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Annalisa Guida Gesù e le donne

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Gesù Cristo, Signore delle relazioni

La qualità di una relazione dipende da molti tratti, non ultime la libertà con la quale in essa interagiscono le persone coinvolte e l’autenticità che le persone possono esprimervi. Preziosa è anche la capacità di incidere sul percorso di autonomia e responsabilità personale, incoraggiando crescita e consapevolezza.
Se queste premesse sono condivise da chi legge, possiamo allora dire che le relazioni tra Gesù e le donne nella tradizione evangelica sono sempre relazioni di qualità. Per le donne, senz’altro: incontrate, liberate, esaudite, guarite, riportate alla vita, inviate e responsabilizzate. Ma anche per Gesù, interrogato e trasformato dalle figure femminili che incontra: così ci raccontano i Vangeli, non si sta forzando il testo.
Piuttosto, la portata innovatrice e liberatrice dell’atteggiamento che Gesù ha verso le donne e del ruolo che queste assumono tra i discepoli di Gesù è stata fin troppo annacquata dalla consuetudine, se non addirittura ridimensionata – come la travagliata storia testuale della pericope dell’«adultera» testimonia – da una cultura androcentrica e sessista non estranea neppure alla chiesa primitiva.
I quattro Vangeli canonici non presentano in modo uniforme né equivalente i personaggi femminili, sebbene il ruolo delle donne nel discepolato di Gesù sia indistintamente evidenziato in alcuni episodi della vita del Maestro nonché al cuore del kerygma, ossia all’annuncio della risurrezione presso la tomba vuota nel mattino di Pasqua. Con queste presenze e con un simbolismo al femminile usato in primis dallo stesso Gesù[1] e quindi dagli scrittori del Nuovo Testamento per dire l’essenza stessa della chiesa (cf. la sposa dell’Apocalisse), si iniziò ad arginare la teologia tutta al maschile del giudaismo conservatore, sebbene nuovi conservatorismi fossero già all’orizzonte.
Proviamo, allora, a soffermarci sui tratti più caratteristici della presentazione evangelica di incontri di Gesù con figure femminili, cercando di evidenziarne, caso per caso, la continuità o discontinuità con il giudaismo coevo[2] e il primo cristianesimo.

1. Il contatto sanante

Ci sono donne in abbondanza tra i beneficiari di guarigioni ed esorcismi di Gesù: che qualcuno interceda per loro (come per la suocera di Pietro o per la figlia di Giairo) o che loro intercedano per altri (come la sirofenicia o la vedova di Nain) o che esse stesse cerchino un approccio con Gesù per essere salvate (come l’emorroissa), i racconti di miracolo testimoniano non solo come la tenerezza di Dio in Gesù si rivolga a queste figure come alle altre di diseredati e oppressi che affollano le strade della Galilea, ma anche che Gesù non teme in alcun modo la contaminazione derivante dal contatto fisico con un malato, meravigliosamente esemplificato dal quel “prendere per mano” che accomuna la guarigione di una vecchia (Mc 1,31) e la rianimazione di una giovanissima fanciulla (Mc 5,41). Il contatto fisico rompe l’isolamento, restituisce dignità e relazione, solleva il corpo e lo spirito: impensabile per i contemporanei di Gesù, che consideravano i malati assolutamente impuri (e quindi intoccabili se non si voleva incorrere nella contaminazione rituale) ed esigevano finanche dalla donna che avesse appena partorito un isolamento lungo e continue abluzioni (tanto più lunghe se era stata partorita una bambina! Cf. Lv 12,1-5).

2. La parola in pubblico

Per noi lettori del XXI secolo tutti gli episodi evangelici in cui Gesù parla con una donna sono assolutamente normali ed equiparabili a tanti altri. Ma alcune spie testuali ci dicono che non doveva essere così al suo tempo: se leggiamo, ad esempio, Gv 4, notiamo che la stessa donna samaritana si sorprende del fatto che Gesù le rivolga la parola (4,9: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?»), e questo viene spiegato dal narratore con l’inimicizia tra giudei e samaritani; ma addirittura i discepoli, sopraggiunti dopo essere andati a fare compere, «si meravigliavano che parlasse con una donna» (4,27), «[…] gesto che ai rabbì non era consigliato, soprattutto se prolungato, e che poteva esporli al pettegolezzo (cf. Mishnah Avot 1,5)»[3].
Alla donna “per bene” la parola in contesti pubblici era assolutamente vietata, e se non capiamo questo non comprendiamo il coraggio e la sfrontatezza dell’emorroissa e della sirofenicia quando, facendosi animo, rivolgono apertamente la parola a Gesù (e i Vangeli ce ne riportano dettagliatamente le battute, dando eccezionale rilievo a questi dialoghi). Verrà alla mente dei lettori che, invece, Paolo in 1Cor 14,34-35 così esorta:

Come in tutte le comunità dei santi, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea.

