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Enzo Bianchi "Il Papa della mia vicenda cristiana"

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Ritratto spirituale di Paolo VI
del 24 novembre 2018

Non ho conosciuto personalmente Paolo VI e non l’ho mai incontrato, a differenza di quanto mi è accaduto con i suoi successori. L’ho ascoltato, l’ho visto, certamente l’ho sempre letto, e devo confessare che ogni volta che sono chiamato a dire qualche parola sulla Chiesa e sull’evangelizzazione, rileggo i suoi scritti, che restano insuperati dallo stesso magistero papale successivo.
Questo lo ha detto in varie occasioni anche Papa Francesco, riferendosi soprattutto all’enciclica Ecclesiam suam (6 agosto 1964) e all’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), testi che non hanno ancora indebolito né esaurito la loro forza ispiratrice, e perciò profetica, per la vita della Chiesa e dei cristiani nella storia degli uomini.

Paolo VI è stato il Papa della mia vicenda cristiana e monastica che, nata alla fine del concilio, è cresciuta durante gli anni del suo pontificato, assumendo quel profilo che è diventato forma vitae nostrae e trovando collocazione e comunione nella Chiesa. Qui vorrei solo ricordare un momento della sua vita che è stato vissuto da me e dalla mia comunità con un’intensità e una consapevolezza forti. Il 6 agosto, festa della Trasfigurazione del Signore, è la ricorrenza scelta da noi come festa della comunità, giorno in cui, nella gloria e nella luce del Cristo trasfigurato, celebriamo le professioni monastiche definitive, emettendo i voti davanti alla Chiesa.

Quel 6 agosto del 1978 avevamo vissuto la liturgia eucaristica nella quale un fratello e una sorella si impegnavano per sempre nella vita monastica, stringendo l’alleanza definitiva. Alla sera, nel chiarore dell’estate, eravamo nella chiesetta a celebrare compieta, e io stavo tenendo la monizione fraterna, invitando tutti al ringraziamento, quando un fratello venne a sussurrarmi nell’orecchio la notizia della morte di Paolo VI. Dopo qualche istante di silenzio dissi semplicemente: «Ecco, nel segno della trasfigurazione del Signore, nella bellezza della gloria del Signore, Paolo VI ha incontrato il volto da lui tanto amato. La sua morte alla sera di questo giorno riceve dal Signore il sigillo: ha amato Gesù Cristo e la sua bellezza umana e divina, e in questa luce il Signore lo ha preso con sé».

Ricordo ancora vivamente il modo in cui Paolo VI proclamava il termine “Cristo”: con voce convinta e vibrante, ripetendolo più volte, quasi in una litania nella quale egli vi accostava definizioni e attributi densissimi. Già in questa espressione, e nello stile con cui la pronunciava, si intuivano tutto l’amore, tutta la fede e tutta la speranza che Paolo VI poneva nel Signore Gesù. La sua vita spirituale — tutti l’hanno notato — era essenzialmente cristocentrica, perché Cristo, il Figlio di Dio e l’uomo nato da Maria, era al centro di ogni suo pensiero, parola e azione.

Restano memorabili le sue parole del 29 settembre 1963, nell’allocuzione di apertura della seconda sessione del concilio, quando volle raffigurarsi nel suo rapporto con Cristo ricorrendo a questa immagine: «Noi sembriamo quasi rappresentare la parte del nostro predecessore Onorio III che adora Cristo, come è raffigurato con splendido mosaico nell’abside della basilica di San Paolo fuori le Mura. Quel pontefice, di proporzioni minuscole e con il corpo quasi annichilito prostrato a terra, bacia i piedi di Cristo, che, dominando con la mole gigantesca, ammantato di maestà come un regale maestro, presiede e benedice la moltitudine radunata nella basilica, che è la Chiesa».

Questa è veramente l’icona capace di illustrare il rapporto vitale che Paolo VI viveva con il Cristo Signore. Egli aveva un profondo senso di umiltà e di indegnità personale, confessava la sua pochezza e il suo peccato, come Pietro quando disse a Gesù: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore» (Luca, 5, 8). Ma si sentiva anche un suo discepolo chiamato e amato, un successore di Pietro al quale Gesù continuava a chiedere nient’altro che l’amore: «Mi ami tu? (…) Pasci i miei agnelli» (Giovanni, 21, 15). Quante volte la penna di Paolo VI trascrive le parole di questo brano evangelico in cui Pietro è fatto pastore sull’unico fondamento del suo amore per Cristo!

La sera della sua elezione a Papa, il 21 giugno 1963, annota: «Sono nell’appartamento pontificio: impressione profonda di disagio e di confidenza insieme». E aggiunge: «Il mondo mi osserva, mi assale. Devo imparare ad amarlo veramente. La Chiesa qual è. Il mondo qual è. Quale sforzo! Per amare così bisogna passare per il tramite dell’amore di Cristo: mi ami? Pasci! O Cristo, o Cristo! Non permettere che io mi separi da te».

