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Lidia Maggi "Giuditta"

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Lidia Maggi

Non per tutti i cristiani il libro di Giuditta appartiene al canone biblico. Per le chiese della Riforma esso fa parte di quei libri chiamati deuterocanonici a cui la tradizione cristiana riconosce un carattere edificante.

Nella Bibbia troviamo alcuni libri che portano il nome di figure femminili, come Ester e Ruth. Anche Giuditta si colloca in questa genealogia.

E’ un testo composto, probabilmente, tra il secondo e il primo secolo ac. E, come tutti i libri deuterocanonici, è scritto in greco e non in ebraico. La protagonista è Giuditta, una donna ebrea autonoma e coraggiosa che, con la sua astuzia ed intraprendenza, riesce a salvare l’intero popolo assediato dal nemico.

Il personaggio di Giuditta entra in scena solo a metà del libro, al capitolo 8. Con una sapiente maestria letteraria, il narratore ha costruito un’attesa e una suspense intorno alla figura di questa donna su cui il lettore riversa tutte le aspettative di salvezza. Nella prima parte del racconto viene delineato uno scenario mondiale dove i più forti padroneggiano sui più deboli. Le tante inesattezze storico-geografiche suggeriscono che non ci troviamo di fronte ad eventi realmente accaduti dal punto di vista storico; e tuttavia, le situazioni che si delineano nel racconto richiamano le tante esperienze di oppressione che il popolo ha dovuto affrontare durante la sua parabola storica. E’ come se l’autore di questa epopea ci dicesse: “questa storia non è mai accaduta perché accade in ogni epoca”.

Il nemico cosmico è l’Assiria con a capo un re che pretende di essere considerato ed adorato come un Dio. Il suo nome è quello del famigerato Nebucadnetzar che, in realtà, era re a Babilonia. Queste incongruenze storiche, oltre a segnalarci che ci troviamo di fronte ad un racconto edificante, non preoccupato di fornire informazioni esatte, suggeriscono a chi ascolta che il potere del tiranno, nelle diverse epoche storiche, assume tratti ricorrenti, rivela il medesimo volto.

Il re dell’Assiria vuole sottomettere tutte le nazioni, ma una di queste sembra resistergli. E’ la più piccola, ma ha dalla sua il Dio di Israele (un po’ come nella nota saga di Uderzo e Goscinni a proposito del popolo dei Galli, indomabile all’impero romano, con i suoi due eroi Asterix ed Obelix!). Solo dalla relazione con il suo Dio dipende il successo o la sconfitta di Israele. Se il popolo è fedele, Dio lo protegge e salva, se invece pecca e tradisce, viene punito da questi attraverso il nemico di turno. La piccolezza di questa gente, dunque, non deve essere sottovalutata, come spiega inutilmente Achior ai potenti di Assiria.

Oloferne è il potente generale incaricato di sottomettere questo popolo ribelle. Viene deciso un assedio che ridurrà alla sete il popolo, assediato nella città di Betulia. Di fatto, la resistenza di Israele sembra venire meno nel momento dello stremo.

E’ solo a questo punto che entra in scena la nostra eroina, presentata dalla voce narrante come una ricca vedova che gode di grande rispetto tra il popolo. Giuditta è una donna autonoma, molto avvenente e fedele al Dio di Israele. La sua genealogia, la più lunga mai attribuita ad una donna nella Bibbia, la collega a Manasse, figlio di Giacobbe.

