Clicca

Marida Nicolaci "La profezia delle figlie di Filippo"

stampa la pagina
DONNE CHIESA MONDO
MENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO
NUMERO 70 LUGLIO 2018

Nel raccontare negli Atti degli apostoli il ritorno di Paolo da Mileto a Gerusalemme (cfr. 21,1-14), al termine del viaggio missionario (cfr. 18,23 - 21,14) precedente l’arresto nella città santa (cfr. 21, 27.30-33; 22, 24; 23, 10-11),
Luca dà notizia, quasi en passant, della capacità profetica di quattro donne: «Il giorno dopo, una volta partiti, arrivammo a Cesarea ed entrati nella casa dell’evangelista Filippo, che era uno dei sette, rimanemmo presso di lui. Questi aveva quattro figlie nubili che profetizzavano» (21, 9). Si tratta, dunque, delle figlie di Filippo: non l’apostolo omonimo membro del gruppo dei Dodici (cfr. 1, 13), ma il secondo dei Sette costituiti per la diaconia delle chiese grecofone di Gerusalemme (cfr. 6, 1-7) e caratterizzato poi da Luca come autentico ed efficace annunziatore del Vangelo, operatore di segni, esorcismi e guarigioni (cfr. 8, 5-8.12-13.26-40). L’ultima menzione di Filippo e della sua opera di evangelizzazione (cfr. 8, 40) lo vedeva giunto a Cesarea marittima dove (cfr. 21, 9), lo ritroviamo nella sua «casa», punto di riferimento della chiesa locale, quale padre di quattro figlie e ospite accogliente dell’apostolo Paolo e dei suoi compagni di viaggio.
Atti degli apostoli 21, 9 è uno dei pochi passi, nelle Scritture ebraico-cristiane, in cui a dei personaggi femminili è attribuita positivamente e in modo esplicito l’abilità o l’esercizio di una funzione profetica: se si fa eccezione di Miriam, «sorella di Aronne» (Esodo 15, 20), di Debora, «moglie di Lappidot» (Giudici 4, 4), di Hulda, «moglie di Shallum» (2 Re 22, 14 e 2 Cronache 34, 22) e di Anna «figlia di Fanuele» (Luca 2, 36), gli altri casi di profezia femminile sono richiamati o in termini neutri (come nel caso delle donne cristiane in assemblea in 1 Corinzi 11, 5) o in termini fortemente polemici e negativi (come nel caso della profetessa Noadia in Neemia 6, 14, delle «figlie di Israele» che profetizzano «secondo il desiderio del loro cuore» in Ezechiele 13, 17 e di una sedicente profetessa stigmatizzata con l’evocativo nome di «Gezabele» in Ap o c a l i s s e 2, 20). Preso in sé, il fugace riferimento di Atti degli apostoli 21, 9 risulta in apparenza marginale e privo di conseguenze nella trama del racconto: la capacità profetica delle figlie di Filippo, infatti, non incide in alcun modo sullo sviluppo degli eventi che portano Paolo a Gerusalemme. La notizia che le riguarda potrebbe tranquillamente essere omessa. Radica ulteriormente, però, nel lettore la percezione della dignità e della presenza attiva e consapevole delle donne nella storia salvifica cui l’intera opera lucana lo ha abituato insistendo sul costante parallelismo tra figure esemplari maschili e femminili da un capo all’altro del racconto.
È soprattutto dal racconto della Pentecoste, poi, che egli riconosce nella capacità profetica di donne e uomini, senza discriminazione alcuna di genere, un segno peculiare del compimento della promessa divina: «Questo è proprio quello che era stato detto per mezzo del profeta Gioele: «E accadrà negli ultimi giorni – dice Dio – che riverserò dal mio Spirito su ogni carne e profetizzeranno i vostri figli e le vostre figlie, e i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno sogni, perché sui miei servi e sulle mie serve, in quei giorni, riverserò dal mio Spirito e profetizzeranno…» (Gioele 3, 1-2 in Atti degli apostoli 2, 16-18).
