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Jean Louis Ska "Politica e profezia"

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BIBBIA APERTA maggio 2018
Aggiornamenti sociali

«Un politico [...] è qualcuno che pensa alle prossime elezioni, mentre lo statista pensa alla generazione futura. Il politico pensa al successo del suo partito, lo statista al bene del suo Paese.
Il politico si premura di adottare l’una o l’altra misura, lo statista di stabilire l’uno o l’altro principio. Infine, lo statista si premura di dare un indirizzo, mentre il politico si accontenta di lasciarsi sospingere dal vento». Queste affermazioni del teologo statunitense James Freeman Clarke (1810-1888) non hanno perso nulla della loro attualità, riuscendo a mettere a fuoco la differenza tra due tipi di persone impegnate in politica in base alla diversa visione che hanno: a breve o a lungo termine. Mentre il politico si preoccupa innanzitutto dei suoi interessi e di quelli della sua cerchia, lo statista si muove in una prospettiva che va oltre il proprio vantaggio immediato e l’avvenire del suo Paese gli sta maggiormente a cuore del suo futuro politico.

La frase di Clarke spinge a considerare anche un altro aspetto importante della politica: il modo in cui le relazioni si svolgono tra eletti ed elettori, in particolare per quanto concerne la comunicazione. I discorsi di alcuni politici mirano senza dubbio a ottenere la massima risonanza possibile presso l’opinione pubblica: occupare la scena al punto di oscurare tutti gli altri sembra essere il primo imperativo per un certo mondo politico. I nuovi mezzi di comunicazione legati a Internet incoraggiano, a loro modo, questa maniera di agire e di reagire. Occorre essere brevi, diretti, attirare l’attenzione con poche parole e, soprattutto, monopolizzare lo spazio virtuale. Dal lato degli elettori, va riconosciuto che sono sempre meno numerose le persone che hanno il tempo o l’interesse di leggere un editoriale o un articolo di fondo, molti si limitano a scorrere velocemente i titoli degli articoli pubblicati sulla carta stampata o sui social media, formandosi un’opinione in cui la reazione spontanea e immediata ha il sopravvento sull’approfondimento e sul soffermarsi a ragionare.

Non ci troviamo di fronte a dinamiche del tutto inedite, anche se nuovi sono i risvolti legati all’avvento di Internet: ne troviamo traccia anche nella Bibbia, nel comportamento di alcuni re e negli atteggiamenti tenuti dai loro consiglieri. Alcuni interventi profetici si rivelano così assai istruttivi anche per il nostro tempo.

A difesa dei deboli: la critica profetica
Fermiamo la nostra attenzione sul profeta Amos, che ha operato nel regno del Nord (comprendente i territori della Samaria e della Galilea) verso la metà dell’VIII secolo a.C. Siamo in un’epoca di prosperità, il che, come spesso accade, contribuisce al successo della classe dirigente. Amos, però, non condivide la soddisfazione generale. Egli vede oltre la superficie e denuncia l’ingiustizia che è alla base del benessere economico. La sua predicazione fa venire a galla la realtà dei fatti, mostrando come siano i potenti del regno ad arricchirsi, approfittando della loro posizione e abbandonandosi a pratiche inique. Agli occhi del profeta appare con chiarezza la deriva che incombe sul regno: il venir meno dei valori fondamentali (i «principi», direbbe Clarke) di equità e solidarietà avvia inevitabilmente il Paese verso la disgregazione sociale.

In un passo di grande efficacia, Amos – dopo aver denunciato una serie di abusi della classe dirigente verso le fasce più deboli della popolazione – riporta la presa di posizione del Signore nei confronti dell’arroganza dei potenti (definita l’orgoglio di Giacobbe, espressione già utilizzata in 6,8).

Amos 8,4-8
4 Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, 5 voi che dite: «Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false, 6 per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano». 7 Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere. 8 Non trema forse per questo la terra, sono in lutto tutti i suoi abitanti, si solleva tutta come il Nilo, si agita e si abbassa come il Nilo d’Egitto?».