Va detto che il dibattito tra gli esegeti sulla corretta interpretazione di queste norme apparentemente maschiliste presenti spesso in Paolo è sempre molto vivace: frasi del genere, infatti, vanno prima di tutto comprese come testimonianza di una prassi e di un’opportunità che l’apostolo ravvede nel contesto in cui scrive. E Paolo è lo stesso che in Gal 3,24 afferma: «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.» Ma per contrasto va senz’altro notato che quella “sconvenienza” (1Cor 14,35) non interessava affatto a Gesù. La discontinuità con il prima e il dopo è evidente.

3. L’insegnamento

Ma il tratto ancora più ardito è che le donne, nei Vangeli, sono destinatarie di insegnamenti di Gesù, ossia che Gesù spezza la parola per loro. Rabbi Eliezer, uno dei più famosi rabbini del I secolo, dichiarava: «Chi insegna la Torah a sua figlia, le insegna il libertinaggio». E il Talmud recita ancora: «Meglio bruciare la Torah, che trasmetterla alle donne» (Sota III, 4). E, come i bambini e gli schiavi, le donne non avevano l’obbligo di recitare lo shemà o le preghiere prima e dopo i pasti.

Si capisce allora perché il pio ebreo ringraziasse ogni giorno l’Eterno per non averlo creato “pagano, donna e ignorante”. Paradossalmente, benché la Scrittura contenga le storie di parecchie eroine d’Israele e ne esalti il ruolo nella storia della salvezza, le donne non avevano il diritto di studiarla né di inserirvisi da protagoniste, data la prevalente interpretazione maschilista[4].

Invece le donne sono destinatarie dell’insegnamento di Gesù, come testimonia la bella pericope di Lc 10,38-42, nella quale il personaggio di Maria fa qualcosa di assolutamente inaudito per i suoi tempi, ossia si siede ai piedi di Gesù e ne ascolta le parole e gli insegnamenti, mentre le convenzioni sociali, ben rappresentate dalla sorella Marta, le avrebbero imposto un indaffarato e invisibile servizio domestico. Gesù apprezza pubblicamente Marta e la grande libertà interiore con la quale è andata oltre le convenzioni e i ruoli del suo tempo, scegliendo “la parte migliore, che non le sarà tolta” (10,42).

4. Il discepolato

Ancora: nonostante un linguaggio androcentrico che non aveva il femminile del termine “discepolo” (così avveniva in aramaico), riflettendo l’impensabilità di una sequela al femminile di un rabbi, i Vangeli ci dicono che un gruppetto di donne seguiva stabilmente Gesù: Marco lo ricorda in 15, 40-41, ai piedi della croce, quando ormai tutti i discepoli maschi sono fuggiti:

Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.

L’imperfetto ekoloúthoun impone di riconsiderare quella sequela, che viene menzionata tardi nel racconto, come qualcosa di stabile e duraturo e che è iniziata già da tempo. Luca addirittura anticipa narrativamente la menzione di queste discepole già al capitolo 8, dandoci uno spaccato sociale interessante – oltre a ricordare che quelle donne discepole sono anche donne guarite:

In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni (Lc 8,1-3).

Che razza di gente e di maestro, dunque, fossero questi pazzi della Galilea, i quali accoglievano stabilmente al loro interno donne che avevano evidentemente lasciato le proprie famiglie (alcune anche di rango sociale elevato) per una vita errabonda e moralmente discutibile, i contemporanei di Gesù dovettero chiederselo spesso.

5. Il servizio

Le donne dimostrano, quindi, di essere pienamente capaci di un servizio ministeriale, che va ben oltre i confini domestici e le necessità familiari. Delle donne, infatti, viene detto che esse servono Gesù (cf. l’uso del verbo diakonèo con soggetti femminili all’inizio e alla fine del Vangelo di Marco, in 1,31 – guarigione della suocera di Pietro – e nel v. 15,41 prima citato).
In Marco, se si escludono gli angeli in 1,13, le donne sono le uniche a servire Gesù, e Gesù stesso usa questo verbo non nel senso quotidiano della preparazione del cibo, ma come termine “tecnico” del discepolato (cf. 10,45 e l’invito ai discepoli a farsi servi in 9,35 e 10,43). Quindi, questo servizio riservato alle donne acquista un significato teologico e cristologico preziosissimo.

