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Le donne, futuro della Chiesa?

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L'Osservatore Romano del 19 ottobre 2017
Anne-Marie Pelletier

Al Centre Sèvres

Pubblichiamo una nostra traduzione della relazione della teologa vincitrice del Premio Ratzinger 2014, pronunciata durante un incontro che si è tenuto al Centre Sèvres di Parigi il 10 ottobre scorso sul tema «Les femmes, avenir de l’Eglise?». Nel dibattito sono intervenuti i gesuiti François Euvé, direttore di «Études», e Rémi de Maindreville, che ha fondato «Christus», la storica Lucetta Scaraffia, che dirige il mensile dell’Osservatore Romano «donne chiesa mondo», e la filosofa Agata Zielinski. L’iniziativa è stata promossa dalle riviste dei gesuiti «Études» e «Christus» in occasione della pubblicazione di due speciali dedicati alla questione della donna nella Chiesa, rispettivamente sui temi «Quelle place pour les femmes?» e «Une spiritualité au féminin»

Soirée "Les femmes, avenir de l’Église?" organisée 10/10/2017 par la revue Etudes et la revue Christus



Nella loro saggezza, le scritture bibliche insegnano che per aprirsi all’intelligenza del futuro, è necessario ripassare per l’origine. Perciò, ancora e sempre, dobbiamo riaprire il libro della Genesi per riprendere contatto con l’originale — al di fuori della cronologia — che illumina la condizione umana, individua le controversie che deve affrontare e indica i mezzi per superarle.
Dobbiamo quindi soffermarci su un dettaglio del secondo racconto della creazione, nel capitolo due della Genesi. Ebbene, nell’istante in cui nasce la donna, appare anche l’uomo, che come tale non esisteva prima. E in quello stesso istante il racconto è attraversato dall’avvento della parola, o comunque del linguaggio. Al verso 23, di fatto, l’uomo che ha appena visto la vita, apre la bocca: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa». Confesso di essere stata a lungo sensibile al fatto che le prime dimensioni del linguaggio siano qui parole di celebrazione di una donna da parte di un uomo.