Il profeta evoca un terremoto, che paragona alle piene del Nilo: la terra si solleva e si abbassa come le acque del grande fiume. L’elemento importante di questo paragone, che qui importa mettere a fuoco, sta nella convinzione che l’ingiustizia rovescia l’ordine cosmico. Essa è, letteralmente, “contro natura”. Prima o poi conduce al disastro, un disastro che finisce per travolgere tutti.
Anche il profeta Geremia, attivo in Giudea tra il VII e il VI secolo a.C., ha piena coscienza di come i fondamenti su cui poggia l’intera realtà vengano scossi alla radice, allorché la vita sociale è segnata da rapporti di dominio e di sfruttamento. La sua denuncia è radicale. Ha di mira tutti gli abitanti di Giuda, non solo la classe dirigente del Paese. Ai suoi occhi, tutti soffrono dello stesso male: la promozione del diritto e il rispetto della verità non sono considerati delle priorità. Si potrebbe dire: conta solo l’immediato e nessuno prende in considerazione il futuro, le esigenze delle prossime generazioni. I re di Gerusalemme, in particolare, sono oggetto della critica serrata di Geremia. Uno degli ultimi, Yoiakim, viene chiamato in causa perché si preoccupa più del suo palazzo che dei suoi sudditi (Geremia 22,13-14). Ben differente era stato il modo di governare del re Giosia, suo padre. Egli, pur vivendo nell’agio, aveva un progetto di società basato su valori essenziali: la pratica del diritto e della giustizia e la tutela del povero e del misero (Geremia 22,15-16). Per questa ragione aveva promosso una vasta riforma politica e religiosa (cfr 2Re 22-23) e aveva levato la sua voce per denunciare il male che toccava tutti i settori della vita pubblica, un male espressione della profonda corruzione del cuore (cfr Geremia 17,1).

Uno sguardo penetrante
Da dove traggono ispirazione i profeti per la loro sensibilità sociale? Su che cosa si fonda l’autorità che rivendicano per i loro interventi? È ancora Amos a offrirci una spiegazione, in un oracolo dal tono perentorio. Attraverso una serie di domande retoriche, egli richiama un principio generale, verificabile da tutti: non c’è effetto senza causa né causa senza effetto. Così – conclude – se egli profetizza, significa che Dio gli ha parlato: Camminano forse due uomini insieme, senza essersi messi d’accordo? Ruggisce forse il leone nella foresta, se non ha qualche preda? Il leoncello manda un grido dalla sua tana, se non ha preso nulla? Si precipita forse un uccello a terra in una trappola, senza che vi sia un’esca? Scatta forse la trappola dal suolo, se non ha preso qualche cosa? Risuona forse il corno nella città, senza che il popolo si metta in allarme? Avviene forse nella città una sventura, che non sia causata dal Signore? In verità, il Signore non fa cosa alcuna senza aver rivelato il suo piano ai suoi servitori, i profeti. Ruggisce il leone: chi non tremerà? Il Signore Dio ha parlato: chi non profeterà? (Amos 3,3-8). Amos afferma con totale sicurezza di essere a conoscenza del disegno di Dio. È una rivendicazione che tutti i profeti fanno propria. Per mostrarne la fondatezza, molti di loro ricorrono a un’immagine di carattere mitologico. Affermano di avere assistito al consiglio divino e, per tale ragione, di avere diritto di parola. Accolti alla corte celeste e investiti della missione propria di un messaggero, si sentono officiali divini. Parlano a nome di Dio, del loro sovrano che li ha presi al suo servizio, e sono liberi di rivolgersi ai potenti della terra, perché non cercano di guadagnarsi i loro favori o di difendere i propri interessi. Ancor di più: pur di restare fedeli al messaggio che hanno ricevuto da Dio, sono pronti a pagare in prima persona e non si sottraggono all’eventuale sfavore suscitato dalle loro parole nel re di turno. C’è un bene più grande – la verità contenuta nel messaggio che è stato loro affidato per il bene dell’intero popolo – della loro condizione attuale o della loro sorte futura. In termini più moderni, i profeti si sentono guidati da motivazioni ben superiori agli interessi terreni comuni.

