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“Semper reformanda”: donne che pensano la Chiesa

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Il Regno 20 novembre 2017

Qual è l'apporto specifico che le donne hanno dato e che possono offrire per una riforma del corpo ecclesiale? Ne parlano Serena Noceti e Cettina Militello


Il contributo delle donne alla riforma della Chiesa è stato il tema scelto per la XV edizione delle Giornate dall’Associazione delle teologhe spagnole (Madrid, 11-12 novembre 2017) e, precedentemente, oggetto dell’intenso Colloquio “Donne e riforma della Chiesa”organizzato dall’Istituto Costanza Scelfo, i cui Atti sono stati presentati alla Facoltà Teologica Marianum di Roma giovedì 16 novembre.
In entrambi i casi la riflessione ha avuto un duplice riferimento di motivazione e di orizzonte interpretativo: la ricorrenza del cinquecentenario della Riforma protestante e la sollecitazione che viene da papa Francescoa riprendere con decisione l’istanza di riforma che il concilio Vaticano II ha consegnato, nella coscienza che la Chiesa è «semper reformanda».
Comune è anche la scelta dei percorsi, che tengono insieme la ricerca sul piano storico, l’identificazione di orientamenti ideali che guidino l’azione, l’analisi dell’apporto specifico che le donne hanno dato e che possono offrire per una riforma del corpo ecclesiale, l’individuazione di criteri e modalità per una prassi trasformatrice efficace. Da tale contesto, fuori dalla cronaca ma al cuore delle questioni, nascono le analisi e il “sogno” di Serena Noceti e Cettina Militello che qui pubblichiamo.

La parola delle donne per trasformare il “noi” ecclesiale

Serena Noceti

Le riflessioni sul binomio “donne e riforma della Chiesa” apportano, nel quadro dei tanti contributi dedicati al tema della riforma ecclesiale, tre elementi-chiave.

1) In primo luogo, ci troviamo davanti a una fase storica ed ecclesiale inedita. Le donne sono oggi portatrici nella società, e anche nella Chiesa, di una parola autorevole, competente, pubblica. Sono segnate da forme di soggettualità e possibilità di azione sconosciute alle donne delle generazioni dei secoli passati.

Lo studio della storia delle Chiese cristiane permette di recuperare la memoria di alcune donne impegnate in processi di “riforma nella chiesa” (vita monastica, partecipazione delle donne alla Riforma protestante, fondazione di istituti religiosi di vita attiva, associazionismo laicale, etc.), ma allo stesso tempo mette in evidenza l’assenza delle donne dai processi di “riforma di chiesa” quando il cambiamento è intenzionale e complessivo, nonostante le intuizioni di riforma e riforme possibili ed auspicate che non poche consegnano nella forma della visione o del linguaggio della profezia.

Oggi le donne ‒ che costituiscono l’«immensa maggioranza» del corpo ecclesiale, dei praticanti abituali, degli operatori pastorali ‒ desiderano partecipare e offrire il loro contributo specifico alla riforma complessiva del corpo ecclesiale, dei suoi dinamismi, forme relazionali, pratiche. «Le rivendicazioni dei diritti delle donne […] pongono alla Chiesa domande profonde che la sfidano e non si possono superficialmente eludere» (Francesco, Evangelii gaudium 104), mostrano la distanza nel corpo ecclesiale tra affermazioni teoriche di soggettualità sul fondamento battesimale, appelli alla corresponsabilità, ed effettivo riconoscimento sul piano operativo: non raramente si relegano donne e laici al ruolo di “collaboratori” della gerarchia o di “comparse” e “manovali” chiamati ad applicare orientamenti definiti dalla sola gerarchia.

Non basta ascoltare la parola di alcune donne perché la riforma possa darsi: è necessario attivare processi sinodali, a tutti i livelli (dalle diocesi alle Chiese nazionali), che permettano a tutte le donne che lo desiderano di esprimere intuizioni e sogni di una riforma ecclesiale, segnalare problemi aperti, denunciare fattori di discriminazione o sottovalutazione, suggerire percorsi di trasformazione. È giunto il tempo di celebrare “Sinodi delle donne sulla chiesa”.