6. L’invio come apostole

Ai tempi di Gesù una donna non poteva testimoniare in un processo: la sua parola non aveva valore alcuno in ambito giuridico. Eppure Gesù affida a un gruppetto di donne il messaggio più importante, ossia l’annuncio della risurrezione. Questo dato è condiviso da tutta la tradizione evangelica, ed è ancora Luca a darci lo spaccato in tal senso più realistico quando ci ricorda che gli Undici e gli altri, udito l’annuncio delle donne, non credettero loro perché le loro parole sembravano vaneggiamenti (cf. Lc 24,10-11). In tal senso, ebbe più fortuna la samaritana tra i suoi, che credettero in Gesù grazie alla parola di quella donna:

Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto» (Gv 4,39).

7. L’equiparazione nei diritti

Il diritto matrimoniale è senz’altro l’ambito nel quale più nettamente Gesù opera una vera e propria equiparazione dei diritti tra partner a fronte di una sperequazione ingiusta e maschilista tra un possessore e un oggetto di possesso.
È Matteo il Vangelo con i passaggi più illuminanti a riguardo. Già in Mt 5,27-30, richiamando il sesto e il nono comandamento che riguardano il rapporto tra uomo e donna, Gesù “libera” quest’ultima dai condizionamenti sociologici e giuridici che ne umiliano la dignità. Scrive a riguardo R. Manes:

Al tempo di Gesù, essa [la donna] era ritenuta proprietà del marito utile solo a garantirgli una discendenza. Per Gesù invece la donna non è un possesso tra gli altri, ma una persona dotata di dignità. Perciò rompe con lo stereotipo della donna peccatrice e denuncia l’uomo come peccatore: egli pecca quando pone sulla donna lo sguardo del possesso, quando la ripudia e quando sposa una ripudiata (come dirà più avanti). Gesù dichiara in modo rivoluzionario che l’uomo adultero non è solo quello che si unisce alla donna di un altro uomo, colpendolo nei suoi diritti (perché ha violato «la sua proprietà»!), ma anche quello che pone sulla donna uno sguardo che la rende oggetto di piacere. […] Appare così la grave responsabilità dell’uomo nei confronti della donna: egli non è il solo soggetto di diritti; insieme ai diritti deve assumere i propri doveri; egli, inoltre, non può porsi come un predatore rispetto alla donna, ma come partner di un’alleanza bilaterale, non come il padrone che la umilia per ostentare il suo potere, ma come il custode che la protegge e il compagno che condivide e progetta con lei il cammino[5].

Ma la problematica viene ripresa e portata oltre in Mt 19,3-9, quando Gesù rilegge il racconto della creazione e cerca di spostare l’attenzione dei suoi interlocutori da cavilli umani all’intenzione originaria del creatore:

Gesù sostiene che anche l’uomo che viola la fedeltà coniugale è colpevole nei confronti di sua moglie, anche se lo fa dopo averla ripudiata legalmente. In tal modo egli libera la donna dalla schiavitù nei confronti dell’uomo facendola passare dalla condizione di oggetto che ha solo doveri alla condizione di soggetto di diritti e libera l’uomo dalla tentazione del potere che lo spinge a ritenere la donna un oggetto di desiderio di cui disporre a proprio piacimento. Di fronte alle parole di Gesù i discepoli manifestano una loro riflessione corale: se l’esperienza matrimoniale è così esigente, sembra loro più opportuno non sposarsi. Essi infatti colgono nelle parole di Gesù, che restituisce alla donna la sua dignità di persona nella coppia, la fine dei privilegi del sesso maschile. […] Un paio di sandali si possono cambiare, una donna no. Attraverso l’insegnamento liberante di Gesù l’uomo perde la schiava, ma ritrova l’aiuto, la compagna che Dio gli ha messo di fronte. La donna torna a essere offerta all’uomo come un dono sacro. Solo con lei ha inizio la comunicazione: appare la parola. Ma la parola non è nulla per l’uomo, se non impara a essere “uomo di parola”, che rispetta i suoi impegni e compie le sue promesse[6].

8. L’esemplarità

Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Mc 12,43)

Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto» (Mc 14,6).