La capacità di «parlare in lingue» e di «profetizzare» è frutto dell’avvento dello Spirito su quanti si fanno battezzare «nel nome del Signore Gesù» (Atti degli apostoli 19, 6) e il suo dono investe egualmente uomini e donne. Atti degli apostoli 21, 9, però, solleva diverse domande: l’uso del verbo «profetizzare» al participio presente (prophetèuousai) fa riferimento, appunto, all’abilità profetica propria di tutti i battezzati, a un ufficio ecclesiale stabile e specifico (cfr. Atti degli apostoli 11, 27; 13,1; 15, 32) o a un dono carismatico occasionale?
Come mai Luca non riporta il contenuto della profezia delle figlie di Filippo e si limita solo a registrarla? Da dove ha tratto la notizia specifica che le riguarda e perché ha interesse a riportarla pur non descrivendo il contenuto della loro profezia? Quale rapporto si dà tra la loro abilità profetica e l’azione profetica di altri personaggi che compaiono nel medesimo racconto e della quale, invece, Luca riferisce anche il contenuto (cfr. 21, 10-11)? In che rapporto stanno la condizione nubile delle figlie di Filippo e la loro abilità profetica? E, ancora: quale rapporto potrebbe esserci tra la profezia delle figlie di Filippo e la caratterizzazione del loro padre come evangelista?
Per rispondere a queste domande occorre partire anzitutto dall’analisi del contesto narrativo in cui viene fornita la notizia che le riguarda. Atti degli apostoli 21, 1-14 appartiene a una delle sezioni «noi» del libro (21, 1-18), caratterizzate proprio dall’uso improvviso della prima persona plurale e sempre coincidenti con racconti di viaggio (cfr. anche 16, 10-17; 20, 5-15; 27, 1-28, 16). Sia che si tratti di fonti utilizzate da Luca sia che si tratti di un suo personale diario di viaggio, ciò che conta è la memoria storica di cui in esse resta traccia relativamente a luoghi e a protagonisti dell’esperienza ecclesiale degli inizi. In questa sezione, in particolare, il tragitto che porta Paolo e i suoi compagni da Mileto a Gerusalemme comprende alcune soste prolungate: una a Tiro di una settimana (cfr. 21, 3-6) e una a Cesarea marittima di «parecchi giorni» (21, 8-15). Nel caso dei «discepoli di Cesarea» (21, 16), la casa dell’evangelista Filippo è il luogo in cui vengono ospitati Paolo e i suoi compagni di viaggio. Paolo evidentemente conosceva già lui e la chiesa di Cesarea (cfr. 18, 22) e poteva contare sulla sua ospitalità. In questo contesto, essendo apparentemente priva di funzione specifica nello sviluppo narrativo del brano, la notizia riguardante le figlie di Filippo rappresenta anzitutto un’informazione di natura storica su quella chiesa, sulla sua vitalità e sulla presenza in essa di figure femminili ricordate proprio per la loro abilità profetica. La tradizione ecclesiastica successiva, non a caso, avrebbe continuato a parlare del loro ruolo di tramiti delle origini cristiane e, con evidente intento polemico, del dono di profezia che le aveva contraddistinte come modello di coloro che «hanno profetizzato secondo il Nuovo Testamento» perché, a differenza di «Montano e delle sue donne», non avevano accompagnato la loro profezia a «sfrontatezza e temerità» (cfr. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica III, 31.5; III, 37.1; III, 39.9; V, 16.22; V, 17.2-3).
