Viaggio nella Bibbia fra gli alberi
La Bibbia e il mondo vegetale
4 dicembre 2018
c/o Liceo classico linguistico “Scipione Maffei” - Verona
Viaggio nella Bibbia fra gli alberi
Marco Dal Corso
L’eredità
Dalle parole di Umberto Eco: “Non c’è un aspetto della nostra cultura, compreso il marxismo, che non sia stato influenzato dalla cultura espressa dalla Bibbia…Perché i ragazzi debbono sapere tutto degli dei di Omero e pochissimo di Mosè? Perché devono conoscere la Divina Commedia e non il Cantico dei Cantici (anche perché senza Salomone non si capisce Dante)?”1
.
Queste parole sembrano essere eco o comunque risonanza di quelle pronunciate, ancora prima, da Paul Claudel quando definisce la Bibbia “immenso vocabolario” o anche quelle di Marc Chagall che la descrive come “atlante iconografico”. O ancora, per fare un ulteriore richiamo, quelle del critico Eric Auerbach che distingue due archetipi del sapere occidentale: accanto all’Odissea anche la Bibbia. Insomma, con la Bibbia occorre fare i conti. Anche a scuola. Non dimenticando mai, parlando di scuola, come leggere o rileggere la Bibbia in classe: “Rileggere la Bibbia come dato culturale prima che come parola rivelata, riannodare i fili di una cultura spezzata, non può che essere compito, in primo luogo della scuola. Dello spazio formativo per eccellenza entro il quale, oggi, s’incontrano i soggetti plurali che sono chiamati a mettere mano al cantiere di nuove società interculturali”2
.
Il futuro
Il “grande codice”, quindi, non è solo portatore di un’eredità con cui fare i conti (il crociano “non possiamo non dirci cristiani”, per citare un’affermazione esemplare). Il messaggio biblico, interrogato a scuola e oltre, è consapevole di portare un significato valido anche per l’abitante della post-modernità. E questo in un duplice senso. Il primo dei quali è che se siamo di fronte al tramonto dei “grandi racconti”, quello biblico non ha paura di misurarsi con la fine delle grandi ideologie o dei miti fondanti. Esso narra non la forza del potere, ma quella dell’amore. Tra l’amore per il potere o il potere dell’amore, il racconto biblico ha fatto la sua scelta di campo. Non si rammarica, cioè, della fine delle certezze ideologiche su cui si sono costruite tante vicende violente ed intolleranti. Il secondo contributo del grande codice biblico all’uomo post-moderno è quello di conservare un senso dentro la frammentazione e il disorientamento che egli sta vivendo, navigando a vista. Un senso, quello custodito dalla pagine della Bibbia, non consegnato a sistemi totalitari messi in campo dalla ragione o magari dalla religione, ma appellante la libertà e la responsabilità di ognuno. Perché dà voce ai poveri, agli emarginati, alle vittime e a partire da loro appella all’impegno, alla cura, alla compassione. E in questa risposta libera che ognuno di noi è chiamato a dare riappare anche il senso che l’uomo post-moderno ha perso. E’ il miracolo della bontà, della giustizia, della gratuità quello raccontato dalla Bibbia.
Il sapere del grande codice
L’ermeneutica biblica che si interroga sullo statuto epistemologico del “grande codice” osserva che quello della Bibbia non è un sapere scientifico, né filosofico e neppure estetico3
. La ragione analitica che scompone il mondo per dire come è fatto e il cui linguaggio sono la sperimentazione e la verifica non sono la “ragione” e il linguaggio che propone il racconto evangelico, che pure parla e conosce il mondo. Se ancora oggi, il dibattito tra sapere scientifico e sapere biblico viene male interpretato (da una parte con il “concordismo” di galileiana memoria, dall’altra con l’assolutismo scientifico di certa letteratura moderna) occorre forse chiarire una volta per tutte che quello del vangelo non è un sapere scientifico come sopra esplicitato. Ma non è neppure un sapere filosofico. Quello del logos, della ragione riflettente e argomentate e della logica come linguaggio. Il Dio di Gesù Cristo, cioè, non è descritto bene dalla cifra filosofica della pienezza dell’essere, ma da quella biblica della misericordia e della compassione. Tra Atene e Gerusalemme, insomma, esiste una differenza irriducibile: il primato della conoscenza della prima diventa il primato della bontà della seconda; se Atene si preoccupa dell’essere quando invita a “conoscere te stesso”, Gerusalemme richiama alla responsabilità assoluta nei confronti dell’altro quando ordina di “amare lo straniero, il povero e perfino il nemico”. Quello biblico, poi, non è neppure un sapere estetico: se nel racconto evangelico poesia e bellezza sono presenti, esse vi sono perché rimandano ad altrove. La bellezza dell’umano nel vangelo è quella che non riposa in se stessa, ma che rimanda a Dio e alla relazione con gli altri. Insomma, quale sapere è quello del vangelo?