E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (Lc 7,44-47).

Concludiamo questa carrellata di tratti esclusivi e rivoluzionari del modo in cui Gesù si rapporta alle figure femminili che incontra con tre passaggi da altrettante pericopi che ben illustrano l’esemplarità che, a dire di Gesù, hanno per i discepoli e per tutti gli uomini i comportamenti di alcune donne. Riprendendo quanto R. Virgili dice a proposito dell’ultima pericope (ossia la peccatrice perdonata di Lc 7,36-50[7]), si può affermare che Gesù istituisce qui tre insolite “cattedre”, dalle quali a insegnare non sono sacerdoti, scribi, farisei, ma tre donne: una povera vedova, una donna anonima, una pubblica peccatrice (Luca riscrive così in parte l’episodio marciano dell’unzione di Betania). Il capovolgimento di valori che Gesù sta operando si riflette anche in nuove rapporti tra chi insegna e chi apprende, soprattutto perché c’è una nuova virtù da contemplare e apprendere, che non è la perfetta conoscenza della Legge, ma la smisurata misericordia di Dio, alla quale le donne dei Vangeli dimostrano incessantemente di credere e di affidarsi più spesso e con più libertà interiore dei loro comprimari maschili, rappresentanti di un mondo potente, presuntuosamente sapiente e in verità molto lontano dal regno di Dio. Le mani di quelle tre donne esemplari hanno donato piuttosto che afferrare, riconoscendo nella logica dello spreco la bellezza stessa di Dio e affidandosi a un amore che

è smisuratezza, eccesso, è impossibilità di sapere dove si trovi il limite. […] Una smisuratezza, una asimmetria, un altro ordine di idee rispetto alla legge[8].

Questo avevano intuito anche l’emorroissa e la sirofenicia, addirittura “strappando” a Gesù dei miracoli, fiduciose nella sovrabbondante grazia di Dio che in lui avevano visto all’opera. Così ha fatto, nella sua disponibilità accogliente e feconda, la madre di Gesù.
Sotto gli sguardi premurosi di queste donne Gesù trascorre la sua vita, dalla nascita alla croce, dalle fasce della mangiatoia a quelle della sepoltura, che rimarranno a terra mentre uno scalpitio leggero, gravido di paure e di attesa, andrà a riportare ai discepoli la speranza e il coraggio.

Nota bibliografica

R. Bauckham, Gospel Women. Studies of the Named Women in the Gospels, Wm. B. Eerdmans, Grand Rapids (MI) 2002; A. Guida, «In ricordo di loro»: figure femminili nel Vangelo di Marco, in «La Rivista del Clero italiano» 46 (2015) 625-634; A. Maggi, Versetti pericolosi. Gesù e lo scandalo della misericordia, Fazi Editore, Roma 2011; M. Navarro Puerto - M. Perroni (edd.), I Vangeli. Narrazioni e storia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2012; E. Schlüsser Fiorenza, In memory of Her. A Feminist Theological Reconstruction of Origins, SCM Press, London 1995 (tr. it. In memoria di lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiane, Claudiana, Torino 1999).

[1] Pensiamo alle immagini della donna che cerca la moneta perduta in Lc 15,8-10 usata come parabola del regno e alla similitudine della chioccia che protegge i suoi pulcini, che Gesù usa per parlare di sé in relazione a Gerusalemme: cf Mt 23,37//Lc 13,34).

[2] Di cui è un rappresentante lo storico Giuseppe Flavio che, nel Contra Apionem, scrive: «La donna, dice la legge, è inferiore all’uomo in ogni cosa» (2,24).

[3] M. Nicolaci, Vangelo secondo Giovanni. Traduzione e commento, in R. Virgili (ed.), I Vangeli. Tradotti e commentati da quattro bibliste, Àncora, Milano 2015, 1349-1350; cf. anche 1669-1694: Profumo di donna. Presenze femminili nei Vangeli».

[4] P. Vanzan, La donna nella chiesa: indicazioni bibliche e interpretazioni femministe, in «La Civilità cattolica» 3257 (1986) 431-444.

[5] R. Manes, Vangelo secondo Matteo. Traduzione e commento, in R. Virgili (ed.), I Vangeli, 112-113.

[6] Ivi, 323-324.
[7] R. Virgili, Vangelo secondo Luca. Traduzione e commento, in Ea. (ed.), I Vangeli, 940.

[8] Ivi, 943.
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