2) In stretto rapporto con questo primo snodo, un secondo: la riflessione teologica che le donne hanno sviluppato in questi cinquant’anni è ricca e molteplice, per sensibilità e approcci, ma rimane poco riconosciuta, raramente citata, spesso indicata nella forma di una “notevole eccezione” a fronte di una teologia che rimane in larga parte androcentrica, per linguaggio, categorie, prospettive. La riforma ecclesiale chiede di pensarsi insieme come “Chiesa di uomini e donne”, nella consapevolezza che la Chiesa è orientata, strutturata, organizzata a partire da modalità di interpretazione della differenza sessuale, e che nel disegnare una visione ideale di Chiesa verso cui camminare dobbiamo tenere coscientemente presente la questione di genere. Una riflessione sistematica sulla maschilità, sul rapporto tra maschilità e potere nella chiesa cattolica – tematica oggi quasi assente – è divenuta urgente.

3) Infine, è ormai emerso con chiarezza che non si tratta di sostituire strutture desuete con altre strutture, ma di ri/attivare e ri/definire processi complessivi. Ogni riforma ecclesiale tocca contemporaneamente e correlativamente tre piani: l’autocoscienza collettiva (maturare una nuova visione di Chiesa), la forma della vita ecclesiale (le dinamiche partecipative e comunicative, il modo di vivere la comunione, lo stile ecclesiale), le strutture e le istituzioni attraverso le quali il corpo ecclesiale agisce e si mantiene nel tempo.

Sui primi due piani le donne possono oggi, in particolare con la loro parola e azione pastorale, operare direttamente in ordine al cambiamento auspicato; per una trasformazione delle strutture del “noi” ecclesiale complessivo, invece, l’agire delle donne non può essere che indiretto e parziale. Una riflessione, condotta in prospettiva di genere, sul potere e sui poteri nella Chiesa appare allora imprescindibile; senza ridurre troppo facilmente una tale richiesta a “rivendicazione femminista”, essa aiuterebbe la Chiesa intera ad affrontare con maggiore libertà un argomento basilare, che però raramente viene nominato o che viene “banalmente” sublimato nel ricorso generico alla terminologia del “servizio”.

Non può darsi riforma di Chiesa che prescinda oggi da una riconsiderazione delle forme di ministerialità delle donne: si tratta di promuovere nei diversi contesti e ai diversi livelli di vita ecclesiale “percorsi di ricerca” teologico-sistematica e pastorale sui molteplici ministeri di fatto esercitati dalle donne, sui ministeri istituiti da promuovere, sulla possibilità di una ordinazione diaconale. La Chiesa vive – oggi più che mai – della profezia e della diakonía delle donne: le strutture, i ruoli, le funzioni che fanno Chiesa devono essere così riplasmati.



Sette parole per un sogno

Cettina Militello

Il Nuovo Testamento attesta la flessione molteplice della sollecitudine ecclesiale e non fa differenza tra uomini e donne (cf. Rm 16). Purtroppo la lunga storia delle comunità cristiane si è sviluppata nel segno della progressiva veloce perdita di ogni prassi inclusiva.

Ma il modello comunionale (e sinodale) avviato dal Vaticano II segna la riacquisizione della soggettualità nel popolo di Dio tutto: uomini e donne che, nello Spirito, riscoprono insieme il loro diritto/dovere circa l’annuncio, la lode, la mutua corresponsabilità, secondo le peculiarità di tempo luogo, cultura.

Il servizio/diaconia ad intra e ad extra si fa cifra della Chiesa stessa e della sua necessaria riforma. La “Chiesa che verrà” dovrà dunque essere nel segno dell’abbandono di tutto ciò che ha comportato un fraintendimento vuoi delle relazioni di genere, vuoi delle relazioni altre, legate a modelli socio-culturali sacrali piramidali gerarchizzati.

