G. Ravasi - Due sfide poste alla fede nella cultura contemporanea
In questa sua prolusione rivolta ai seminaristi dell’Istituto Superiore di Teologia di Évora (Portogallo), il card. Gianfranco Ravasi introduce alla riflessione sulle sfide che la cultura contemporanea pone alla fede. La scienza, con la genetica, le neuroscienze e l’intelligenza artificiale, assieme all’utilizzo delle reti cosiddette “social” stanno modificando, con il crescente timore di una disumanizzazione, il contesto dialogico, religioso e sociale.
Le riflessioni del Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura non sono un invito a rifiutarne l’utilizzo ma a riconoscerne le potenzialità di diffusione e di conoscenza come mezzo di approfondimento per la comunicazione interculturale e interreligiosa.
Nel Vangelo di Luca per indicare l’ingresso di Paolo nella società e nella cultura pagano greco- romana viene utilizzato il verbo “scendere” cioè mettersi spalla a spalla, entrare nell’areopago, come farà l’apostolo ad Atene, incontrare l’umanità nella sua identità concreta, sporcarsi le mani e i piedi, non temere di raggiungere anche i bassifondi delle periferie e testimoniare un cristianesimo in uscita dall’oasi spirituale protetta del tempio. Infatti, Cristo è stato inviato da suo Padre “che ha tanto amato il mondo…non per condannare il mondo ma perché il mondo sia salvato” (Gv3, 16-17).
In questa luce il dialogo, cioè l’incontro del Logòs divino con il logòs umano è alla base del programma della pastorale cristiana. Da un lato quindi si deve escludere ogni integralismo fondamentalistico. D’altro lato però, i semi del Logòs diffusi nelle culture, riconosciuti e valorizzati, non devono condurci a un vago sincretismo o relativismo, ma rendere luminosa l’identità e la specificità evangelica. È molto arduo indicare tutte le vie nelle quali, noi cristiani, dobbiamo “scendere” per intrecciare questo dialogo armonico perché la cultura contemporanea è molto complessa e soprattutto rivela spesso una radicale allergia alla religiosità: è il fenomeno classificato col termine secolarizzazione. Più correttamente dovremmo parlare di “secolarismo” che relega la fede nell’aura sacra del tempio e la riduce a culto o scelta interiore, scollegata da ogni incarnazione nella storia e nella società, come spiega Papa Francesco: “Esso tende a ridurre la fede e la Chiesa all’ambito privato ed intimo; con la negazione di ogni trascendenza ha prodotto una crescente deformazione etica, un indebolimento del relativismo, dando luogo a un disorientamento generalizzato”.
In realtà, noi sappiamo che esiste, però, una secolarità necessaria e positiva tipica del Cristianesimo che rigetta ogni sacralismo e teocrazia. La secolarità autentica rende la Chiesa più profetica e non solo istituzionale e giuridica; entra nel confronto con le istanze della società senza volerle determinare e dominare, ma offrendo il contributo della sua visione morale e spirituale. È questa l’anima stessa dell’Incarnazione, il centro della concezione cristiana fondamentale, destinata ad incrociare trascendenza (Logòs divino) e immanenza (sarx), senza prevaricazioni (cf Gv1, 14). In questa prospettiva, tra i molteplici percorsi che si dovrebbero affrontare “scendendo” nella piazza della modernità secolare, intraprenderemo due strade che nella mappa della cultura contemporanea risultano particolarmente ampie e trafficate. È su di esse che si giocano sfide teologiche e pastorali molto rilevanti.
Il primo percorso che affrontiamo è quello del rapporto tra scienza e fede, un caposaldo fondamentale della chiesa cristiana che unisce in Cristo, divinità e umanità. Questo cammino attraversa la genetica, le neuroscienze e l’intelligenza artificiale.
