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Lidia Maggi Quando la (mala)fede incatena le donne

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teologa e pastora battista

Quando la fede incatena le donne
Parlare di Eva non significa solo ripercorrere un mito antico, raccontato nelle prime pagine delle Scritture.
Implica, piuttosto, affrontare lo scandalo di una discriminazione all’interno del mondo del cristianesimo, che ha insegnato il disprezzo nei confronti delle donne.
Il racconto di creazione che mette in scena la prima coppia è stato letto, ideologicamente, per giustificare la presunta subordinazione della donna nella Chiesa e nella società.
Leggere la storia di Eva senza tenere conto del peso che le interpretazioni hanno avuto nell’immaginario collettivo, sarebbe ingenuo. Eva è diventata l’archetipo della tentatrice; e con lei tutte le donne al seguito.
La colpevolizzazione delle donne, attraverso il mito di Eva, è ben riassunta dalle parole di Tertulliano: «Voi siete la porta del demonio; con quanta facilità avete distrutto l’uomo, l’immagine di Dio; a causa della morte che avete attirato su di noi, persino il Figlio di Dio è dovuto morire».Con Eva, dunque, entriamo in una delle pagine bibliche più appesantite da letture ideologiche.

Non è bene che il terrestre sia solo
La Bibbia si apre con due diverse storie di creazione. Sono miti, racconti delle origini, non narrazioni storiche. Evocano un mondo dove i confini tra cielo e terra sono labili. I miti provano a mettere in luce verità esistenziali non attraverso argomentazioni razionali, ma per mezzo di racconti. Nel primo mito biblico, l’essere umano è creato all’apice dell’atto creativo, il sesto giorno.
Qui, l’uomo e la donna vengono generati contemporaneamente, a immagine di Dio.
E, generalmente, è questo il racconto evocato quando si parla della creazione dell’uomo; mentre, se si parla di donne, diventa normativo il secondo mito: l’umanità creata agli inizi, quando, prima ancora che il mondo fosse, Dio forma dalla terra una creatura terrestre, non ancora connotata, per custodire e lavorare la terra. Quello che le nostre Bibbie traducono con “uomo”, sarebbe più corretto rendere con “terrestre”. Nonostante il soffio divino, c’è qualcosa di incompiuto in questa creatura che le impedisce di essere felice.
«Non è bene che la creatura terreste sia sola».
Gli manca una corrispondenza, qualcuno che possa stargli a fianco. Ecco perché dal fianco del terrestre viene tratto il frammento con cui Dio modella la donna, così che ci sia piena corrispondenza, pariteticità e i due possano camminare fianco a fianco.
Quando si giustifica la subordinazione della donna in quanto tratta dall’uomo, si fa violenza al testo che vuole dire proprio il contrario.

Scontare la propria fragilità
L’episodio successivo vede la donna agire nel giardino. A lei si rivolge il serpente per tentarla, sfruttando proprio quei doni che la rendono così amabile: la sua curiosità, il desiderio di essere immagine e somiglianza di Dio e, infine, la generosità, la voglia di condividere con il suo compagno esperienze
gustose. La donna divide il frutto con l’amato. Perché anche l’uomo era con lei nel giardino. Entrambi sono responsabili di quella disubbidienza e, di fatto, entrambi si nascondono quando si rendono conto dell’inganno e delle sue conseguenze. Nella loro nudità si sentono vulnerabili e se ne vergognano. I loro occhi ora mettono a fuoco la loro fragilità. Il mito non è un racconto storico, ma simbolico. Come dare voce al sospetto che la felicità umana possa scaturire dal potere di controllare tutto, per l’appunto, il bene e il male? Il racconto del giardino di Eden prova a farlo attraverso le parole sibilanti del serpente. La coppia umana fa qui esperienza di come sia difficile accettare la realtà ed i suoi limiti. Se, con la scoperta della sessualità, e dunque della propria parzialità, un canto era scaturito sulle labbra dell’uomo - «carne della mia carne, osso delle mie ossa!» - ora, con l’esperienza del frutto, l’umanità acquisisce un’altra percezione di sé. Sa di essere vulnerabile, nuda e questa consapevolezza fa paura. Ci si sente senza pelle, esposti a tutte le intemperie.
Altro che creature divine: siamo fragili; ed ora, nel giardino, insieme, ne abbiamo acquisito consapevolezza. Ma esserne consapevoli non significa accettarlo!
Sempre latente è la sindrome del controllo. È questa che rompe l’armonia, la possibilità di sostenersi nella fragilità, camminando fianco a fianco. Il mito racconta proprio questo: il sospetto che la creatura umana possa essere più felice, se ha il potere di avere tutto sotto controllo, piuttosto che attraverso la solidarietà. Accettare i propri limiti senza sentirli come mutilazione, è parte del difficile processo di umanizzazione. Desiderare di essere altro da sé, appunto, essere come Dio, crea solo nevrosi e competizione. Di fatto, la conseguenza dell’inganno e l’amara accettazione della propria fragilità provocano la rottura di una solidarietà. L’uomo e la donna non sono più l’uno accanto all’altra, si nascondono da sé stessi e da Dio. Si accusano a vicenda: sono rivali.
Dio li cerca nella foresta dove si sono perduti, come il buon pastore cerca la pecora che si è smarrita. Nel dialogo con Dio l’uomo e la donna acquistano consapevolezza di dove li abbia portati la mancanza di fiducia nel progetto divino e il loro rifiuto della fragilità.
Le parole di Dio non sono la punizione per la disubbidienza umana, frutto di un inganno; piuttosto, esprimono l’amara constatazione che ogni azione ha conseguenze e la negazione dei propri limiti deforma il mondo. La gioia del lavoro diventa solo fatica, come per la donna la gioia di generare è solo travaglio e doglie. Solo il serpente verrà maledetto da Dio. La coppia umana viene cercata da Dio affinché le sia restituita la vocazione originaria: custodire la terra e generare nuove vite.
Una benedizione che non viene meno ma che non sarà una passeggiata.

Onora il padre… e la madre!
L’uomo conoscerà la fatica del lavoro, la donna la fatica di generare. Dio dice alla donna: ti rendi conto delle conseguenze del tuo gesto, di cosa accade quando vuoi controllare il bene e il male e dunque la vita? «Il tuo desiderio si volge verso il tuo uomo, ma lui ti domina»: un’affermazione che suona come la più sintetica definizione del patriarcato che, nel mito biblico, non nasce come ordine sociale divino, ma come inganno, deformazione del creato. Esso è quel “peccato originale” che richiede un atto redentivo per ristabilire il sogno originario di Dio di un’umanità maschile e femminile, diversa eppure solidale. La donna, fuori dal giardino, rivestita come l’uomo di una nuova pelle, cucita dalle mani di Dio, dovrà affrontare la vita senza protezione. È qui che riceve il suo nome dall’uomo che ama: Eva, madre di ogni vivente. Attraverso di lei l’atto generativo di Dio continuerà. Colei che è stata tratta dal corpo umano potrà generare vita, ogni vita! Eva è la madre non onorata nella chiesa.
La chiesa ha disubbidito al precetto «onora il padre e la madre» quando ha infangato la memoria della matrice originaria riversando ingiustizia e discriminazione su tutte le figlie di Eva. È tempo di cambiare strada e scegliere la vita.
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