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Davanti allo specchio della regina di Biancaneve

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La crisi della società italiana e il ruolo della Chiesa
L'Osservatore romano
15 giugno 2019
Intervista a Silvano Petrosino

Docente di filosofia presso l’Università cattolica di Milano, Silvano Petrosino interviene in questa intervista nel dibattito sulla crisi della società italiana e sul ruolo della Chiesa riflettendo in particolare sulla società dei consumi e sulla globalizzazione.

Giuseppe De Rita su queste pagine ha affermato che per il buon governo c’è bisogno di due autorità: una civile e una spirituale-religiosa. Quella civile garantisce la sicurezza, quella spirituale offre un orizzonte di senso. L’uomo ha bisogno di tutte e due le cose. Se invece si esclude una delle due, la società soffre, diventa schizofrenica. In questo sarebbe il ruolo della Chiesa nell’attuale situazione italiana.

Comprendo bene l’argomentazione di De Rita che certamente coglie un punto importante della nostra società ma non condivido affatto il suo assunto di fondo. Lo scopo della Chiesa non è quello di offrire un orizzonte di senso ma di annunciare il Vangelo di Gesù diffondendo tra gli uomini la carità come ultima espressione della stessa umanità. La categoria del «senso» è estremamente complicata e tende con una certa facilità a trasformarsi in una trappola, configurandosi, ad esempio, come quella ciliegina che, a cose fatte, si aggiunge a una torta che è stata confezionata senza preoccuparsi troppo dei nobili sentimenti. È la nota critica all’uso strumentale della religione la quale finisce per essere utilizzata come copertura spirituale, vale a dire come giustificazione morale, di interessi economici e politici che con lo spirito non hanno proprio nulla a che fare. In altri termini, bisogna senz’altro dare a Cesare quel che è di Cesare, ma questo non significa che bisogna fornire a Cesare l’orizzonte di senso all’interno del quale egli possa tranquillamente continuare a essere ciò che vuole essere. Tra l’altro, prima di pensare al senso bisognerebbe pensare, come suggeriscono le Sacre Scritture, all’«orfano, al povero, alla vedova e allo straniero»; o forse meglio: in termini biblici pensare al senso e difendere la dimensione spirituale della vita significa amare Dio e il prossimo, significa amare Dio con quell’amore che coincide, materialmente, con il prendersi cura «dell’orfano, del povero, della vedova e dello straniero». In ultima istanza la domanda a cui si deve rispondere è sempre la stessa: «Dov’è tuo fratello?» (Gn 4, 9).

La società italiana oggi sembra dominata dal rancore. Da dove nasce questo rancore? De Rita dà una sua lettura, quasi un lutto per quello che non c’è stato, una promessa mancata, un futuro che sembra incrinato, perso.

Non è difficile rispondere a questa domanda. La nostra società dei consumi, idolatrando l’eccellenza e il sempre di più, non può che produrre uomini depressi e soprattutto invidiosi. Nessuno è «il migliore», e nel momento che mi accorgo di non esserlo, non posso far altro che accusare e invidiare l’altro. Forse questa dinamica è più accentuata in Italia, ma a me sembra che essa riguardi in generale la società tecno-consumistica nel suo complesso. A ben vedere, «quello che non c’è stato» non avrebbe mai potuto esserci, ma la nostra società, come ogni vero idolo, continua a promettere ciò che non potrà mai mantenere. Žižek parla dell’«ideologia liberale» come di quel pensiero che si fonda su un’idea di soggetto psicologicamente ben formato, senza fratture e inquietudini, ricco di tendenze e abilità che attendono solo di passare dalla potenza all’atto; si tratta di un soggetto senza limiti, senza peccato, senza inconscio, senza incertezze e dubbi, di un soggetto paranoico che di fronte agli inevitabile smacchi che incontra nella vita finisce per accusare sempre l’altro: questo tipo di uomo, che non è mai esistito, si consola del suo stesso rancore, si esalta concependosi sempre e inevitabilmente come vittima delle circostanze.

In questa situazione emerge un dato che ha una sua ambiguità, anche inquietante, cioè il dato dell’identità come risposta alla globalizzazione ma una risposta che si colora di chiusura e violenza.