La genetica ha registrato esiti positivi con la scoperta del DNA e della sua flessibilità e modificabilità, sviluppando la ricerca volta ad eliminare le patologie e ipotizzando l’uso dell’ingegneria genetica per migliorare e mutare lo stesso fenotipo antropologico, prospettando un futuro con il genoma umano radicalmente modificato. I nuovi modelli antropologici, perciò, potremmo ancora definirli come homo sapiens sapiens? Oppure che impatto socio-culturale avrà la disuguaglianza tra individui potenziati geneticamente rispetto agli esseri umani “normali”? Si dovrà elaborare una specifica identità sociale ed etica per questi nuovi individui? A livello teologico, questi interventi sono compatibili e quasi giustificabili con la visione biblica dell’uomo come luogotenente o viceré o “immagine” del Creatore, oppure sono da classificare nel peccato capitale-originale del voler essere come “Dio”, nell’atto dell’hybris adamica giudicata nel cap. 3 della Genesi?
Per la tradizione platonico- cristiana, mente/anima e cervello appartengono a piani diversi, l’uno metafisico e l’altro biochimico. La concezione aristotelico-cristiana, pur riconoscendo la sostanziale autonomia della mente dalla materia cerebrale, ammette che quest’ultima è una condizione strumentale per l’esercizio delle attività mentali e spirituali. Un modello di natura più fiscalista non esita, invece, anche sulla base della teoria evoluzionistica, a ridurre la mente e l’anima radicalmente ad un dato neuronale.
È necessario che sia di scena anche qui l’identità umana che certamente ha nel cervello-mente uno snodo fondamentale per cui, se si influisce strutturalmente su questa realtà, si va nella linea di ridefinire l’essere umano.
La sequenza dei problemi filosofico-teologico-etici si allunga allora a dismisura: come collocare in un simile approccio la volontà, la coscienza, la libertà, la responsabilità, la decisione, la calibratura tra gli impulsi esterni e quelli intrinseci, l’interpretazione delle informazioni acquisite e soprattutto l’origine del pensiero, della simbolicità, della religione, dell’arte, e in ultima analisi l’“io”?
Questa prospettiva ci conduce all’ultimo orizzonte, altrettanto impressionante, delle macchine pensanti ovvero l’intelligenza artificiale. La cosiddetta “terza età della macchina” e la robotica hanno generato macchine sempre più autonome. È indubbia la ricaduta positiva in campi diversificati, ma nel settore delle funzioni gestionali e amministrative sorgono quesiti sul futuro del lavoro che è concepito nella visione classica e biblica come una componente dell’ominizzazione stessa. La possibilità di squilibri sociali non può quindi essere ottimisticamente esclusa. Gli interrogativi si fanno forse più urgenti sul versante antropologico creando così in modo autonomo informazione.
C’è poi ancor più rilevante il versante etico. Quali valori morali possono essere programmati negli algoritmi che conducono la macchina pensante a processi decisionali di fronte a scenari che le si presentano davanti e nei cui confronti deve operare una decisione capace di influire sulla vita di creature umane? Le inquietudini riguardano la cosiddetta “intelligenza artificiale forte”, i cui sistemi sono programmati per autonomia della macchina fino al punto di migliorare e ricreare in proprio, da parte di essa, la gamma delle sue prestazioni, così da raggiungere una cera autocoscienza. Altri sono, al riguardo, più ottimisti di fronte a questo sviluppo perché essi si affacciano con fiducia su quel post-/transumanesimo che per ora è vago ma non per questo meno problematico. Così come possono fare la genetica e le neuroscienze, anche le nuove tecnologie sarebbero in grado di trasformare le capacità fisiche e intellettuali degli esseri umani per superarne i limiti. Qualcosa del genere si intravvede nella fusione con gli organismi umani di elementi tecnologici, come l’impianto di chipsper rafforzare la memoria o l’intelligenza del soggetto (cyborg) o come il trasferimento (download) di un sistema digitale nel cervello, così da eliminarne i limiti. È però spontaneo reagire con qualche apprensione di fronte a queste fughe in avanti, soprattutto quando si hanno le prime avvisaglie di derive incontrollabili. Finora è sembrato netto il discrimine tra macchina con intelligenza artificiale e persona umana.
