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Enzo Bianchi Commento Vangelo 3 settembre 2017

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📖 “Se qualcuno vuole venire dietro a me…” 
3 settembre 2017 
XXII domenica del tempo Ordinario 
Commento al Vangelo 
di ENZO BIANCHI 


Mt 16,13-20

In quel tempo, 21 Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. 22 Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». 23 Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va' dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». 24 Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 25 Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 26 Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? 27 Perché il Figlio dell'uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni.

Nel brano evangelico di domenica scorsa, che precede immediatamente quello odierno, Pietro rispondeva a Gesù, che interrogava i suoi discepoli sulla sua identità, con una confessione di fede: “Tu sei il Cristo, il Messia, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Proprio per questa rivelazione ricevuta dal Padre che è nei cieli, Simone, il pescatore di Galilea, viene istituito da Gesù come Roccia (pétra), la prima pietra della costruzione della sua chiesa (cf. Mt 16,18).

Ma ecco l’ordine perentorio di Gesù di non svelare a nessuno la sua identità di Messia e, insieme, l’inizio di una nuova rivelazione. Sta scritto infatti che “da allora Gesù cominciò (érxato) a mostrare (deiknýein) ai suoi discepoli…”. Non solo a dire, a insegnare, come annotano gli altri sinottici, ma a mostrare, dunque con le parole e il comportamento, che “era necessario (deî) per lui andare a Gerusalemme e patire molte cose (pollá) da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno”. Matteo racconta che Gesù, dopo l’uccisione di Giovanni il Battista (cf. Mt 14,1-12) e le contestazioni e il rifiuto da parte di scribi e farisei (cf. Mt 15,1-20; 16,1-12), si era allontanato dalla Galilea verso le terre del nord, oltre le frontiere della terra santa, ma ora ritorna e decide di iniziare la salita verso Gerusalemme, la città santa, ma che egli conosce anche come “città che uccide i profeti” (Mt 23,37).

Gesù sente che “è necessario”, che “deve” intraprendere questo viaggio, non perché un fato lo decida per lui, ma perché la sua missione lo richiede, anche al prezzo della morte violenta. Questa necessitas è innanzitutto umana, inscritta nella storia umana, nelle vicende del mondo: in un mondo ingiusto, il giusto può solo ricevere rifiuto, persecuzione e persino la morte. Se Gesù vuole compiere la sua missione in parole e opere secondo la volontà del Padre suo, se resta coerente con ciò che ha predicato, deve compiere la sua missione anche andando nella città santa, anche affrontando l’odio e il rifiuto dei sacerdoti, degli scribi, degli uomini religiosi muniti di autorità e potere nel popolo del Signore. Questa necessitas umana diventa così anche necessitas divina. Ma attenzione: non perché Dio, il Padre di Gesù che è nei cieli, desideri la morte del Figlio, ma perché vuole che Gesù lo narri fedelmente come Dio di amore, Dio disarmato e mite, Dio che accetta di essere colpito piuttosto che colpire. Vigiliamo a non proiettare su Dio l’immagine perversa di un Padre che vorrebbe la morte e la sofferenza del Figlio (pollà patheîn). No, avviene così perché è una logica insita nel mondo, come aveva letto e profetizzato l’autore del libro della Sapienza, smascherando i ragionamenti degli empi e la loro persecuzione del giusto e povero credente nel Signore, il quale confessa Dio come Padre (cf. Sap 1,16-2,20).

Lo ripeto: in un mondo ingiusto, il giusto può solo conoscere la sofferenza, e Gesù, da quell’ora immediatamente successiva alla confessione di Pietro, lo mostra. Si noti che Gesù fa per tre volte questo annuncio durante la salita a Gerusalemme (cf. Mt 16,21; 17,22-23; 20,17-19), dunque con un’insistenza e un’intenzione precise: i discepoli che lo seguono devono comprendere che nella sua vocazione, nella sua identità di Messia è contenuta tutta la vocazione del Servo del Signore, che conosce sofferenza e morte (cf. Is 52,13-53,12). L’essenziale dell’annuncio-profezia è la necessitas della passione quale sofferenza patita, quale rifiuto da parte dell’autorità religiosa legittima, quale morte violenta, esito umanamente fallimentare di una vita e di una missione. Proprio dopo questa fine, però, vi sarà la resurrezione dai morti il terzo giorno, come azione del Padre su di lui, il Figlio: resurrezione non come vendetta sulla morte, ma come frutto della passione e della morte. E non vi sono solo parole da parte di Gesù, ma anche il suo comportamento insegna ai suoi discepoli tale necessitas: vita e parole concorrono nel suo “annunciare la parola apertamente (parrhesía)” (cf. Mc 8,32).

