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Romano Penna "Il femminismo di san Paolo"

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Paolo e le donne
del 1 dicembre 2018

Il tema del ruolo delle donne nelle lettere di san Paolo ha suscitato negli ultimi anni grande interesse, con una bibliografia che almeno ne documenta la complessità. Del resto, alcuni casi sono stati trattati su questo giornale con magistrale competenza dalla decina di autrici che vi si sono succedute e che citerò più avanti.


Ora intendo qui richiamare i dati principali riguardanti il “femminismo” di Paolo documentato nelle sue lettere autentiche, a prescindere da quelle della posteriore tradizione paolina dove per la verità il tono sull’argomento cambia (come in 1 Timoteo 2, 9-15). Probabilmente è sulla base di questi altri testi che qualcuno anni fa definì Paolo come «il maschio più sciovinista di tutti i tempi». Eppure già nel iv secolo un rappresentante di prim’ordine dei padri della Chiesa come san Giovanni Crisostomo, a commento del passo della Lettera ai Romani dove di una certa Maria si dice che «ha faticato molto per voi» (Romani 16, 6), scriveva senza mezzi termini: «Di nuovo Paolo esalta e addita a esempio una donna, e di nuovo noi uomini siamo sommersi dalla vergogna! O meglio, non solo siamo sommersi dalla vergogna, ma siamo anche onorati. Siamo onorati, infatti, perché abbiamo con noi donne del genere; ma siamo sommersi dalla vergogna, perché siamo molto indietro al loro confronto».

In effetti, dichiarazioni polemiche come quella ricordata, non solo non colgono nel segno, ma suscitano un senso di rammarico per l’incomprensione che vi sta a monte. E viene voglia di fare come Diogene il Cinico che, vedendo un arciere incapace di centrare un obiettivo, «si sedette vicino al bersaglio dicendo: “Lo faccio perché non mi colpisca”». Fuor di metafora, è davvero meglio mettersi dalla parte di Paolo per non essere centrati da chi cerca di colpirlo, visto che lo fa inutilmente sbagliando bersaglio! Il fatto è che una serie di passi epistolari rivelano un femminismo davvero interessante, come ora andiamo a vedere.

Relativizzazione del genere. Alla base c’è l’affermazione quanto mai eloquente e sorprendente che Paolo fa nella Lettera ai Galati dove espone un principio fondamentale: «Tutti quanti siete stati battezzati in Cristo avete rivestito Cristo. Non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno solo in Cristo Gesù» (3, 27-28). Vengono così annullate tutte le differenze o meglio le contrapposizioni: culturali, sociali, e persino sessuali. In quest’ultimo caso, l’apostolo non intende certo affermare che tra i cristiani si verifichi il superamento del dato creaturale della distinzione dei generi (ben stabilito in Genesi 1, 27). Su questa distinzione in Israele si era fondata una pretesa superiorità dell’uomo sulla donna, come si legge in Flavio Giuseppe: «La donna, come dice la Legge, è in ogni cosa inferiore all’uomo» (Contro Apione 2, 201), mentre il Talmud Babilonese decreta che in sinagoga «una donna non deve leggere dalla Torah per rispetto all’assemblea» (Megillah 23a), anche se altre affermazioni sembrano attenuare il giudizio come leggiamo in un midrash: «Se un povero dice qualcosa, vi si presta poca attenzione; ma se parla un ricco, subito egli viene ben ascoltato; tuttavia, davanti a Dio tutti sono uguali: donne, schiavi, poveri e ricchi» (Esodo Rabbà 21, 4).

Resta comunque il fatto che in Paolo la prospettiva non è soltanto quella di una mera uguaglianza davanti a Dio, bensì e soprattutto quella di una parità di funzioni a livello comunitario. Egli «non afferma che in Cristo non ci sono più uomini e donne, ma che il matrimonio patriarcale e i rapporti sessuali fra maschio e femmina non sono più costitutivi della nuova comunità in Cristo. Senza tener conto delle loro capacità procreative e dei ruoli sociali con queste connessi, le persone saranno membri a pieno titolo del movimento cristiano nel e mediante il battesimo» (così giustamente Elisabeth Schüssler Fiorenza). Non per nulla, l’intera frase paolina si trova nel contesto di una riflessione sul battesimo, e questo rito, a differenza della circoncisione praticata in Israele, evidenzia appunto l’uguaglianza tra maschi e femmine.