Se come sostiene Jean-Luc Marion, la vera domanda filosofica non è quella gnoseologica (cosa posso conoscere?), ma quella erotica (cos’è l’amore e chi è capace di amare?), il vangelo, allora, risulta essere un testo che introduce al sapere erotico!
Esso, infatti, non si interessa tanto della conoscenza, ma parla e presenta sempre l’amore che l’essere umano ha ricevuto e che è ordinato a dare. Non è la Bibbia, certo, che introduce per prima la questione dell’amore; anche la filosofia greca parla e discute di Eros. Ma nel vangelo l’amore non è, come per i greci, energia vitale, ma amore di alterità. L’unico in cui sia possibile sperimentare la libertà non come autoaffermazione, ma come bontà e questa non come irradiazione di sé, ma come autolimitazione di sé.
Così come, secondo la nota interpretazione cabalistica, è avvenuto con la creazione: essa non va intesa come productio ex nihilo, o come rimessa in ordine del caos originario, come suggeriscono i miti cosmogonici delle diverse religioni, ma come autolimitazione del divino. Egli si limita per permette al mondo di nascere. Questo è il primo racconto “erotico” della bibbia. Quindi l’amore di cui si parla nella Bibbia non è quello di tipo platonico, l’amore come impulso irresistibile verso qualcosa. Quello messo in campo dal Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, così come del Dio di Gesù, è l’amore come libertà d’amare che ama l’altro in quanto altro. Non la fusione o la riduzione ad unità, ma l’amore che permette la relazione tra molteplici ed esalta la diversità è quello delle pagine del vangelo. Possiamo concordare, allora, con il biblista Carmine Di Sante quando scrive: “Risposta alla domanda sull’amore, la bibbia è, per questo, il più grande trattato erotico mai scritto o, per evitare equivoci lessicali, il più grande trattato di agape alternativo al Simposio di Platone, rispetto al quale si pone come radicalmente altro e sovversivo”4
.
Quale ermeneutica?
Prima di introdurre ad un possibile viaggio biblico tra alberi, erbe, piante e paesaggi occorre precisare, dopo aver detto eredità, possibilità per il futuro e tipo di sapere del grande codice, anche con quale ermeneutica possiamo (e forse dobbiamo, tanto più a scuola) provare a leggerlo. Oltre al modello re-interpretativo o attualizzante (testo sacro che parla per l’oggi), oltre la tentazione degenerativa (testo sacro come pretesto), è possibile leggere il “grande codice” attraverso il modello trasfigurativo: far germogliare possibilità che l’esegesi biblica non vede o ignora. Attraverso tale ermeneutica possiamo tornare al testo e rileggerlo per noi.
Viaggio nella Bibbia tra alberi, erbe, piante e paesaggi
“Allora il Signore Dio fece crescere una pianta accanto a Giona per fargli ombra e calmarlo. E Giona ne fu contento” (Gio 4,6-7). Si tratta della nota vicenda di Giona e l’altrettanto noto alberello di ricino (qiqajon) sotto cui il profeta ha trovato rifugio dal sole cocente. Ma per un solo giorno. Il profeta non sembra disponibile ad far propria la logica divina: quella della misericordia universale, capace di perdonare anche i niniviti.
La pianta, miracolosamente nata e altrettanto misteriosamente morta, serve a Dio per ricordare a Giona: “Ti inquieti tanto per una pianta che tu non hai curato né hai fatto crescere. E per di più è durata solo un giorno e una notte! E io non dovrei preoccuparmi di Ninive, la grande città!”
C’è poi il cipresso o acacia, in ogni caso legno robusto, con cui Noè deve, invitato da Dio, costruire l’arca. “Costruisciti un’arca, una grande imbarcazione in legno robusto.
