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Luciano Manicardi "È risorto. Non è qui, vi precede!"

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1 aprile 2018
Omelia della Veglia pasquale
dal sito del Monastero di Bose

Mc 16,1-8
1 Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a ungerlo.
2Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole. 3Dicevano tra loro: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall'ingresso del sepolcro?». 4Alzando lo sguardo, osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande. 5Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d'una veste bianca, ed ebbero paura. 6Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l'avevano posto. 7Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: «Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto»». 8Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite.

“Voi cercate Gesù Nazareno. È risorto. Non è qui”. Le parole dell’annuncio pasquale risuonate alla tomba vuota e rivolte alle donne, raggiungono anche noi oggi, qui e ora. “È risorto. Non è qui”. Raggiungono noi che a nostra volta cerchiamo Gesù, lo amiamo, vogliamo seguirlo, vorremmo vivere come lui ha vissuto. Raggiungono noi, queste parole, ma sono destinate all’umanità tutta, anche a chi non cerca Gesù né crede in lui, e noi vorremmo che raggiungessero soprattutto le tante persone che in questi giorni e in queste ore patiscono situazioni di violenza, vengono uccise, in tanti luoghi del mondo, soprattutto in paesi africani e in Medio Oriente, in Siria, a Gaza, o trovano la morte nei loro esodi tragici nel mare Mediterraneo, o muoiono a causa di fame e stenti. Vorremmo che raggiungessero tutti perché tutti potessero sapere che nessuna vita è persa per il nostro Signore, il Signore della vita. Queste parole che annunciano che “è risorto” ci impegnano a pregare e sperare per tutti. Ma per sperare occorre ripetere un gesto che devono fare le donne al sepolcro: alzare gli occhi. Sì, queste parole ci obbligano ad alzare gli occhi, cioè a distoglierli da noi stessi, dal nostro piccolo mondo circoscritto e chiuso, e ad allargare i nostri orizzonti per abbracciare le sofferenze di tanti, perché solo quando vediamo gli altri e le loro sofferenze noi ci vediamo veramente. E perché solo quando distogliamo gli occhi da noi stessi e solleviamo gli occhi noi possiamo vedere l’intervento di Dio nelle nostre vite.

Solo quando distogliamo gli occhi da noi stessi noi possiamo lasciarci sorprendere e stupire dall’azione del Signore. Solo se alziamo gli occhi possiamo farci raggiungere dall’annuncio della resurrezione e guardare in modo rinnovato il mondo con la fede nel Risorto. E possiamo lasciarci abitare dalla speranza. E possiamo credere l’incredibile: che il crocifisso è risorto. Che la morte non ha l’ultima parola.

La narrazione del vangelo di Marco situa gli eventi al sepolcro “passato il sabato”. Marco fa silenzio su quel sabato che diverrà nella tradizione e nella liturgia il sabato del silenzio. E il giorno successivo, “il primo giorno della settimana” nasce con la venuta al sepolcro di tre donne, le stesse che erano rimaste ad osservare dove veniva deposto il cadavere di Gesù, donne che seguivano Gesù e lo servivano fin dagli inizi in Galilea, che erano salite con lui a Gerusalemme, e che l’avevano accompagnato fin dove e come potevano. L’ultimo loro contatto con il loro maestro è stato quello sguardo, quando esse “stavano a osservare dove veniva posto” (Mc 15,47). Sguardo rivolto a un corpo morto che veniva pietosamente deposto in una tomba. Ed è con quello sguardo impresso nel cuore e nella mente che, di buon mattino, appena sorto il sole, quelle stesse donne vanno al sepolcro per ungere e profumare il corpo di Gesù con essenze e oli aromatici. Vanno, e la loro andata è coraggiosa e patetica al tempo stesso: esse vanno ma coscienti di non aver alcuna possibilità di spostare il grosso masso che ostruisce l’ingresso del sepolcro. Esse “dicevano tra loro: Chi ci rotolerà via la pietra dalla porta del sepolcro?”. Vanno con lo sguardo rivolto a quel corpo morto e con l’incoscienza di chi si prepara per un viaggio inutile, che non servirà a nulla. Eppure vanno. Cosa le muove se non l’amore?

L’amore che non si vergogna di fare brutte figure, l’amore che non calcola la possibile delusione, l’amore che prevale sulla razionale considerazione degli impedimenti, l’amore che non riflette sul proprio possibile fallimento.

Vanno con amore e per amore per il loro maestro che ora è un corpo cadaverico. Ecco la chiesa dell’amore. Con il coraggio e la follia dell’amore. E sarà questa chiesa e questo amore che riceverà e accoglierà l’annuncio pasquale.

Ed ecco che giunte al sepolcro, l’azione che muta la loro situazione è annotata da Marco, e solo da lui tra gli evangelisti, affermando che esse “alzarono gli occhi”. L’evangelista Luca afferma che le donne al sepolcro “avevano il volto chinato a terra” (Lc 24,5). Marco compie questa annotazione che può sembrare banale e periferica, ma che in verità ha valenza simbolica e spirituale enorme e consente alla situazione di evolvere. Lo sguardo fisso a terra, che esteriormente vede i piedi e il suolo, e che interiormente è immerso nel dolore della morte di Gesù, è fisso sull’immagine di un cadavere deposto in una tomba, blocca la scena che non avrebbe alcun sviluppo. Lo sguardo fissato su di sé o sul proprio piccolo gruppo di appartenenza, impedisce la vita, la intristisce.