Un velo incerto. In 1 Corinzi 11, 2-16 Paolo discorre notoriamente di un velo o copricapo che le donne dovrebbero indossare durante le assemblee liturgiche. Le motivazioni della richiesta, a parte la prassi della necessità del capo coperto in momenti cultuali (forse si tratta del lembo della toga o del peplo: si ricordi che secondo l’uso romano di norma gli uomini stessi potevano partecipare al culto capite velato), possono essere di due tipi. L’uno consisterebbe nel fatto che, data la menzione degli angeli in 11, 10 («la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli»), riecheggi qui l’idea giudaica del rispetto per la loro presenza durante la preghiera (così a Qumran). Inoltre è possibile che Paolo sia preoccupato di una certa emancipazione femminile ritenuta spregiudicata con l’assunzione di una pettinatura poco consona alla donna; infatti in 1 Corinzi 11, 15 egli addirittura identifica il velo (peribòlaion) semplicemente con la lunga capigliatura femminile (kòme). In ogni caso, questa disposizione riguarda le donne solo nel momento in cui intervengono a parlare apertamente durante l’assemblea liturgica, ritenuta comunque una prassi indiscutibile.

Silenzio accessorio. Un testo ben noto è 1 Corinzi 14, 34-35, che parrebbe contrastare ogni enunciazione di egualitarismo: «Le donne nelle chiese stiano zitte (...) È indecente infatti per una donna parlare nell’assemblea». Questa frase è stata spesso un cavallo di battaglia dentro e fuori la Chiesa per dimostrare l’antifemminismo di Paolo, sia per condividerlo sia per condannarlo. In realtà, l’esegesi odierna evita queste ermeneutiche contrapposte e comprende l’affermazione dell’apostolo in termini positivi, sia pure con posizioni differenziate. Da una parte, infatti, c’è chi addirittura ritiene che queste parole non appartengano al testo originale della lettera ma siano state inserite posteriormente nel corso della tradizione manoscritta come una glossa, sulla base di un passo deutero-paolino (cfr. 1 Timoteo 2, 11: «La donna impari in silenzio con tutta sottomissione; non concedo a nessuna donna di insegnare né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo»). Ma, se quest’ultimo testo è inequivocabile, bisogna riconoscere che esso manifesta un successivo e deteriorato atteggiamento verso la donna nella Chiesa. Il Paolo storico, infatti, documenta un tutt’altro modo di vedere le cose. Ciò che fa problema semmai è l’aperto contrasto con il fatto che l’apostolo dà assolutamente per scontato che le donne possano intervenire liberamente in pubblico, senza porre loro alcuna museruola, come denota l’uso del verbo profetèuein impiegato a loro riguardo esattamente come per l’uomo (cfr. 1 Corinzi 11, 4-5).

Del resto, quanto Paolo scrive in 1 Corinzi 14, 34-35, se preso in senso restrittivo, può avere notevoli paralleli nel mondo ambiente. Per esempio, in Eschilo si legge che «spettano all’uomo le cose fuori casa: non se ne curi la donna, ma stia in casa e non crei danno (…) A te tocca tacere e stare dentro casa» (I sette contro Tebe 200-201 e 232); da parte sua Plutarco scrive: «Non solo il braccio, ma anche la parola della donna virtuosa non dev’essere per il pubblico, e deve avere pudore della voce come di un denudamento» (Precetti coniugali 31). Ma le parole di Paolo possono valere come semplice e banale ammonizione alle donne corinzie a non parlottare durante l’assemblea liturgica. Alternativamente, visto che poco prima a proposito di chiunque parla come glossolalo, cioè senza farsi capire, Paolo ha stabilito che abbia un interprete (14, 28: «Ma se non ha un interprete stia zitto nella chiesa»), si può pensare che l’apostolo proibisca alle donne di parlare soltanto come glossolale, dato che in 11, 5 egli dava per scontato che potessero parlare apertamente come profetesse, cioè in modo da farsi capire a edificazione della comunità.