Cristo era per Paolo VI «il compagno inseparabile». Si può dire che lui viveva insieme a Cristo (cfr. 1 Tessalonicesi, 5, 10), e tutto ciò che pensava, viveva, decideva, diceva e scriveva, sembra averlo fatto con accanto questa presenza. Segno di questo legame spirituale è anche un piccolo libretto, il Manuale Christianum (H. Dessain, Malines, 1914), contenente tra l’altro il Nuovo Testamento e L’imitazione di Cristo, che Paolo VI porterà sempre con sé, anche nei viaggi apostolici, fino al termine della sua vita.

Il Cristo in cui egli credeva e che amava era quello dei vangeli, letti con assiduità, meditati e pregati; vangeli certamente anche attualizzati grazie all’aiuto di varie opere su Cristo, in particolare di autori del novecento, ma soprattutto accostati come richiesto da L’imitazione di Cristo: attraverso la liturgia e l’ascesi cristiana che impegna a una continua reformatio di se stessi e delle realtà affidate a noi dalla volontà divina. Da tutti gli scritti di Paolo VI si riceve la testimonianza di una sequela sempre più intima di Cristo, che egli sente come Figlio di Dio venuto nel mondo attraverso l’incarnazione, ma per questo «Figlio dell’uomo» che «ha raffigurato in sé l’umanità nella sua tragica, immonda, conclusiva realtà: dolore e peccato. L’umanità lebbrosa di tutti i suoi mali, specchio del più spaventoso realismo; ognuno vi si ritrova. Ma perché?… Per far trovare noi stessi in lui; per assumere in sé ogni nostra sofferenza, ogni nostra miseria; per immensa, silenziosa, discreta ed effettiva simpatia. Per essere lui noi stessi», scrive nel 1971 in una lunga riflessione sulla passione di Gesù.

Paolo VI aveva un senso fortissimo del peccato dell’uomo, ma poneva questo peccato davanti a Cristo, confidando nella sua misericordia e nel suo perdono. Come non ricordare la grande preghiera litanica fatta nella basilica del Santo Sepolcro, durante il suo pellegrinaggio in Terra santa del gennaio 1964: «Siamo qui, Signore Gesù. Siamo venuti come i colpevoli che ritornano al luogo del loro delitto» e «tu sei la nostra redenzione e la nostra speranza».

Nel 1921, dunque appena ventiquattrenne, scriveva: «Desidero vederlo, Gesù, forse presto», e questo voler vedere il Signore è la sua ricerca essenziale, il filo conduttore di tutta la sua vita. In uno scritto di dieci anni dopo annota: «Voglio che la mia vita sia una testimonianza alla verità per imitare così Gesù Cristo, come a me si conviene» (cfr. Giovanni, 18, 37). Egli sceglie il nome di Paolo perché — confessa in una nota manoscritta dopo la sua elezione — l’apostolo era «amoroso di Cristo», amante di Cristo. Durante tutto il pontificato ha sentito rivolte a sé le parole del Signore: «Mi ami? (…) Pasci i miei agnelli». E nel Pensiero alla morte, il testo che è forse il più espressivo di Paolo VI, esclama in forma di preghiera: «Meraviglia delle meraviglie, il mistero della nostra vita in Cristo».

Il cristocentrismo di Paolo VI è un vivere con Cristo al centro, è un riconoscere Cristo come Signore, è una comunione con un Cristo che è compagno e amante. Cristo infatti «è il centro della storia e del mondo; egli è colui che ci conosce e che ci ama; egli è il compagno e l’amico della nostra vita», dice a Manila il 29 novembre 1970. Davvero «Paolo VI ha saputo testimoniare, in anni difficili, la fede in Gesù Cristo. Risuona ancora, più viva che mai, la sua invocazione: “Tu ci sei necessario, o Cristo!”. Sì, Gesù è più che mai necessario all’uomo di oggi, al mondo di oggi, perché nei “deserti” della città secolare lui ci parla di Dio, ci rivela il suo volto», ha detto Papa Francesco il 22 giugno 2013.

La prima enciclica di Paolo VI, l’Ecclesiam suam, è affidata alla Chiesa il 6 agosto del 1964, a poco più di un anno dall’inizio del pontificato. Non vuole essere un’enciclica dottrinale — dice il Papa — ma piuttosto esortativa e confortante, con uno stile aperto, non polemico ma spirituale. In questo testo, in cui fa ricorso a fonti essenzialmente bibliche, Paolo VI insiste in modo particolare sulla riforma della Chiesa, indicando un itinerario preciso, ovvero i tre assi portanti dell’enciclica: coscienza, rinnovamento, dialogo. La Chiesa deve «riflettere su se stessa», «approfondire la coscienza ch’ella deve avere di sé» (Ecclesiam suam, 19), sentirsi una. Ma quest’atto riflessivo altro non è che postura di ascolto e di obbedienza alla parola di Dio, docilità a Cristo Signore (cfr. Ecclesiam suam, 21 e 28).