Una felice interpretazione del testo che mi ha però nascosto l’evidenza su cui l’esegeta André Wénin mi ha fatto infine aprire gli occhi: questa parola è meno edificante di quanto possa sembrare! L’uomo, le cui labbra si aprono sotto la pressione di uno stupore pieno di ammirazione, parla però a suo nome. Ricorre all’“io”, ma per indicare la donna alla terza persona, quella “non-persona” che è l’oggetto del discorso, come l’identifica la teoria linguistica. In altre parole, il linguaggio che si schiude qui non stabilisce ancora una relazione. Le parole risuonano in uno spazio vuoto della presenza autentica dell’altro. L’uomo che nasce qui alla parola per il momento perde l’occasione di entrare nella piena esperienza della differenza: la sua ammirazione tra l’altro si esaurisce nella costatazione che la donna è come lui! Di conseguenza qui siamo solo alle soglie della parola. C’è ancora tanto cammino da percorrere affinché lo spazio del linguaggio sia investito dalla presenza di quel “lei” metamorfizzato in atteggiamento di “tu”, e affinché tra i due avvenga qualcosa di simile a una “conversazione”.
Ma c’è dell’altro: in un colloquio con lo psicanalista Jean-Pierre Lebrun, André Wénin analizza più a fondo le parole del testo. Sottolinea allora un’altra evidenza: la donna in questa scena non parla. Non prende alcuna iniziativa per rompere il circolo dell’oggettivazione in cui la parola dell’uomo l’inscrive. Si accontenta di essere detta dall’uomo, come se la sua contentezza consistesse nel fatto di schivare il rischio di dirsi personalmente. All’orizzonte di questa analisi, prende forma l’idea che ci sarà forse una complicità delle donne con il discorso degli uomini che le parlano. Un discorso degli uomini che, volendo che esse stiano in silenzio, le dispensa dal confrontarsi con la loro identità….
Sottolineiamo che questa lettura delle parole della Genesi permette di valutare la profondità delle realtà coinvolte in quella che viene chiamata la “questione femminile”. Se di fatto bisogna parlare del “posto” delle donne nella Chiesa, interrogare l’istituzione ecclesiale su pratiche che continuano molto spesso a emarginarle, a trattarle con condiscendenza, se non con disprezzo, bisogna altresì percepire che il problema di fondo è proprio quello della relazione tra uomini e donne. La questione delle “donne nella Chiesa” è quindi strettamente legata a quella del futuro di questa relazione, contrassegnata dal marchio della bontà, come cantano tutte le canzoni d’amore del mondo, ma anche motivo di dolore, di sofferenza, come attesta l’esperienza delle società umane, anche laddove si è entrati nella novità cristiana... E il futuro della Chiesa è certamente collegato al futuro di questa relazione: la Chiesa entrerà nella sua verità accettando di tener conto di essere costituita in egual misura da uomini e donne, quel duello che fa l’umanità a immagine e somiglianza di Dio? Farà di questa relazione un banco di prova del suo futuro, affrontando difficoltà che si cristallizzano — non esclusivamente, ma singolarmente — proprio nel modo di gestire la parola tra uomini e donne? L’istituzione ecclesiale s’interrogherà sul modo in cui far circolare questa parola o serbarla, suscitarla al di là degli ambiti consentiti oggi, permetterle di dichiarare un’esperienza propria o, al contrario farla tacere, nel presentimento di un pericolo, di un pericolo per l’altro...
Alla luce della storia degli ultimi decenni, tali questioni ci pressano sempre più. Perché, di fatto, — diciamo a partire dagli anni preconciliari — la questione delle donne si è aperta un varco sempre più grande nel discorso ecclesiale. L’omaggio reso alle donne e le perorazioni a favore della loro dignità e dei loro diritti sono divenuti un tema ricorrente e insistente nel discorso magisteriale. Eppure l’appuntamento è stato ampiamente mancato, come ha mostrato con una franchezza sconvolgente l’articolo di padre Joseph Moingt pubblicato sulla rivista «Études» nel 2011. D’altronde le pratiche sono così poco cambiate che Papa Francesco, appena eletto, ha dovuto quasi chiedere di aprire un cantiere in merito…
Come intenderlo? «Dopo tutto quello che si è fatto per le donne» si meravigliano alcuni. Di fatto, bisognerebbe rettificare il discorso e riformularlo così: «Dopo tutto quello che si è detto delle donne», perché è proprio questo dire a essere la realtà che va interrogata. In effetti sono state pronunciate moltissime parole. E ciò costituisce un’incontestabile novità. Ecco però che, forse senza volerlo — ma si sa esattamente ciò che si vuole o non si vuole? — si è ritornati spesso, in questi tempi, alla scena di Genesi 2, 23. Le donne sono certo entrate nel campo della parola magisteriale, ma più di una volta nella temibilissima posizione della terza persona. Il che è evidente quando si tratta del rapporto con il loro corpo, con la vita, con l’altro, con la procreazione. In realtà è una vecchia tradizione presentata con tinte rinfrescate. Il che è evidente pure quando si tratta di celebrare la femminilità della Chiesa, il suo carattere mariano, il suo essere sposa. O anche di argomentare una complementarietà riconciliatrice, in un’ecclesiologia che indica due poli — petrino e mariano — intendendo così dare un posto privilegiato al femminile — la parte migliore, si dice — ma in una modalità che resta speculativa e astratta. Siamo quindi giusti: le donne sono anche entrate nel discorso magisteriale sotto forma d’indirizzi personali, interpellandole in una modalità vibrante. Così è stato in numerosi interventi di Papa Giovanni Paolo II. E già, in modo esemplare, di Paolo VI, nel suo messaggio alle donne, in chiusura del concilio Vaticano II. E tuttavia osiamo dire che molti di quei discorsi, inserendosi proprio nel registro del sublime, sono inesorabilmente ricaduti nello schema delle “donne parlate”… Parlate in modo diverso, ma sempre nell’orizzonte di un’identità più o meno immaginaria e, alla fine, con lo stesso effetto. Perché una donna troppo celebrata in una singolarità d’eccezione è di nuovo una donna tenuta a distanza. In realtà scartata dallo spazio in cui si trattano le cose serie, quelle che riguardano la decisione e l’effettività del potere…
Così, questi nuovi discorsi di celebrazione del femminile si sono ripiegati su se stessi. Hanno riportato le donne al mondo delle rappresentazioni maschili che sostengono, in un modo o nell’altro, le strutture di autorità e di governo. D’altronde non bisogna meravigliarsene, perché tali discorsi non includono un ascolto della donna, che libera da sola lo spazio della sua parola. Non corrono davvero il rischio di un incontro con l’altro, così come questo altro può dirsi, con l’imprevisto della sua esperienza, con la sua differenza che bisogna lasciargli formulare e non assorbire in nuovi discorsi di dominio maschile. La posta in gioco è che le donne nella Chiesa prendano parte alla parola/Parola. Dobbiamo essere precisi su questo punto: non si tratta di far prendere loro la parola «come si è presa la Bastiglia», per citare una frase celebre. E neppure di dare loro la parola, come una concessione condiscendente. Si tratta di farle entrare con gli uomini nella inter-locuzione. Ossia che compaia una parola della Chiesa in cui il “io-tu” implichi la cooperazione dei due sessi. In poche parole, si tratta di superare l’impasse di Genesi 2, 23 e la preclusione del linguaggio nell’esclusiva parola maschile.
Si tratta di far sì che la parola delle donne esista nella Chiesa oggi. Come d’altronde — contestando un po’ André Wénin — essa è esistita ieri, ma colpita da quella impotenza che le viene dal suo essere posta al margine, dal suo essere rinchiusa in una singolarità che si è potuta esprimere, per esempio, attraverso l’etichettatura di “mistica”. Una parola che permette di tenere a distanza ciò che non si vuole ascoltare troppo, anche se non si tratta più delle pratiche antiche, che fecero tacere questa parola annientandone i corpi…. A tale proposito particolarmente interessante è l’articolo di padre François Marxer riportato nel numero di Études dal titolo «Ces femmes qu’on dit mystiques». Donne le cui voci costellano il XX secolo, come lo stesso autore ha mostrato in un libro recente che dà loro la parola, per dire la fede al femminile, la fede «au péril de la nuit», ossia la fede in sé, e non rabberciata a partire da sicurezze sognate, da assicurazioni infantili.
Quella parola femminile che continua a esprimersi oggi, con un’energia tonica, come attestano l’italiana Luisa Muraro, la francese Marion Muller-Collard, la spagnola Dolores Aleixandre, e molte altre ancora.
Ma, giustamente, non si tratta solo di far sì che le donne dicano la loro verità, ma anche che la loro parola possa lasciare il recinto a cui è stata assegnata, possa entrare nel campo dell’ascolto e dello scambio. Dobbiamo di fatto concentrare la nostra attenzione non soltanto sul contenuto dei discorsi, ma anche sulla sua enunciazione: laddove il linguaggio vale non solo per quello che dice, ma anche per quello che costruisce di relazione al livello dei suoi interlocutori. Si tratta dunque, accogliendo la parola delle donne come quella di interlocutrici, di far cambiare profondamente le identità. Una donna che dice “io” costituisce l’uomo in “tu”, e ridefinisce così l’identità di ognuno. Così come salva il linguaggio dello sviamento che inscena Genesi 2, 23.