La fari con molti locali e la spalmerai di pece dentro e fuori…” (Gn 6,14). Arriva il diluvio, una grande inondazione. Storia conosciuta anche questa, archetipo di tante altre narrazioni successive. Tra i possibili commenti, serve al nostro viaggio nel mondo vegetale della Bibbia ricordare che l’arca di cipresso è ciò che permette, ieri come oggi, di navigare in tempi incerti. Noè sembra dire all’uomo post-moderno che non è importante salvare qualcosa dalla mutazione, quanto salvare il senso nella mutazione.
Abitare i tempi incerti, senza rifiutare l’incertezza, senza trovare false soluzioni nella risposta di tipo assolutistico o fondamentalistico.
Continuando la storia di Noè, occorre ricordare, parlando di natura, il grande simbolo dell’arcobaleno, ponte tra terra e cielo, come è stato definito. “Ho messo il mio arco tra le nubi. Sarà il segno dell’impegno che ho preso con il mondo…” (Gn. 9,13).
Accanto alla promessa divina, quando Dio rinnova il suo impegno, anche la responsabilità umana. Il cielo di Dio e la terra dove vivono gli uomini e le donne.
L’arcobaleno è simbolo di questa alleanza “noachica”, cioè con tutti e per tutti.
L’impegno divino non chiede, insomma, un’appartenenza di tipo etnico (essendo Noè un “santo pagano”, per dirla con Daniélou), ma una responsabilità di tipo etico. Si corrisponde a Dio, secondo la Bibbia, se si è, come Noè, “uomini giusti” (Gn. 6,9).
Ancora la Genesi nel primo dei testamenti richiama il mondo vegetale quando, raccontando la drammatica storia dei due gemelli, ricorda il trattamento di Giacobbe nei confronti di Esaù. “Un giorno mentre Giacobbe stava cuocendo una minestra, arrivò dalla campagna Esaù, stanchissimo…Esaù giurò a Giacobbe che gli cedeva i suoi diritti di primogenito. Soltanto allora Giacobbe diede al fratello pane e minestra di lenticchie…” (Gn. 25,29;33). L’ingiusto comportamento di Giacobbe, che inganna il fratello con un piatto di lenticchie, meriterebbe ben altra sorte di quella riservata al patriarca per eccellenza di Israele (al punto che la Bibbia quando vuole parlare delle comunità di Israele usa l’espressione “casa di Giacobbe”). Ma il Dio di Giacobbe (e di Abramo e Isacco) supera la logica dei crediti e dei debiti. Nella sua casa non si amministrano le cose secondo il dare-avere. E anche l’ingannatore Giacobbe può, dopo aver lottato con Dio, ritessere il rapporto con il fratello e imparare da lui, capace di perdono, la fratellanza.
Dando seguito alla lettura, al capitolo 30 del libro della Genesi, si narra di Rachele e della sua sterilità. “Al tempo della mietitura del grano, Ruben andò in campagna, trovò mandragole e le portò a Lia sua madre. Rachele disse a Lia: dammi un po’ delle mandragole di tuo figlio…” (Gn. 30, 14). La sterile Rachele chiede delle mandragole, disposta a qualsiasi prezzo, per superare la sua umiliazione. E il frutto in questione nell’immaginario culturale (e biblico) simboleggia un potere afrodisiaco. Di fatto, Rachele “rimase incinta e partorì un figlio. Allora disse: “Dio mi ha liberato dalla mia umiliazione” (Gn. 30,23). Ancora una volta la logica divina si presenta come paradossale: il vuoto diventa pieno. Rachele e prima di lei Sara sono il vuoto su cui il Dio di Israele ha costruito il suo pieno di salvezza.
Se poi vogliamo spiegare la Bibbia con la Bibbia, possiamo ancora ricordare, tra i tanti, un vegetale evangelico: la senape. L’apologo al riguardo è conosciuto: “Il regno dei cieli è simile a un granello di senape…esso è il più piccolo di tutti i semi”. Destinato, però, a diventare un albero così grande che gli uccelli “vengono a fare il nido fra i suoi rami” (Mt. 13,31-32). La logica del regno non è quella del potere. Si serve, per crescere, di piccoli semi, piccoli gesti, semplici persone. Una contro-logica rispetto a quella dominante.