Il secondo percorso riguarda l’attuale comunicazione di massa che ha rivoluzionato il nostro stesso esistere, pensare e dialogare. Da un lato troviamo la comunicazione sociale, dove si conserva un’identità e una dialettica che permette di distinguere, nelle relazioni, l’aspetto reale e diretto. Questo permette l’emergere degli aspetti di bene e male, vero e falso, giusto e ingiusto, amore e odio e così via. All’opposto incontriamo il social, cioè la rete costituita da relazioni virtuali che fanno evaporare la realtà e mescolare le categorie. In molti casi, in essi, emergono soprattutto eccessi e sussulti anche se l’elemento sociale rimane strumento fondamentale di interconnessione relazionale. In questa prospettiva le fisionomie umane mutano e soprattutto muta la realtà stessa della “persona”. Infatti, nei vari aspetti della realtà virtuale, il termine persona paradossalmente ritorna al significato originario latino di maschera (es. in Facebook il nickname).
Diversi filosofi cosiddetti “digitali” contemporanei hanno acutamente colto questo fenomeno giungendo alla conclusione che la rivoluzione informatica entra a far parte delle grandi svolte della storia e della scienza moderna. Questo prefigura una “nuova condizione umana” e un inedito modello antropologico nel quale Internet assume un ruolo preponderante.
Emergono, tuttavia, i vizi comunicativi che sono al centro dell’infosfera, la quale ha ormai raggiunto un ruolo totalizzante. Anche al livello linguistico, le persone si ritrovano ad essere quasi inabili al dialogo, incapaci quasi di comprendersi, essendo divenuti vittime di una comunicazione malata spesso ferita dalla violenza, approssimativa e aggrappata a stereotipi, all’eccesso e alla volgarità e persino alla falsificazione. Si avverte, perciò, la necessità di una vera e propria campagna di ecologia linguistica capace di far tornare il “comunicare” alla sua autenticità – come la parola stessa di matrice latina indica cum-munus, cioè “dono” – e pertanto condivisione di valori, confidenze, contenuti e emozione.
Altro fenomeno da segnalare, sempre riferito alla comunicazione del social, è la moltiplicazione esponenziale dei dati offerti che non permettono una capacità di vagliare selettivamente le informazioni con senso critico. L’orizzonte che si ha di fronte risulta perciò problematico e potrebbe favorire la tentazione dello scoraggiamento e della rassegnazione anche a livello religioso, ciò nella convinzione dell’inarrestabilità di un simile processo che sembra destinato a creare un nuovo standard umano. Tale atteggiamento di rifiuto va escluso, anche alla luce di scritti magisteriali, sia di Papa Giovanni Paolo II che riconosceva, nella enciclica Redemptoris Missio del 1990 che, ormai “è in corso una nuova cultura, nuovi modi di comunicare con nuovi messaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici”. Papa Francesco, nella Evangelii Gaudiumal n. 79, afferma d’altro canto che è, necessario integrare il messaggio cristiano in questa nuova cultura creata dalla comunicazione moderna. Esempio più evidente sono i tweet usati anche dal pontefice che usa esternare il suo pensiero comprimendolo nel perimetro dei 140 caratteri. Questo permette una comparazione dei tweet e dei logía, in cui non di rado lo stesso Gesù usava un esempio tra i più famosi “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, frase che totalizza nei Vangeli più o meno una cinquantina di caratteri. Emerge, così, una sinteticità sposata alla semplicità che spoglia dalla retorica verbosa i temi religiosi.
Lo stesso Concilio Vaticano II, nei suoi documenti relativi alla comunicazione, afferma che gli strumenti della comunicazione sociale “contribuiscono mirabilmente a sollevare e ad arricchire lo spirito, a diffondere e consolidare il Regno di Dio” (Inter mirifica, 2).
A fondamento di quanto affermato, c’è la convinzione che la rete sia un “dominio” dotato di grandi potenzialità spirituali che permetterebbero anche l’elaborazione di una grammatica comunicativa pastorale. Queste considerazioni devono sollecitare, non solo i “tecnici” della civiltà digitale, ma anche gli operatori ecclesiali nel costante confronto col profilo antropologico contemporaneo del nativo digitale e della nuova società social. Punto di riferimento per un processo di questo genere può essere tratto da un famoso motto paolino che dice “vagliate ogni “cosa” e tenete ciò che è bello /buono (kalòn)” (1 Tess5, 21).