Sognare la Chiesa che verrà…

Da qui un “settenario” per la reciproca diaconia (dei fedeli tutti e delle Chiese). Né il mio è un ardimento sostitutivo dello Spirito, ma è semplice espressione di un auspicio. La Chiesa che verrà sarà davvero molto diversa da quella che abbiamo conosciuta. Lo dico con una punta di rammarico perché non ho mai messo in discussione l’attitudine grata verso la comunità che mi ha generata alla fede e a cui devo, nelle contestualità del post-Concilio, l’acquisizione di strumenti critici che me la fanno disegnare e sperare “diversa”. Amo la Chiesa al di là delle sue contraddizioni e non mi sognerei mai di abbandonarla. Ma, per usare uno slogan felice, “se non ora, quando?”.

Le prese di posizione di papa Francesco, la cui ecclesiologia è tutt’altro che ingenua, ci incoraggiano a “sognare”. E il “sogno”, biblicamente parlando è esercizio di profezia. Sì, ho un sogno: quello di una Chiesa non ingessata ma duttile, non autocentrata ma aperta, non apologeticamente impegnata a difendere la sua verità/veridicità ma pronta ad accogliere la verità che lo Spirito effonde anche fuori dei propri confini confortevoli (talora augusti). Sogno la “Chiesa che verrà” sposando con entusiasmo l’immagine del “poliedro”: né piramide né sfera, ma molteplicità sfaccettata che riverbera diversamente e originalmente la luce.

Sogno la Chiesa “declericalizata”, “degerarchizzata”, “decentrata”, “pluriculturata”, “solidale”, “in uscita”, “a servizio”.

Biblicamente, “clero” è uno dei sinonimi di “popolo di Dio”; la clericalizzazione parzializzata della Chiesa ha prodotto soggetti prepotenti e invadenti, per privilegio sottratti alla dimensione costitutiva del servizio. La declericalizzazione chiede la dismissione di ogni ipoteca “sacerdotale-sacrale”.
Sogno la Chiesa che verrà “de-gerarchizzata”, popolo di Dio diversificato dai doni che lo Spirito a ciascuno elargisce e che la comunità, nella sua articolazione complessa, discerne e autentica. L’assetto gerarchico è conseguenziale al modello patriarcale che nulla ha a che fare con la fraternità/ sororità, al cui interno certo ci sono funzioni diverse che però non ne inficiano il tratto originario. Degerarchizzare vuol dire restituire al popolo di Dio soggettualità attiva e alle Chiese tutte il loro statuto sinodale.
Sogno la Chiesa che verrà nel segno dell’autonomia e del “decentramento”. Avverto anch’io la necessità d’istituire patriarcati continentali e subcontinentali, così da garantire che di nuovo, in sinodalità permanente, le Chiese locali siano soggetto di prassi consone alla pluralità delle culture che ne sono habitat
La Chiesa che verrà è “pluri-culturata”. Il recente motu proprio Magnum principium ribadisce il criterio dell’adattamento e la soggettualità delle Chiese nell’esercitarlo. Esprime così il rispetto per le culture native che caratterizzano le Chiese, esse stesse “soggetto culturale”.
La Chiesa che verrà non può che essere “solidale” con le attese e i bisogni tutti. Il dettato di Gaudium et spes va incrementato e ulteriormente compreso sui temi caldi. La Chiesa non difende il tripode borghese “Dio Patria Famiglia”; lo mette, anzi, in discussione se incrina il primato dell’amore, in senso stretto e assoluto l’unico comandamento cristiano.
La Chiesa che verrà è perciò Chiesa “in uscita” e “a servizio”, che va a cercare quelli che se ne sono andati o che semplicemente hanno smarrito il senso dell’essere al mondo. È una Chiesa povera e per i poveri, che – per usare l’espressione di don Tonino Bello ‒ mette insieme stola e grembiule. E se la stola è retaggio di autorità imperiale e dunque val la pena di trans-culturarla, il grembiule resta in tutta la sua immediatezza di re-culturazione del servizio. Ecco, sogno una Chiesa “serva” in tutte le sue membra, nelle contestualità diverse del pensarsi e del proporsi al mondo. Anch’essa mondo e carne, creatura. Sogno una Chiesa finalmente efficace perché ha interiorizzato il servizio, perché ha varcato la “soglia” riconoscendo il proprio “limite” di segno e strumento dell’incontro con Dio e di unità tra gli esseri umani tutti.
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