E alla fine di questo viaggio (in realtà appena abbozzato tanti sono i rimandi agli elementi naturali e vegetali presenti nel “grande codice”) cosa concludere? Quale il vero tema sotto i simboli della pianta di ricino, del legno di cipresso, ma anche dell’arcobaleno oppure delle lenticchie e mandragole o ancora della senape? Come leggere insieme i temi diversi a cui tali riferimenti rimandano? Forse è possibile trovare il filo conduttore del racconto biblico, così plurale e ricco anche nei rimandi agli elementi vegetali, quando constatiamo che il Dio della Bibbia non è un Dio metafisico, ma etico. Non tanto “sono colui che sono” (Es 3,14), quanto “sono colui che è vicino a te”. Ma per scoprire tale “densità etica” occorre de-ellenizzare la Bibbia, liberarla dalla gabbia metafisica in cui è stata interpretata. Questa la pars destruens. Dopo la quale, è possibile passare alla pars construens. Se la Bibbia è stata de-ellenizzata, essa va comunque ri-mitizzata per l’uomo e la donna della post-modernità. C’è, cioè, un linguaggio simbolico nella narrazione biblica che, una volta decostruito per capirne il messaggio vero, va anche lasciato parlare come linguaggio che unisce ad altre narrazioni. Così il fiore di loto del cantico dei cantici può essere il simbolo del confronto con il buddismo, la vigna delle parabole evangeliche può rimandare alla narrazione ebraica e, infine, il melograno, frutto della terra promessa, è lo stesso frutto presente nei giardini di cui parla il Corano.
Tra piante, fiori e frutti, allora, è possibile riproporre il “grande codice” accanto ad altrettanti altri codici perché, infondo, tutti condividono la vera domanda filosofica, quella che tutti dobbiamo farci: non è tanto “perché l’essere piuttosto che il nulla”, ma “come sia possibile il bene al posto del male”. In fondo, stupirsi che l’amore vinca la morte!
1 U. Eco, Perché l’Iliade e non la Bibbia? In “L’Espresso”, 10//9/1989.
2 B. Salvarani – A. Tosolini, Bibbia cultura, scuola, Claudiana, Torino 2011, p. 40-41.
3 Sono le note offerte dalla ricerca biblica di Carmine di Sante. Vedasi, tra altri, La Bibbia: la verità e il suo linguaggio, Pazzini, Villa Verucchio (RN), 2015.
4 Ibidem
Dalle parole di Umberto Eco: “Non c’è un aspetto della nostra cultura, compreso il marxismo, che non sia stato influenzato dalla cultura espressa dalla Bibbia…Perché i ragazzi debbono sapere tutto degli dei di Omero e pochissimo di Mosè? Perché devono conoscere la Divina Commedia e non il Cantico dei Cantici (anche perché senza Salomone non si capisce Dante)?”1
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Queste parole sembrano essere eco o comunque risonanza di quelle pronunciate, ancora prima, da Paul Claudel quando definisce la Bibbia “immenso vocabolario” o anche quelle di Marc Chagall che la descrive come “atlante iconografico”. O ancora, per fare un ulteriore richiamo, quelle del critico Eric Auerbach che distingue due archetipi del sapere occidentale: accanto all’Odissea anche la Bibbia. Insomma, con la Bibbia occorre fare i conti. Anche a scuola. Non dimenticando mai, parlando di scuola, come leggere o rileggere la Bibbia in classe: “Rileggere la Bibbia come dato culturale prima che come parola rivelata, riannodare i fili di una cultura spezzata, non può che essere compito, in primo luogo della scuola. Dello spazio formativo per eccellenza entro il quale, oggi, s’incontrano i soggetti plurali che sono chiamati a mettere mano al cantiere di nuove società interculturali”2
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Il futuro
Il “grande codice”, quindi, non è solo portatore di un’eredità con cui fare i conti (il crociano “non possiamo non dirci cristiani”, per citare un’affermazione esemplare). Il messaggio biblico, interrogato a scuola e oltre, è consapevole di portare un significato valido anche per l’abitante della post-modernità. E questo in un duplice senso. Il primo dei quali è che se siamo di fronte al tramonto dei “grandi racconti”, quello biblico non ha paura di misurarsi con la fine delle grandi ideologie o dei miti fondanti. Esso narra non la forza del potere, ma quella dell’amore. Tra l’amore per il potere o il potere dell’amore, il racconto biblico ha fatto la sua scelta di campo. Non si rammarica, cioè, della fine delle certezze ideologiche su cui si sono costruite tante vicende violente ed intolleranti. Il secondo contributo del grande codice biblico all’uomo post-moderno è quello di conservare un senso dentro la frammentazione e il disorientamento che egli sta vivendo, navigando a vista. Un senso, quello custodito dalla pagine della Bibbia, non consegnato a sistemi totalitari messi in campo dalla ragione o magari dalla religione, ma appellante la libertà e la responsabilità di ognuno. Perché dà voce ai poveri, agli emarginati, alle vittime e a partire da loro appella all’impegno, alla cura, alla compassione. E in questa risposta libera che ognuno di noi è chiamato a dare riappare anche il senso che l’uomo post-moderno ha perso. E’ il miracolo della bontà, della giustizia, della gratuità quello raccontato dalla Bibbia.