Di fronte a questo annuncio, la Roccia della chiesa, Pietro, appena istituito tale e proclamato da Gesù “beato” (cf. Mt 16,17-19), reagisce. Prende con sé Gesù, quasi in disparte dagli altri discepoli, e comincia a rimproverarlo dicendogli: “(Dio) ti preservi, Signore! Ciò non ti accadrà mai!”. Pietro invoca Gesù quale Kýrios, Signore, lo riconosce nella sua identità, ma proprio per questo lo rimprovera ritenendo le sue parole insensate, perché la passione e la morte non possono accadere al Messia. Non scandalizziamoci delle parole di Pietro: anche Gesù provava rifiuto e ripugnanza per ciò che lo attendeva e nel Getsemani lo mostrerà ai discepoli con un’angoscia vissuta visibilmente e con una preghiera al Padre affinché allontanasse da lui il calice di quella misera fine (cf. Mt 26,36-46)! La sofferenza e la morte, nostra e di chi amiamo, ma anche degli altri, ci fanno male e ci ripugnano. Pietro sta dicendo questo.

Ma per Gesù quelle parole suonano come una tentazione rinnovata da parte di Satana. Colui che l’aveva tentato nel deserto, offrendogli una via messianica senza croce e senza morte, ma fatta solo di successo e di potere (cf. Mt 4,1-11), si manifesta ora nelle parole del discepolo da lui istituito come Roccia. Per questo Gesù gli grida: “Opíso mou, sta alla mia sequela, dietro a me, non prendermi in disparte, non essere un ostacolo sulla mia strada, perché i tuoi pensieri sono umani, non sono pensieri di Dio”. Ecco perché la Roccia può essere chiamato Satana! Nessuna smentita della precedente investitura e della beatitudine rivolta a Pietro, ma un chiaro avvertimento: anche alla Roccia è possibile finire per ragionare mondanamente ed essere un ostacolo sulla via del Signore.

E affinché questo “mostrare” la necessitas passionis sia una parola definitiva, a questo punto Gesù, secondo Marco, chiama addirittura a sé la folla (cf. Mc 8,34), e secondo Matteo dice ai discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me (opíso mou), smetta di conoscere solo se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Ecco come il discepolato si precisa per tutti: non è solo seguire un maestro sapiente e autorevole, non è solo seguire un profeta capace di compiere miracoli, ma significa essere coinvolti con la vita di Gesù, significa rinunciare a conoscere e affermare se stessi, significa prendere la propria croce, lo strumento della morte dell’uomo mondano, dell’“uomo vecchio” (Rm 6,6; Ef 4,22; Col 3,9), e seguire Gesù ovunque egli vada (cf. Ap 14,4). Discepolato a caro prezzo! Discepolato che non rende esenti dallo scandalo, dalla prova, dalla sofferenza. Discepolato che pone dalla parte di Gesù, il Servo sofferente, e dalla parte di tutti quelli che soffrono in questo mondo. Sì, beati i poveri, i miti, quelli che piangono, quelli che sono perseguitati (cf. Mt 5,1-12)… La perdita di sé, del sé mondano, è necessaria perché possa emergere il proprio autentico sé, quello che si trova in Cristo Gesù. I cristiani, e soprattutto i pastori della chiesa, che proclamano la vera identità di Gesù quale Figlio del Dio vivente, non dimentichino, non occultino mai il crocifisso. Infatti, la gloria di ogni cristiano sta tutta in quel prendere la propria croce e seguire il suo Signore nella passione, morte e resurrezione.

Ecco allora, di seguito, alcune sentenze di Gesù imperniate sulla parola “vita”. La vita è innanzitutto non quella che uno cerca di conservare a ogni costo, seguendo l’impulso a vivere anche senza e contro gli altri, in una logica di autoconservazione, logica che non riconosce la dinamica del dono di sé a Dio e agli altri. Al contrario, si può addirittura spendere la vita fino a perderla nel darla, e in questo caso la si ritrova nella potenza della resurrezione che Dio opera come parola ultima e intima sulle nostre vite.

La vita vera, inoltre, non significa guadagnare il mondo, non si identifica con l’avere, con il possedere, perché nessuno può pagare a Dio la propria redenzione e salvare la propria vita (cf. Sal 49,8-9). Questa verità sarà manifesta quando verrà il Figlio dell’uomo nella gloria del Padre, con tutti i suoi angeli, in quello che sarà “il giorno del Signore”, annunciato dai profeti e confermato da Gesù come giorno del Figlio dell’uomo (cf. Mt 24,44; 25,31). Allora, mediante un giudizio ultimo e definitivo, apparirà la verità della vita di ciascuno di noi e ognuno riceverà da Dio un giudizio conforme a ciò che avrà vissuto e operato sulla terra. All’orizzonte ultimo della storia sta dunque per tutti noi la venuta nella gloria di Cristo, Figlio dell’uomo e Figlio del Dio vivente, colui che è stato crocifisso ed è stato risuscitato il terzo giorno.

E se noi abbiamo tentato di seguire Gesù, ma come Pietro, la Roccia, di fronte alla persecuzione abbiamo riconosciuto solo noi stessi, fino a dire di Gesù: “Non lo conosco” (cf. Mt 26,69-75), nel pentimento conosceremo lo sguardo misericordioso di Gesù. Come è accaduto a Pietro (cf. Lc 22,61-62)!


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