In verità, quell’azione e quel verbo, “alzare gli occhi” (anablépein), non sono per nulla banali, ma dietro di essi c’è una tradizione biblica che rende quel gesto talmente importante da poterlo accostare al “porgere l’orecchio” di cui ben conosciamo la centralità nel mondo biblico. In Genesi 22, si dice per due volte che Abramo alzò gli occhi: anche là era “il terzo giorno” (Gen 22,4), quasi anticipando il terzo giorno glorioso della resurrezione, anche là vi era un luogo di morte, il monte Moria che doveva ospitare il sacrificio di Isacco, e anche là il gesto di alzare gli occhi porta Abramo a sciogliere la situazione e a vedere l’intervento liberatore di Dio: “Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio, lo prese e lo offrì al posto del figlio” (Gen 22,13).

Il luogo di morte diventa luogo di vita. Sì, anche noi dobbiamo esercitarci ad alzare gli occhi del cuore e della mente, altrimenti restiamo umanamente e spiritualmente bloccati, paralizzati, invischiati in situazioni che solo con una presa di distanza si relativizzano e non ci rendono prigionieri. Altrimenti non avanziamo più.

Restiamo nella morte. Cadiamo nella morte. Gli occhi a terra sono il segno della paura, della preoccupazione che non vede vie di uscita dalla situazione, che resta nel dilemma irrisolvibile di “chi mai potrà rotolare via la pietra dal sepolcro?”. “Alza gli occhi” (Gen 13,14) è il comando di Dio ad Abramo per mostrargli l’estensione enorme della terra che Dio gli darà: è alzando gli occhi che Abramo può vedere la promessa di Dio. È alzando gli occhi che Abramo vede i tre uomini di passaggio e ospitandoli accoglie Dio stesso, si apre alla sua visita (Gen 18,2). Non solo, Marco usa questa espressione e questo verbo per indicare il vederci di nuovo dei ciechi che vengono guariti da Gesù (Mc 8,24; 10,51-52). Sì, perché quello sguardo rivolto a terra e perso nel proprio dolore equivale alla cecità. Così alzare gli occhi è anche aprire gli occhi, ritrovare la vista.

E, appunto, le donne, alzati gli occhi, “osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare”. Il passivo divino suggerisce che vi è stato un intervento di Dio stesso. La chiusura nella paura, il sostare interiore sulla propria sofferenza, il macerarsi in essa, impedivano alle donne di vedere che gli ostacoli alla loro ricerca erano già tolti. E ciò che ora vedono entrando nel sepolcro è il ribaltamento esatto di ciò che esse, con gli occhi rivolti a terra, si aspettavano di trovare. Pensavano di trovare un corpo morto, adagiato sui banchi scavati nella roccia su cui si deponevano i cadaveri, nudo, avvolto in un sudario, trovano invece non un morto ma un vivo, non disteso ma seduto, non nudo e avvolto in un sudario ma vestito con una veste bianca. Esse allora vengono colte da stupore, da sbigottimento, ma il messaggero celeste le richiama alla realtà e ad andare dai discepoli e soprattutto da Pietro ad annunciare loro il nuovo inizio:

“Egli vi precede in Galilea”. C’è un futuro da affrontare, c’è una storia da continuare, c’è una vita da riprendere. Nessuna unzione di un cadavere, ma l’annuncio di una buona notizia.

Anche la comunità dei discepoli infatti deve essere liberata dalla paura che la paralizza, come ci dice il IV vangelo parlandoci di discepoli chiusi in casa per paura dei giudei, e deve osare alzare gli occhi e distoglierli da se stessa altrimenti non diventerà comunità evangelizzatrice, ma si trasformerà a sua volta in una tomba.

Ecco allora che il messaggero dice alle donne: “Andate e dite ai suoi discepoli e specialmente a Pietro che egli vi precede in Galilea; là lo vedrete come vi ha detto”. Dopo aver alzato gli occhi ora porgono l’orecchio e ascoltano l’annuncio che le rende evangelizzatrici. Giunte come mirrofore per ungere il corpo di Gesù, le donne vengono trasformate in annunciatrici, in donne messaggere che dovranno dire solo ciò che Gesù ha detto. A quel punto il messaggero, il giovane in bianche vesti, può scomparire perché ha ormai chi annuncia al posto suo: le donne. Ma anche le donne possono non dire niente a nessuno perché quanto hanno da dire è già stato detto e ascoltato dai discepoli. E nel vangelo è anche stato scritto per tutti i destinatari del vangelo e i suoi lettori. E dunque anche per noi. In fondo non stupisce né scandalizza più di tanto la finale brusca del vangelo di Marco. Le donne che non dicono niente a nessuno chiedono a noi di aprire gli orecchi, di rinnovare l’ascolto di tutto ciò che Gesù ha detto per viverlo e testimoniarlo.

Il racconto finisce, ma la vita inizia. A noi di alzare gli occhi e di porgere l’orecchio.

Così permetteremo all’annuncio pasquale di far breccia nelle nostre vite e alle energie del Risorto di operare il cambiamento, la conversione delle nostre persone e delle nostre comunità. E di uscire dalla morte per entrare nella vita. Davvero: “È risorto. Non è qui”.
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