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Luciano Manicardi "Spiritualità e politica"

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LUCIANO MANICARDI con "Spiritualità e Politica" consegna ai lettori un libro sorprendente: 80 pagine appassionate, inequivocabili e necessarie su cosa significhi e su cosa implichi il decidere di dedicarsi alla politica; e sull'imprescindibile rapporto esistente tra essa e la spiritualità, intesa come attenzione alla questione del senso che abita ogni uomo e quindi anche come immaginazione, creatività, coraggio. etica della parola. Conversano con l'autore LUCA SCOGNAMILLO (docente di storia e filosofia del Liceo Classico "C. Botta" di Ivrea) e DAVIDE GAMBA (libraio).




La spiritualità in politica è senso del futuro
di Tullia Fabiani
L'Osservatore romano del 20 giugno 2019

La prima domanda è: che senso ha parlare oggi di politica e spiritualità?
Oggi che la politica, nella sua rappresentazione più immediata e semplificata, viene consumata voracemente ogni giorno attraverso i media tradizionali e i social network, che vivono di post, dirette h24 e selfie. A chi può giovare una lettura, seppur breve, che inquadra la politica e soprattutto la qualità di chi la pratica alla luce di una dimensione spirituale paradigmatica?
La risposta non c’è. Ma basta la domanda a sollecitare una viva attenzione verso un piccolo, prezioso, testo scritto da Luciano Manicardi, monaco, biblista, dal 2017 priore della comunità di Bose. Perché questo libro, «Spiritualità e Politica» (Edizioni Qiqajon) coglie un’assenza fondamentale; indica uno spazio che è «lo spazio vuoto tra gli uomini, tra me e l’altro, tra me, l’altro e il terzo, tra noi e gli altri» in quello che l’autore definisce uno «spazio interpersonale e sociale»; è in quel vuoto che la politica incontra «la dimensione spirituale» e si fa azione non solo “con” ma anche “per” il prossimo.
L’incontro però, tra spiritualità e politica, è tutt’altro che scontato; ed è spesso estraneo se non inviso a chi per cinico calcolo «riduce il mondo alle dimensioni della propria ristretta cerchia di interessi» deformando il linguaggio e le relazioni al servizio del proprio particolare tornaconto, più che del pubblico e generale interesse. «La democrazia viene corrosa anzitutto con la corruzione delle parole», ricorda l’autore citando un bel libro del 1997 di Enzo Bianchi e Carlo Maria Martini («Parole e Politica»). La «distruzione del linguaggio è la premessa a ogni futura distruzione», ricordava anche il grande linguista Tullio De Mauro. «Quando nello spazio pubblico e da parte di chi ha responsabilità della cosa pubblica, e poi dalla stampa e dai mezzi di informazione, la parola è svilita, abusata, manipolata, distorta, utilizzata come arma allora viene destabilizzato il terreno di intesa democratica».
In una tale condizione qualunque gesto può essere usato come strumento comunicativo per occupare lo spazio della propaganda e del consenso, rivelando un’assoluta noncuranza di quella che Manicardi chiama «l’etica della parola» e dei suoi tre livelli: «rispetto per l’altro (a cui si parla), rispetto per la parola (che viene pronunciata), rispetto per se stessi (cioè il parlante: dire è sempre dirsi)». Una maleducazione della politica che in questi casi mostra il lato peggiore: quello dell’arroganza e della superbia; quello della prepotenza e della sopraffazione verbale, prima ancora che fisica. «La difesa della democrazia è anzitutto difesa della parola, perché con la falsificazione della parola ogni altra cosa viene tradita e soprattutto viene minata in radice la fiducia».
Del resto, ricorda il priore di Bose, la qualità della politica «è anche direttamente legata alla qualità umana di chi si impegna in essa». E alla capacità di governare, prima che gli altri, se stessi, «le proprie passioni», le proprie debolezze e ipocrisie, le proprie sfrenate ambizioni; così da acquisire autorevolezza e ottenere «quella virtù che si chiama coerenza». Un buon politico, come un profeta in tempi bui, deve saper indicare la strada del futuro e della speranza cercando di far camminare unito il popolo che ha l’onere di governare, senza creare disuguaglianze e discriminazioni. «Quando il clima sociale è ammorbato dall’illegalità diffusa, dalla volgarità imperante, dalla furbizia eretta a sistema, dal carrierismo senza scrupoli, dall’asservimento al potente di turno, allora il compiere con onestà e responsabilità il proprio dovere senza guardare in faccia a nessuno diviene coraggioso», osserva Manicardi. L’incontro con la dimensione spirituale, nelle sue molteplici sfaccettature, genera virtù. E più che instillare nuove paure, seminare diffidenza e tensioni, segnare distanze, si diventa capaci di coltivare il coraggio, la pazienza, la fiducia: nutrienti indispensabili per i rapporti umani.
Fare politica, in fondo, vuol dire aiutare le persone a vivere bene insieme; aiutare ciascuno ad avere consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri per condividere,
senza prevaricazioni, ciò che è patrimonio
comune. Scrive Manicardi: «La com-munitas è l’insieme delle persone unite non da un possesso, ma da una mancanza: non da un “di più”, ma da un “di meno”; da un debito di ciascuno verso gli altri». Dunque, «la responsabilità per gli altri è direttamente la responsabilità per il futuro e le generazioni future»; perciò la tentazione della vanità è quella da cui un politico si deve guardare per non generare false illusioni e non fare di sé un idolo, dimenticando di essere «un servo».
Le luci della telecamera accesa in uno studio televisivo, come l’obiettivo della fotocamera che immortala il leader di turno mentre abbraccia l’ennesimo simpatizzante in fila per un selfie, passano. Come gli idoli. Quello che resta è il servizio reso al Paese.
La traccia del proprio operato nel tempo.
«Alla radice dell’idolatria c’è l’incapacità di attendere, di pazientare. C’è il bisogno non solo di visibilità, ma anche di immediatezza. Di risultati immediati, appaganti, rassicuranti. Una politica che si costringa sempre ai tempi brevi, anzi brevissimi, immediati, si immette in un vicolo cieco e non sa aprire orizzonti di speranza, non sa creare futuro». I fatti raccontano e insegnano che la (buona) politica non vive di solo presente. Questa dimensione temporale è appannaggio di una permanente propaganda, utile a plasmare e proporre l’idolo del momento, ma si tratta appunto di un vicolo cieco.
«Lo spirituale può aiutare la politica a ritrovare un rapporto sano con il tempo e con il fare», osserva il priore di Bose; un rapporto che contempli la «costruzione paziente di un consenso attraverso il confronto delle opinioni divergenti e il lavoro di concertazione tra parti in conflitto». L’ascolto come pratica di democrazia, «autocritica e disponibilità a rivedere le proprie opzioni di fronte a posizioni che si rivelano migliori e più efficaci». Lasciarsi abitare dallo stupore, assumere un atteggiamento creativo, «aperto all’illuminazione delle cose, ai colpi che la realtà porta alla persone, alle interrogazioni di cui il mondo è pieno», suggerisce infine Manicardi. Insomma, lasciare che quello «spazio vuoto» tra noi e gli altri diventi uno spazio di incontro vero e sano, dove rendere la politica migliore di quella che oggi è.
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