Giuditta convoca un consiglio degli anziani e annuncia loro che ha un piano per distruggere il nemico. Non si degna però di informarli nel dettaglio, su come intenda salvare la città dall’assedio. La nostra eroina abbandona il lutto e, vestita con abiti avvenenti, lascia la città verso l’accampamento nemico. L’accompagna la sua serva. E’ la forza della sua bellezza ad aprirle le porte dell’ospitalità nemica. Essa, mentendo, dichiara di essere scappata dalla città per trovare protezione sotto la tenda del potente Oloferne. Nessuno sembra poter resistere al fascino di quella fanciulla, apparentemente fragile, che implora salvezza. Ed eccola nell’accampamento nemico muoversi con maestria. Ottiene di poter uscire giornalmente dall’accampamento per compiere i suoi riti religiosi. Questo le permette una libertà di movimento necessaria per attuare il suo progetto. Nei primi giorni nulla accade, ma al quarto giorno, ecco che il generale Oloferne fa avere alla fanciulla un invito per un banchetto. Egli vuole sedurla e possederla. La ragazza accetta l’invito e si reca al convito. Il Generale esagera col vino fino a ritrovarsi ubriaco e solo con la donna desiderata. A quel punto Giuditta taglia la testa del nemico, la consegna alla sua serva e, come ogni giorno, lascia l’accampamento. Ritorna, dunque, nella città assediata e mostra il suo cimelio di battaglia. Questo evento genera un tale subbuglio che i soldati dell’esercito nemico, spaventati, fuggono tra le montagne, inseguiti dagli ebrei pronti alla battaglia. Il popolo è salvo e Giuditta, come prima di lei avevano fatto Miriam e Mosè, celebra la vittoria con inni e danze. La pace ritorna nella città di Betulia, dove Giuditta trascorrerà i suoi giorni fino alla fine nella più completa autonomia e nel rispetto del popolo che la venera per la sua astuzia e sapienza.

La storia ha evidenti lati ironici. Il regno più potente della terra viene annientato da una donna. La vittoria spesso risiede nell’astuzia, piuttosto che nella forza, tema caro ad Israele che ha dovuto affrontare in tante situazioni la propria debolezza militare.

Il nome stesso dell’eroina lascia intuire che si può leggere questa storia in chiave simbolica. Giuditta, nome che rimanda ai giudei, rappresenta Israele, spesso cantato dalla tradizione profetica come fanciulla bella e avvenente, legata a Dio da un patto sponsale. Un piccolo popolo può decapitare il potere assoluto, se confida in Dio e non nella propria forza militare.

Ma Dio, in questa storia, a dire il vero, sembra essere il grande assente, nonostante il suo nome riempia quasi ogni capitolo. Giuditta, che pure lo nomina e lo adora, non prega mai per chiedere a Lui consiglio: essa decide in piena autonomia, senza informare il popolo, disinteressandosi all’ascolto di ciò che Dio ha da dirle. Questo tratto, che sembra mettere in cattiva luce la fede della nostra eroina, è ciò che più mi attrae della vicenda. Giuditta si assume la piena responsabilità delle proprie azioni. Non ha la pretesa di conservare la sua integrità personale, anche se alla fine si tutela dichiarando di non aver avuto rapporti intimi con il nemico. In situazioni estreme - sembra suggerire questo racconto - la differenza tra il bene e il male richiede un ulteriore discernimento, rispetto a quello fornito dalla Legge. Non basta, cioè, attenersi al “non uccidere”; occorre rischiare ed agire per far fronte ad una situazione drammatica, che produce morte. Nel rileggere la vicenda narrata nel libro di Giuditta, vengono alla mente alcune riflessioni del pastore luterano Dietrich Bonhoeffer. Il quale, nonostante le sue convinzioni nonviolente, si ritrovò a partecipare ad un attentato contro Hitler, convinto che quello fosse il male minore. Le alterne vicende storiche domandano al credente un’assunzione di responsabilità che non si risolve con l’obbedienza al comandamento divino. Nel momento della crisi la fede domanda intelligenza, astuzia, rischio. E soprattutto una radicale messa in gioco della propria persona. Quest’ultimo risulta il tratto meno attuale della vicenda di Giuditta, che non teme di immolarsi per il bene del suo popolo. Oggi la scena è occupata da ragazze disposte ad entrare nella tenda del potente, a ridursi ad escort pur di fare carriera. Giuditta da forma ad un’immagine decisamente alternativa del protagonismo femminile, come anche dell’esperienza credente, in cui l’autonomia e l’intraprendenza sono messe in gioco per il bene del popolo.
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