Nella Chiesa Paolo VI vuole vedere il volto di Cristo, la sposa bella e pronta per il suo sposo (cfr. Efesini, 5, 27; Apocalisse, 21, 2) sempre rivolta con lo sguardo al Signore ma, nello stesso tempo, capace di collocarsi nella storia umana con lo stesso paradigma dell’incarnazione, cioè con il dialogo, quindi facendosi strumento di quel dialogo che Dio tesse con l’umanità. Il dialogo appare costitutivo della Chiesa, connesso alla sua intima natura e ragion d’essere. Così dunque il Papa si esprime in un passaggio dell’enciclica giustamente divenuto celebre: «La Chiesa deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa conversazione» e questo dialogo «deve ricominciare ogni giorno; e da noi prima che da coloro ai quali è rivolto» (Ecclesiam suam, 67 e 79).

E già a Betlemme il 6 gennaio 1964 aveva esclamato: «Noi guardiamo al mondo con immensa simpatia. E se anche il mondo si sentisse estraneo al cristianesimo e non guardasse a noi, noi continueremmo ad amarlo perché il cristianesimo non potrà sentirsi estraneo al mondo».

Se la salvezza passa attraverso lo spirito della relazione con Dio in Gesù, parola definitiva di Dio all’umanità (cfr. Giovanni, 1, 18; Ebrei, 1, 2), allora il dialogo è la forma e il contenuto con cui la Chiesa obbedisce al suo Signore e si pone a servizio dell’umanità, perché «tutto ciò che è umano ci riguarda» (Ecclesiam suam, 101). Ecco il nuovo stile che Paolo VI chiede alla Chiesa di adottare nel mondo contemporaneo: uno stile che è direttamente buona notizia, vangelo, in quanto afferma che il modo della presenza è tanto essenziale quanto il suo contenuto, che il modo di stare della Chiesa tra gli uomini è già messaggio. Così il dialogo diventa per Paolo VI un’arte di comunicazione spirituale, in cui chiarezza, mitezza, fiducia diventano anche carità della Chiesa verso ogni uomo e donna nel mondo: «La Chiesa si è quasi dichiarata l’ancella dell’umanità», dice Paolo VI il 7 dicembre 1965 nell’ultima sessione pubblica del concilio. «La Chiesa è l’ancella dell’uomo, la Chiesa crede in Cristo che è venuto nella carne e perciò serve l’uomo, ama l’uomo, crede nell’uomo», gli ha fatto eco Papa Francesco il 22 giugno 2013. Potremmo dire che Paolo VI ha gettato su di noi il mantello di una sapienza profetica e di uno stile di ascolto e di dialogo che la Chiesa solo ora inizia a imparare e a praticare.

Il terreno per l’evangelizzazione è dunque preparato, e quando Paolo VI scriverà l’Evangelii nuntiandi, il suo magistero più profetico e tuttora insuperato che Papa Francesco il 22 giugno 2013 ha definito «il documento pastorale più grande che è stato scritto fino a oggi», la Chiesa potrà ricordare che la parola di Dio è prima e che la conversione è seconda, ma è assolutamente necessaria affinché vi sia dialogo tra la Chiesa e il mondo. L’Evangelii nuntiandi è il paradigma del pensiero teologico-spirituale di Paolo VI ed esprime la sua postura di cristiano e di apostolo. Di un cristiano che cerca di portare il Vangelo nel mondo, non certo identificandolo con una cultura; anzi, il Vangelo spogliato da ogni cultura ma che sa entrare nel tessuto delle culture senza asservirsi ad alcuna, restando “buona notizia” che deve essere comunicata certamente mediante una buona comunicazione, ma soprattutto attraverso la testimonianza. Insomma un Vangelo vissuto, ovvero la coerenza e lo stile del cristiano che vive ciò che annuncia. Al riguardo, non si può non citare uno splendido passaggio di questa esortazione: «La Buona Notizia è anzitutto proclamata mediante la testimonianza. Ecco: un cristiano o un gruppo di cristiani, in seno alla comunità d’uomini nella quale vivono, manifestano capacità di comprensione e di accoglimento, comunione di vita e di destino con gli altri, solidarietà negli sforzi di tutti per tutto ciò che è nobile e buono. Ecco: essi irradiano, inoltre, in maniera molto semplice e spontanea, la fede in alcuni valori che sono al di là dei valori correnti, e la speranza in qualche cosa che non si vede, e che non si oserebbe immaginare. Allora con tale testimonianza senza parole, questi cristiani fanno salire nel cuore di coloro che li vedono vivere, domande irresistibili: perché sono così? Perché vivono in tal modo? Che cosa o chi li ispira? Perché sono in mezzo a noi? Ebbene, una tale testimonianza è già una proclamazione silenziosa, ma molto forte ed efficace della Buona Notizia» (Evangelii nuntiandi, 21). Paolo VI aveva una fede profonda nella dýnamis della parola di Dio: anche in questo era davvero paolino (cfr. per esempio Romani, 1, 16: «il Vangelo è dýnamis, potenza di Dio») e credeva fermamente che la Parola può compiere la sua corsa nel mondo (cfr. 2 Tessalonicesi, 3, 1), se coloro che la annunciano la vivono come l’ha vissuta Gesù Cristo.
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