La globalizzazione, vissuta secondo la parola d’ordine dell’eccellenza e del sempre di più, non può che essere vissuta come una minaccia. Nel mio piccolo ambiente, paese o città, ho un ruolo e un’identità che inevitabilmente tendono a sfumare e a liquefarsi nella più ampia globalità. Si tratta, in fondo, della stessa verità che lo specchio comunica alla Regina in Biancaneve: «Regina, la più bella qui sei tu, ma al di là dei monti e piani, presso i sette nani, Biancaneve lo è molto di più».

Il Papa propone ormai da anni il tema anzi il metodo della sinodalità, cioè il camminare insieme, il conoscersi, il fare qualcosa insieme, alto e basso che si intrecciano armoniosamente. Si avverte però un po’ di fatica a capire bene come realizzare questa sinodalità all’interno della Chiesa e della società, come mai?

La nostra società ha esaltato e in un certo senso globalizzato una tendenza che è sempre esistita nell’uomo: quella di concepirsi come il vero centro dell’universo, quella di concepirsi come quel tutto a cui tutti devono rendere onore. È una tendenza infantile perché è relativa a un’incertezza sulla propria identità: più mi irrigidisco nel mio «io» più mi ammalo di identità e tendo a percepire la differenza sempre come una confusione minacciante. Un nota pubblicità recita «Tutto intorno a te»: è l’illusione stessa in cui vive ogni bambino. Forse anche la Chiesa dovrebbe crescere, diventare adulta, e questo non è affatto un’accusa visto che non si finirà mai di crescere e di diventare adulti. Anche la Chiesa, evidentemente, è chiamata a nascere una seconda volta, a rinascere di continuo, come ricorda Gesù a Nicodemo, dall’alto e dallo spirito.

Quando si dice “Chiesa italiana” può scattare l’automatismo per cui si pensa alla Cei o al Vaticano, ma la Chiesa non è nell’una né l’altro, la Chiesa è il popolo di Dio. E allora quale può essere il ruolo del popolo cattolico in questa situazione critica dell’Italia?

Per quanto può valere il mio parere, non sono affatto pessimista sull’attuale situazione della “Chiesa italiana”, dove con questa espressione ci si riferisce, per l’appunto, non alla gerarchia ecclesiastica e neppure alle istituzioni ecclesiastiche, ma al popolo di Dio. Ora, rispetto a questa entità mi sembra si debbano sottolineare due aspetti; innanzitutto questo popolo deve aver più fiducia in se stesso, deve credere maggiormente in tutto il bene che quotidianamente compie: abbiamo bisogno di parole nuove che sappiano esprimere i fatti che si compiono. A furia di ripetere che sono più importanti i fatti delle parole, non troviamo più le parole per esprimere quei fatti che, così, restano muti diventando quasi un nulla. Questi fatti, e sono molti, non riescono a generare un cultura. In secondo luogo, bisogna avere più fiducia in questo popolo; quest’ultimo non è mai stato qualcosa da governare e dirigere, ma qualcuno da ascoltare e da cui imparare.

Il Papa durante il viaggio in Romania ha parlato dell’importanza di avere una coscienza di popolo, perché ogni popolo ha un’anima e ha individuato nella coscienza di popolo un antidoto al populismo, cosa ne pensa?

Le confesso che non uso mai la parola «popolo» che a me sembra estremamente complessa e ricca di sensi diversi. In politica si parla quasi sempre a sproposito di «popolo» e non caso, alcuni degli intellettuali più seri, riferendosi alle nostre società avanzate, preferiscono parlare di «massa» o di «moltitudine». All’interno della parola «popolo» c’è una dimensione affettiva e valoriale che andrebbe rispettata e nei confronti della quale bisognerebbe essere seri e in un certo senso quasi timorosi. Il Papa coglie con chiarezza la questione quando parla dell’«anima» del «popolo» e soprattutto quando osserva che la «coscienza» di un popolo è l’antidoto migliore al populismo. Mi sembra che al riguardo non possano esserci dubbi. Eppure, oggi, chi ha la coscienza di appartenere a un popolo? e forse soprattutto: chi desidera essere un popolo? A me sembra che il più delle volte noi preferiamo essere dei «consumatori felici», e a volte neanche tanto.

di Andrea Monda
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