Il sapere del grande codice
L’ermeneutica biblica che si interroga sullo statuto epistemologico del “grande codice” osserva che quello della Bibbia non è un sapere scientifico, né filosofico e neppure estetico3
. La ragione analitica che scompone il mondo per dire come è fatto e il cui linguaggio sono la sperimentazione e la verifica non sono la “ragione” e il linguaggio che propone il racconto evangelico, che pure parla e conosce il mondo. Se ancora oggi, il dibattito tra sapere scientifico e sapere biblico viene male interpretato (da una parte con il “concordismo” di galileiana memoria, dall’altra con l’assolutismo scientifico di certa letteratura moderna) occorre forse chiarire una volta per tutte che quello del vangelo non è un sapere scientifico come sopra esplicitato. Ma non è neppure un sapere filosofico. Quello del logos, della ragione riflettente e argomentate e della logica come linguaggio. Il Dio di Gesù Cristo, cioè, non è descritto bene dalla cifra filosofica della pienezza dell’essere, ma da quella biblica della misericordia e della compassione. Tra Atene e Gerusalemme, insomma, esiste una differenza irriducibile: il primato della conoscenza della prima diventa il primato della bontà della seconda; se Atene si preoccupa dell’essere quando invita a “conoscere te stesso”, Gerusalemme richiama alla responsabilità assoluta nei confronti dell’altro quando ordina di “amare lo straniero, il povero e perfino il nemico”. Quello biblico, poi, non è neppure un sapere estetico: se nel racconto evangelico poesia e bellezza sono presenti, esse vi sono perché rimandano ad altrove. La bellezza dell’umano nel vangelo è quella che non riposa in se stessa, ma che rimanda a Dio e alla relazione con gli altri. Insomma, quale sapere è quello del vangelo?
Se come sostiene Jean-Luc Marion, la vera domanda filosofica non è quella gnoseologica (cosa posso conoscere?), ma quella erotica (cos’è l’amore e chi è capace di amare?), il vangelo, allora, risulta essere un testo che introduce al sapere erotico!
Esso, infatti, non si interessa tanto della conoscenza, ma parla e presenta sempre l’amore che l’essere umano ha ricevuto e che è ordinato a dare. Non è la Bibbia, certo, che introduce per prima la questione dell’amore; anche la filosofia greca parla e discute di Eros. Ma nel vangelo l’amore non è, come per i greci, energia vitale, ma amore di alterità. L’unico in cui sia possibile sperimentare la libertà non come autoaffermazione, ma come bontà e questa non come irradiazione di sé, ma come autolimitazione di sé.
Così come, secondo la nota interpretazione cabalistica, è avvenuto con la creazione: essa non va intesa come productio ex nihilo, o come rimessa in ordine del caos originario, come suggeriscono i miti cosmogonici delle diverse religioni, ma come autolimitazione del divino. Egli si limita per permette al mondo di nascere. Questo è il primo racconto “erotico” della bibbia. Quindi l’amore di cui si parla nella Bibbia non è quello di tipo platonico, l’amore come impulso irresistibile verso qualcosa. Quello messo in campo dal Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, così come del Dio di Gesù, è l’amore come libertà d’amare che ama l’altro in quanto altro. Non la fusione o la riduzione ad unità, ma l’amore che permette la relazione tra molteplici ed esalta la diversità è quello delle pagine del vangelo. Possiamo concordare, allora, con il biblista Carmine Di Sante quando scrive: “Risposta alla domanda sull’amore, la bibbia è, per questo, il più grande trattato erotico mai scritto o, per evitare equivoci lessicali, il più grande trattato di agape alternativo al Simposio di Platone, rispetto al quale si pone come radicalmente altro e sovversivo”4
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Quale ermeneutica?