Per le figlie di Filippo Luca evita di usare al femminile il sostantivo «profeta» che usa, invece, per Anna in Luca 2, 36 e, al maschile, per i profeti di Israele, Giovanni Battista, Gesù e per singoli credenti come Agabo, Giuda e Sila, identificati ecclesialmente proprio in forza dell’esercizio di una specifica funzione profetica (cfr. Atti degli apostoli 11, 27; 13, 1; 15, 32). Preferisce, piuttosto, il presente del verbo «profetizzare» che, usato in senso teologico, compare nei suoi scritti sempre in rapporto all’azione potente dello Spirito Santo e, tranne che nel caso di Zaccaria (Luca 1, 67), in riferimento al compimento escatologico sperimentato dai credenti in Gesù (cfr. Atti degli apostoli 2, 17-18; 19, 6). Se si considera, poi, che nel resto del Nuovo Testamento il verbo è usato quasi sempre in riferimento ai membri delle comunità cristiane (cfr. 1 Corinzi 11; 14 e Apocalisse 10, 11; 11 ,3), è facile pensare che anche Luca qui intenda far riferimento a un esercizio specifico del carisma profetico da parte di queste donne credenti. In cosa consisteva? In che forma era esercitato? Come era valorizzato nella chiesa locale? È impossibile dire se comprendesse atti profetici di tipo estemporaneo, come quello attribuito subito dopo al «profeta» di nome Agabo (cfr. 21, 10-11 ma, già prima, 11, 27-28), fenomeni estatici e glossolalici, discorsi ispirati in contesto liturgico (cfr. 1 Corinzi 11, 5) o, ancora, una forma di predicazione e di guida nella chiesa (come nel caso di Giuda e Sila). Pur attestandolo, Luca tace sia sul suo contenuto che sulle forme del suo esercizio.
Mentre nel caso delle parole e dei gesti profetici al maschile, da cui il profetizzare di queste donne è circondato (cfr. 21, 4.10-11), Luca informa il lettore anche sul contenuto e sui modi concreti della profezia, non gli concede invece di sentire la voce profetica delle figlie di Filippo, non gli concede di vedere il loro corpo in azione, diversamente da quello di Agabo (21, 11), così come del resto non gli concede di sentire in dettaglio la voce della profetessa Anna, a differenza di quella dell’anziano Simeone (c f r. Luca 2, 25-35).
Al silenzio sul contenuto e sui modi della loro profezia si oppone il dettaglio biografico che precede significativamente l’attestazione della loro capacità profetica: si tratta di donne individuate non dal nome proprio ma a partire dalla relazione col padre (sono «figlie» di Filippo) e che, in quanto nubili («vergini», parthènoi), stanno ancora nella casa paterna. Il testo non consente di stabilire se la loro condizione verginale fosse una scelta (cfr. 1 Corinzi 7, 8.25-26), espressione di sorprendente libertà dai ruoli socio-istituzionali prestabiliti (si vedano poi i gruppi di vergini cristiane di cui si parla negli Atti di Paolo e Tecla 7), o semplicemente una sottolineatura della giovane età. La tradizione ecclesiastica successiva sembra propendere per la prima ipotesi (secondo Policrate di Efeso, richiamato da Eusebio, Storia ecclesiastica III, 31.4, «si mantennero vergini fino alla vecchiaia»). Probabile, comunque, è che con questo dettaglio biografico Luca intendesse suggerire una qualche relazione tra la condizione verginale e il loro carisma profetico (si veda già la presentazione dello stato di vedovanza della profetessa Anna come condizione di dedizione libera al culto nel tempio in Luca 2, 36-37). La connessione non era estranea alla sensibilità ellenistica; la Pizia doveva essere, anche idealmente, una vergine: «Proprio come Senofonte afferma che la sposa deve aver visto e udito il meno possibile, prima di andare nella casa del marito, così anche la vergine, inesperta e ignara quasi di tutto quando davvero si congiunge con l’anima al dio» (Plutarco, Moralia 405c). Le figlie di Filippo, proprio in quanto «figlie» piuttosto che «mogli», restano legate alla casa paterna e allo spazio privato: da sposate ed, eventualmente, in uno spazio rituale pubblico sarebbe stato loro concesso di profetizzare o avrebbero dovuto assumere un atteggiamento sottomesso e dipendente dai loro mariti (si veda il