delle posizioni di potere) attraverso la radicale condivisione dell’essere-di-tutti, che caratterizza il nucleo profondo della vita comunitaria dei religiosi e delle religiose.
Tra mille contraddizioni, certo, alla vita consacrata è comunque riuscito di tenere viva la possibilità (nella Chiesa e nella società) di una gestione non egemonica e sistemicamente provvisoria del potere. Come qualcosa del genere sia concretamente possibile, e quali pratiche sono necessarie per mettere in atto questo modo di esercitare il potere, rappresenta un punto di reale interlocuzione e attrazione rispetto a quelle che sono le idealità e gli slanci più alti dei nostri giovani quando si tratta di immaginare una comunità umana (europea) che possa essere realmente di tutti, venendo sentita e praticata da ciascuno come tale.
La vita consacrata porta in sé, volente o nolente, questi tratti «politici» che sono in grado oggi di parlare (evangelicamente) alle generazioni più giovani; sarebbe un peccato epocale non tenerne conto nella riconfigurazione che ogni ordine e congregazione sta attuando per affrontare una nuova stagione della loro storia.