Prima di introdurre ad un possibile viaggio biblico tra alberi, erbe, piante e paesaggi occorre precisare, dopo aver detto eredità, possibilità per il futuro e tipo di sapere del grande codice, anche con quale ermeneutica possiamo (e forse dobbiamo, tanto più a scuola) provare a leggerlo. Oltre al modello re-interpretativo o attualizzante (testo sacro che parla per l’oggi), oltre la tentazione degenerativa (testo sacro come pretesto), è possibile leggere il “grande codice” attraverso il modello trasfigurativo: far germogliare possibilità che l’esegesi biblica non vede o ignora. Attraverso tale ermeneutica possiamo tornare al testo e rileggerlo per noi.
Viaggio nella Bibbia tra alberi, erbe, piante e paesaggi
“Allora il Signore Dio fece crescere una pianta accanto a Giona per fargli ombra e calmarlo. E Giona ne fu contento” (Gio 4,6-7). Si tratta della nota vicenda di Giona e l’altrettanto noto alberello di ricino (qiqajon) sotto cui il profeta ha trovato rifugio dal sole cocente. Ma per un solo giorno. Il profeta non sembra disponibile ad far propria la logica divina: quella della misericordia universale, capace di perdonare anche i niniviti.
La pianta, miracolosamente nata e altrettanto misteriosamente morta, serve a Dio per ricordare a Giona: “Ti inquieti tanto per una pianta che tu non hai curato né hai fatto crescere. E per di più è durata solo un giorno e una notte! E io non dovrei preoccuparmi di Ninive, la grande città!”
C’è poi il cipresso o acacia, in ogni caso legno robusto, con cui Noè deve, invitato da Dio, costruire l’arca. “Costruisciti un’arca, una grande imbarcazione in legno robusto.
La fari con molti locali e la spalmerai di pece dentro e fuori…” (Gn 6,14). Arriva il diluvio, una grande inondazione. Storia conosciuta anche questa, archetipo di tante altre narrazioni successive. Tra i possibili commenti, serve al nostro viaggio nel mondo vegetale della Bibbia ricordare che l’arca di cipresso è ciò che permette, ieri come oggi, di navigare in tempi incerti. Noè sembra dire all’uomo post-moderno che non è importante salvare qualcosa dalla mutazione, quanto salvare il senso nella mutazione.
Abitare i tempi incerti, senza rifiutare l’incertezza, senza trovare false soluzioni nella risposta di tipo assolutistico o fondamentalistico.
Continuando la storia di Noè, occorre ricordare, parlando di natura, il grande simbolo dell’arcobaleno, ponte tra terra e cielo, come è stato definito. “Ho messo il mio arco tra le nubi. Sarà il segno dell’impegno che ho preso con il mondo…” (Gn. 9,13).
Accanto alla promessa divina, quando Dio rinnova il suo impegno, anche la responsabilità umana. Il cielo di Dio e la terra dove vivono gli uomini e le donne.
L’arcobaleno è simbolo di questa alleanza “noachica”, cioè con tutti e per tutti.
L’impegno divino non chiede, insomma, un’appartenenza di tipo etnico (essendo Noè un “santo pagano”, per dirla con Daniélou), ma una responsabilità di tipo etico. Si corrisponde a Dio, secondo la Bibbia, se si è, come Noè, “uomini giusti” (Gn. 6,9).
Ancora la Genesi nel primo dei testamenti richiama il mondo vegetale quando, raccontando la drammatica storia dei due gemelli, ricorda il trattamento di Giacobbe nei confronti di Esaù. “Un giorno mentre Giacobbe stava cuocendo una minestra, arrivò dalla campagna Esaù, stanchissimo…Esaù giurò a Giacobbe che gli cedeva i suoi diritti di primogenito. Soltanto allora Giacobbe diede al fratello pane e minestra di lenticchie…” (Gn. 25,29;33). L’ingiusto comportamento di Giacobbe, che inganna il fratello con un piatto di lenticchie, meriterebbe ben altra sorte di quella riservata al patriarca per eccellenza di Israele (al punto che la Bibbia quando vuole parlare delle comunità di Israele usa l’espressione “casa di Giacobbe”). Ma il Dio di Giacobbe (e di Abramo e Isacco) supera la logica dei crediti e dei debiti. Nella sua casa non si amministrano le cose secondo il dare-avere. E anche l’ingannatore Giacobbe può, dopo aver lottato con Dio, ritessere il rapporto con il fratello e imparare da lui, capace di perdono, la fratellanza.