Varie responsabilità riconosciute. In altre lettere è ampiamente documentata la partecipazione attiva di donne, addirittura menzionate singolarmente per nome, nell’esercizio di un impegno che riguarda sia la fondazione di chiese sia i ministeri al loro interno. Soprattutto l’ultimo capitolo della Lettera ai Romani, specie 16, 1-16, ci riserva una sorprendente documentazione in materia. Per sapere quante siano le persone qui lodate da Paolo per il loro impegno evangelico in rapporto alla comunità, scorriamo la nutrita lista di nomi di persone a cui sono rivolti i saluti: abbiamo sette nomi di donne (Prisca, Maria, Giunia, Trifena, Trifosa, Perside, Giulia); si potrebbe aggiungere il nome di Febe qualificata nel versetto 1 come «sorella» e soprattutto diàkonos della Chiesa di Cencre, ma essendo portatrice della lettera Paolo non le rivolge alcun saluto (cfr. i contributi di Rosalba Manes e di Andrea Taschl-Erber), a cui se ne aggiungono due innominate (a 13 la madre di Rufo e a 15 la sorella di Nereo), e diciassette nomi di uomini (Aquila, Epeneto, Andronico, Ampliato, Urbano, Stachi, Apelle, Erodione, Rufo, Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma, Filologo, Nereo, Olimpas). Ebbene, a livello di statistica dobbiamo constatare che le donne impegnate per l’Evangelo superano gli uomini per sette (Prisca, Maria, Giunia, Trifena, Trifosa, Perside, la madre di Rufo) a cinque (Aquila, Andronico, Urbano, Apelle, Rufo). Oltre a Febe notiamo il nome di Prisca (persino anteposta al nome del marito Aquila; cfr. l’articolo di Chantal Reynier), che ospita i cristiani nella propria casa, entrambi qualificati da Paolo come suoi «collaboratori»; poi vengono i nomi di Maria «che ha faticato molto per voi», di Giunia accomunata ad Andronico, essendo entrambi «insigni tra gli apostoli» e quindi apostolo essa stessa (cfr. l’articolo di Carmen Bernabé), poi Trifena e Trifosa «che hanno lavorato per il Signore» (cfr. l’articolo di Dominika Kurek Chomycz), e infine di Perside definita «carissima», di cui si ripete che ha lavorato per il Signore. Basterebbe questa secca pagina epistolare per smentire quanti hanno scritto di un supposto antifemminismo di Paolo.

Menzioni ulteriori. In altre lettere emergono altri nomi di donne impegnate nelle rispettive comunità. Così la Lettera a Filemone, generalmente citata con il solo nome del destinatario maschio, in realtà è indirizzata «al carissimo Filemone, nostro collaboratore, alla sorella Affia, ad Archippo nostro compagno» (1-2), dove la menzione della donna fra due uomini, probabilmente moglie del primo, denota quanto essa sia degna di altrettanto rilievo all’interno della comunità; d’altronde nelle antiche lettere papiracee è molto raro che tra i destinatari ci sia una donna.

Con ogni probabilità anche i nomi di Evodia e Sintiche, esortate ad andare d’accordo (in Filippesi 4, 2), sono quelli di due donne con funzioni particolari all’interno della comunità di Filippi (cfr. l’articolo di Marta García Fernández).

E non parliamo dei nomi di Lidia (in Atti degli apostoli 16, 14-16; cfr. l’articolo di Maria Pascuzzi), di Cloe (in 1 Corinzi 1, 11), e poi di Tecla (negli apocrifi Atti di Paolo e Tecla). In tutti questi casi Paolo rende onore a un’intera serie di donne per il loro impegno di attiva responsabilità dimostrato nella vita delle Chiese. A parte andrebbe poi ricordato il diritto che egli poteva accampare di avere con sé, non una donna credente (come la Bibbia della Conferenza episcopale italiana traduce adelfèn gynàika in 1 Corinzi 9, 5) ma una credente come moglie (a Christian wife secondo la cattolica New American Bible).

In conclusione, si può ritenere che all’interno delle Chiese paoline le donne esercitassero delle funzioni tali che non ebbero neanche al tempo di Gesù, a parte una loro significativa presenza alla croce e al sepolcro vuoto. Infatti, di una loro responsabilità ecclesiale si può parlare solo nel periodo successivo alla Pasqua e specificamente appunto nelle Chiese paoline, dato che non abbiamo notizia di donne attive nelle Chiese giudeo-cristiane (a meno di considerare tali quelle delle Lettere Pastorali, dove però viene riconosciuto un ruolo particolare al gruppo delle vedove in 1 Timoteo 5, 3-16, su cui si veda l’articolo di Nuria Calduch-Benages).

In ogni caso non è fuori luogo riconoscere che dall’insieme scaturisce una importante lezione anche per la Chiesa di oggi.

di Romano Penna

Romano Penna è professore emerito di Nuovo Testamento della Pontificia università Lateranense e professore invitato alla Pontificia università Gregoriana, alla Facoltà teologica di Firenze, e alla università di Urbino, oltre che allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme. I suoi interessi vertono su Paolo di Tarso, sulle cristologie del Nuovo Testamento e sulla inculturazione del primo cristianesimo.
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