L’immagine del consiglio divino è particolarmente sviluppata da Geremia. Egli ne tratta ampiamente in una serie di oracoli contro coloro che qualifica come falsi profeti (in particolare cfr Geremia 23). Utilizzando le convenzioni letterarie dell’epoca, a noi non più familiari, rimprovera i suoi colleghi profeti perché parlano senza aver partecipato al consiglio divino (cfr riquadro). In particolare, Geremia rimprovera ai falsi profeti di non spingere i loro contemporanei a cambiare condotta. Tutto va bene – affermano – non c’è nulla da cambiare. In realtà, dicono ciò che i loro uditori vogliono sentirsi dire. Nel linguaggio d’oggi: si preoccupano meno delle sorti del popolo che del loro indice di popolarità. Per questo Geremia rinfaccia loro di non avere assistito al consiglio divino e, dunque, di parlare a nome proprio. Invece il profeta, che ha partecipato al consiglio divino, è attento ad alcuni valori fondamentali del vivere insieme e dei pericoli che si profilano all’orizzonte per un Paese in cui la classe dirigente e il popolo hanno perso il senso del giusto e dell’ingiusto, hanno smarrito la propria coscienza morale. I suoi interventi sono, allora, volti a smascherare gli abusi del potere che avvengono sottotraccia o le più sottili forme di aggiramento del diritto, poste in essere per difendere privilegi o realizzare guadagni illeciti a spese dei più poveri. Soprattutto servono a risvegliare una coscienza che rischia di sopirsi sia in chi ha un ruolo politico sia in chi, alle volte persone semplici, non ha particolari responsabilità pubbliche, ma è partecipe di un clima generale in cui si afferma la ricerca del proprio vantaggio nell’immediato, anche quando a farne le spese sono altri.

Geremia 23,16-18.21-22
16 Così dice il Signore degli eserciti: Non ascoltate la parola dei profeti che profetizzano per voi; essi vi fanno vaneggiare, vi annunciano fantasie del loro cuore, non quanto viene dalla bocca del Signore. 17 A coloro che disprezzano la Parola del Signore dicono: «Avrete la pace!», e a quanti, ostinati, seguono il loro cuore: «Non vi coglierà la sventura!». 18 Ma chi ha assistito al consiglio del Signore, chi l’ha visto e ha udito la sua Parola? Chi vi ha fatto attenzione e ha obbedito? 21 Io non ho inviato questi profeti ed essi corrono; non ho parlato a loro, ed essi profetizzano. 22 Se hanno assistito al mio consiglio, facciano udire le mie parole al mio popolo e li distolgano dalla loro condotta perversa e dalla malvagità delle loro azioni.

La lungimiranza profetica
I profeti biblici sono sovente chiamati veggenti (1Samuele 9,9), sentinelle (Ezechiele 33,1) o anche vedette (Isaia 21,6-8). Essi vedono più lontano e più in profondità della gente comune, con un’attenzione che è ben più ampia e attenta al bene di tutti di quella di alcuni potenti. Riescono a cogliere le dinamiche in atto da un punto di vista che non è influenzato – od ossessionato – dalle convenienze di breve termine. Soprattutto, riconoscono che tante realtà che esistono non dovrebbero esserci, mentre non si rinvengono altre situazioni o dimensioni che, invece, dovrebbero sussistere. Di fronte a uno status quo ingiusto e squilibrato, essi non si rassegnano, non si adeguano. Si indignano per come vanno le cose senza fermarsi al livello della lamentela e della critica privata, ma intervengono nella vita pubblica, prendono la parola per rivolgersi a chi detiene il potere e può cambiare le cose e per parlare al popolo. Sono pure pronti ad agire per cambiare non solo le mentalità, ma anche il corso degli eventi. Tutto questo dopo aver assistito al consiglio divino, cioè dopo aver perforato il muro delle mode, delle apparenze e dei luoghi comuni per andare fino al fondo delle cose, con il coraggio e la chiaroveggenza necessari.
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