Una parola potrebbe fornire un buon modello di questa enunciazione trasformatrice delle identità. È “conversazione”. Indipendentemente dalle sue forti risonanze ignaziane, sotto la sua modestia, designa una modalità preziosa della parola e della relazione che essa instaura. L’incontro tra il re Salomone e la regina di Saba nel 1 Libro dei Re ne è un bell’esempio. Ricordiamo la scena: una donna, per di più straniera, viene a mettere alla prova — a provare — la saggezza di Salomone. Tra i due interlocutori inizia quindi una conversazione. Noi ne conosciamo gli effetti finali: il riconoscimento reciproco della saggezza dell’altro, che conferma la prosperità che ognuno fa vedere attraverso la magnificenza dei doni che offre all’altro (1 Re 10, 1-13). Abbiamo qui lo schema di un vero incontro tra un uomo e una donna. E al livello più alto, poiché il tema della conversazione è nientemeno che la Saggezza! Ebbene, è a questa altezza che probabilmente uomini e donne sono attesi oggi nella Chiesa. È l’altezza della “diaconia della Parola”. Sappiamo fin troppo bene che, da tale diaconia, le donne sono oggi ancora attentamente escluse. Noi celebriamo Maria Maddalena, la chiamiamo “apostola degli apostoli”, ma nella pratica non è così. O, per essere più esatti, le donne sono in prima linea in questa diaconia nella vita della Chiesa, ma ancora lontane dal suo riconoscimento istituzionale. L’ingiunzione: «la donna impari il silenzio» (1 Timoteo 2, 12) continua a pervadere le menti, associata al privilegio sacerdotale legato a questa forma di diaconia. Un fatto che in realtà ci riporta a ciò che probabilmente costituisce il punto nevralgico della nostra ecclesiologia: intendiamo il battesimo, la realtà del sacerdozio battesimale, con tutto quel che implica di dignità insuperabile e tutto quel che autorizza di parresia, ossia di garanzia e autorità, senza arroganza. Secondo san Paolo, questo sacerdozio battesimale qualifica innegabilmente la diaconia della Parola. Qualifica dunque anche le donne. Tanto più che, in una religione della Parola incarnata, queste ultime avrebbero varie qualifiche da far valere per questo servizio…: in particolare una familiarità con l’incarnazione che le rende capaci di muoversi nello spessore carnale delle Scritture, laddove la rivelazione prende forma. Un titolo che dovrebbero far valere per il bene di tutti, in una Chiesa che superi il dialogo fallito di Genesi 2, 23 ed entri pienamente nel compimento del linguaggio e della relazione, che si realizza con così chiaro giubilo nel “io-tu” del Cantico dei cantici!
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