problema posto da 1 Corinzi 14, 33b-35 e 1 Timoteo 2, 11-15)? La loro verginità, se da un lato richiama dal punto di vista della religiosità ellenistica una condizione adatta all’esperienza oracolare, dall’altro potrebbe essere la condizione socio-culturale di un suo più libero esercizio. Il fatto, poi, che solo in questo passo Luca definisca Filippo un «evangelista» — pur avendo ampiamente usato i verbi «annunziare» ed «evangelizzare» nel descrivere la sua missione di annunzio in Samaria (Atti degli apostoli 8, 5.12.35.40) — e gli affianchi queste figure femminili quali soggetto di profezia può far pensare anche a uno sfondo ecclesiologico paolino (cfr. Efesini 4, 11; 2 Timoteo 4, 5) e implicare che egli volesse dare alta dignità a queste donne che il carisma profetico avrebbe messo subito dopo gli apostoli. Però, di fatto, non ci permette di comprendere le forme concrete di espressione della loro profezia e, per ciò stesso, della loro specifica leadership. Ciò si spiega, verosimilmente, con il suo bisogno di scrivere un’opera a carattere pubblico, apprezzabile secondo i canoni della società imperiale, e nella quale il ruolo formale di profeta restasse riservato solo ai maschi a garanzia dell’affidabilità culturale e politica del messaggio evangelico.
Una giusta valorizzazione della notizia lucana è imprescindibile, dunque, da una lettura in prospettiva di genere. Ciò significa, anzitutto, riconoscere che la capacità profetica — nelle sue forme di manifestazione e di attuazione più svariate e contingenti in rapporto al vissuto concreto delle chiese — è attestata alle origini della chiesa per le donne come per gli uomini. Significa, d’altronde, riconoscere nella scelta del silenzio quanto a forma e contenuti dell’esercizio della profezia femminile il risultato di un’esigenza comunicativa e apologetica che, mutati lo spazio, il tempo e la cultura dei lettori, non ha più ragion d’essere. Benché le figlie di Filippo siano, di fatto, il primo esempio esplicito riconosciuto e attestato di profezia al femminile in età apostolica, al lettore non è possibile ricostruirne dal testo i gesti corporei, l’intenzione, l’autorevolezza, quasi che il rapporto tra profezia e corpo femminile non potesse ancora essere socialmente ed ecclesialmente esplicitato senza confusioni sul piano religioso, culturale e politico. Egli, però, è invitato a riconoscere una compresenza strutturale di figure maschili e femminili quando si tratta del dono della profezia alle origini della chiesa. Le quattro figlie dell’evangelista Filippo si distinguono, tra e a fronte di altri discepoli maschi, perché sono in grado di parlare secondo lo Spirito, lo fanno, e sono riconosciute ecclesialmente per questa loro capacità. Si potrebbe dire che la loro profezia coincide con la loro stessa esistenza, e che questa, attestata narrativamente a perenne memoria, resta forma aperta a ogni possibile concretizzazione.
Si tratterà, dunque, mutato il contesto culturale, di riconoscere il dono della profezia femminile e di lasciare spazio pieno a espressioni nuove e diversamente maturate — sul piano antropologico-culturale e, dunque, anche sul piano istituzionale — del carisma profetico, per la costruzione di un edificio ecclesiale che ne sia tutto intero animato, al maschile e al femminile; passando, anzi, a un rigoroso setaccio antropologico e culturale quelle forme istituzionali che, frutto transeunte di epoche, valori e modelli non più comprensibili né condivisibili, possono solo concorrere a un temibile disprezzo della profezia (cfr. 1Tessalonicesi 5, 20).

Marida Nicolaci ha conseguito la licenza in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico e il dottorato in teologia biblica alla Facoltà teologica di Sicilia dove insegna attualmente Esegesi del Nuovo Testamento. La sua ricerca si concentra soprattutto sulla letteratura giovannea e sulle lettere cattoliche, testi considerati particolarmente rappresentativi delle origini giudaiche della Chiesa e delle tradizioni storiche e teologiche più legate al giudaismo.

stampa la pagina



Gli ultimi 20 articoli