Dando seguito alla lettura, al capitolo 30 del libro della Genesi, si narra di Rachele e della sua sterilità. “Al tempo della mietitura del grano, Ruben andò in campagna, trovò mandragole e le portò a Lia sua madre. Rachele disse a Lia: dammi un po’ delle mandragole di tuo figlio…” (Gn. 30, 14). La sterile Rachele chiede delle mandragole, disposta a qualsiasi prezzo, per superare la sua umiliazione. E il frutto in questione nell’immaginario culturale (e biblico) simboleggia un potere afrodisiaco. Di fatto, Rachele “rimase incinta e partorì un figlio. Allora disse: “Dio mi ha liberato dalla mia umiliazione” (Gn. 30,23). Ancora una volta la logica divina si presenta come paradossale: il vuoto diventa pieno. Rachele e prima di lei Sara sono il vuoto su cui il Dio di Israele ha costruito il suo pieno di salvezza.
Se poi vogliamo spiegare la Bibbia con la Bibbia, possiamo ancora ricordare, tra i tanti, un vegetale evangelico: la senape. L’apologo al riguardo è conosciuto: “Il regno dei cieli è simile a un granello di senape…esso è il più piccolo di tutti i semi”. Destinato, però, a diventare un albero così grande che gli uccelli “vengono a fare il nido fra i suoi rami” (Mt. 13,31-32). La logica del regno non è quella del potere. Si serve, per crescere, di piccoli semi, piccoli gesti, semplici persone. Una contro-logica rispetto a quella dominante.
E alla fine di questo viaggio (in realtà appena abbozzato tanti sono i rimandi agli elementi naturali e vegetali presenti nel “grande codice”) cosa concludere? Quale il vero tema sotto i simboli della pianta di ricino, del legno di cipresso, ma anche dell’arcobaleno oppure delle lenticchie e mandragole o ancora della senape? Come leggere insieme i temi diversi a cui tali riferimenti rimandano? Forse è possibile trovare il filo conduttore del racconto biblico, così plurale e ricco anche nei rimandi agli elementi vegetali, quando constatiamo che il Dio della Bibbia non è un Dio metafisico, ma etico. Non tanto “sono colui che sono” (Es 3,14), quanto “sono colui che è vicino a te”. Ma per scoprire tale “densità etica” occorre de-ellenizzare la Bibbia, liberarla dalla gabbia metafisica in cui è stata interpretata. Questa la pars destruens. Dopo la quale, è possibile passare alla pars construens. Se la Bibbia è stata de-ellenizzata, essa va comunque ri-mitizzata per l’uomo e la donna della post-modernità. C’è, cioè, un linguaggio simbolico nella narrazione biblica che, una volta decostruito per capirne il messaggio vero, va anche lasciato parlare come linguaggio che unisce ad altre narrazioni. Così il fiore di loto del cantico dei cantici può essere il simbolo del confronto con il buddismo, la vigna delle parabole evangeliche può rimandare alla narrazione ebraica e, infine, il melograno, frutto della terra promessa, è lo stesso frutto presente nei giardini di cui parla il Corano.
Tra piante, fiori e frutti, allora, è possibile riproporre il “grande codice” accanto ad altrettanti altri codici perché, infondo, tutti condividono la vera domanda filosofica, quella che tutti dobbiamo farci: non è tanto “perché l’essere piuttosto che il nulla”, ma “come sia possibile il bene al posto del male”. In fondo, stupirsi che l’amore vinca la morte!
1 U. Eco, Perché l’Iliade e non la Bibbia? In “L’Espresso”, 10//9/1989.
2 B. Salvarani – A. Tosolini, Bibbia cultura, scuola, Claudiana, Torino 2011, p. 40-41.
3 Sono le note offerte dalla ricerca biblica di Carmine di Sante. Vedasi, tra altri, La Bibbia: la verità e il suo linguaggio, Pazzini, Villa Verucchio (RN), 2015.
4 Ibidem