Guanzini, Manicardi e la rivoluzione della tenerezza
in “Avvenire” del 24 settembre 2017
Da una parte Luciano Manicardi, priore della comunità monastica di Bose, dall’altra Isabella Guanzini, filosofa e teologa, autrice di Tenerezza. La rivoluzione del potere gentile (Ponte alle Grazie, pagine 192, euro 14,00). Nel mezzo un dialogo intenso, carico di densità e spessore intellettuale – da Roland Barthes a Spinoza –, tenuto all’interno della chiesa di Gesù Nazareno, nell’ambito del programma dedicato alla cinque giorni di “Torino spiritualità”.
Il confronto parte da uno spunto del volume di Isabella Guanzini, ovvero la difficoltà a parlare di tenerezza una volta adulti: «Il vincente – dice Manicardi – deve guardarsi con cura dalla tenerezza, perché mette in contatto con la vulnerabilità». È grazie al contatto, però, che si combatte l’indifferenza: «La tenerezza è un contropotere – spiega Guanzini –. Un modo rivoluzionario per abitare il nostro mondo». Il riferimento è al viaggio di papa Francesco a Cuba nel 2015, al suo sguardo nitido, senza filtri, facendo leva sulla gentilezza.
Non vi è nulla di mellifluo in questa declinazione di tenerezza, in un testo che, come spiega Manicardi, «tocca un tasto decisivo: la creazione di una grammatica dell’umano, per vivere relazioni più degne di questo nome; con una portata sociale, politica, quotidiana». Il punto d’arrivo – prosegue il priore – è la necessità di «cercare prossimità nella distanza, ritrovare la capacità di stupirsi, nonostante sia più complesso in un mondo a portata di clic».
È sul termine “stupore” che scatta un clic anche in Isabella Guanzini, incalzata su una carrellata di altri importanti termini inanellati con precisione quasi poetica. «Lo stupore scardina le abitudini, e i bambini ne hanno poche. L’abitudine è rigidità, come una veste ortopedica che può aiutare nel quotidiano ma irrigidisce a lungo andare».
Il secondo termine è “poesia”, contestualizzata nel suo rapporto con la tenerezza: «Poesia e tenerezza sono esperienze che non sopportano definizioni. Il loro è un rapporto cordiale con il mondo, perché nessuno dei due termini pretende di possedere la realtà e darne una definizione. La poesia apre, non chiude. Perciò non ha mai l’ultima parola, lascia un’impronta». La terza parola è “carezza”, ovvero il percorrere la superficie dell’altro, lo sfiorare senza possedere, lasciando una traccia. Poi viene la parola “pianto”, elemento tipicamente umano, che orienta le nostre emozioni e «libera la coscienza», fungendo da filtro per gli occhi, perché «lo sguardo troppo diretto pietrifica», come scriveva lo stesso Italo Calvino nelle sue Lezioni americane, in quella contrapposizione leggerezza-peso che ricercava un eroe, Perseo, capace di tagliare la testa alla medusa: «La tenerezza è quell’eroe», spiega ancora Guanzini.
Essere eroici, però, significa anche gestire il proprio rapporto con il tempo, attardarsi nell’esercizio della contemplazione. Manicardi su questo tema imbecca Guanzini citando La società della stanchezza del filosofo Byung-Chul Han: «La tenerezza – risponde la teologa – è il tempo della cura e la cura del tempo, un resistere alla voracità del consumare e di ciò che ci consuma. Un momento in cui ci liberiamo dall’ossessione della prestazione, del fare, da ansie e imperativi, dall’autosfruttamento, perché è giusto fare, ma bisogna anche salvarsi da ciò che si fa, non possiamo farci totalizzare dalle nostre cose. La tenerezza è inoperosità, un momento intransitivo in cui il tempo viene liberato». La stessa liberazione che accade nel gioco, anche grazie alle sue regole, in effetti funzionali al giocare stesso, oltre che grande necessità contemporanea.