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Rosanna Virgili L'arte del governare

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Dal greco kubèrnesis, la Sapienza è, secondo il libro dei Proverbi, l’arte del governare. Sì, perché proprio ai futuri governanti, ai delfini di corte, ai capi, ma anche ai loro consiglieri, ai deputati e agli anziani, così come agli uomini di Legge, era destinata la scienza forse più alta ed onerosa dell’antichità mediterranea, vale a dire la politica.

In Egitto come in Babilonia, in Grecia come in Israele, esistevano vere e varie scuole di Sapienza, spesso ubicate accanto al Palazzo. A far politica, insomma, si doveva imparare con una disciplina seria e saggia, attingendo a quanto di meglio venisse non da una, ma da ogni conoscenza umana (e divina). A Roma, dove pur facilmente si saliva al potere in virtù delle vittorie militari, gli imperatori studiavano la lingua greca e sceglievano come loro successori più volentieri tra i figli adottivi, quando quelli naturali non mostrassero le necessarie attitudini.
Certo, oggi le cose vanno diversamente e non solo in Europa. Ed è giocoforza che sia così. Se, infatti, non è un dogma che si debbano aprioristicamente conservare le pratiche – pur buone! - del passato, ancor più certo è che nulla possa restare sempre uguale a sé stesso, ma ogni cosa debba tenere il passo evolutivo della storia. Detto questo, colpisce il gap vistoso tra la sapienza antica e la realtà attuale: “Siamo arrivati a ricoprire posizioni importanti per puro caso e non eravamo preparati”, ha affermato in un’intervista a Repubblica di qualche giorno fa, una politica italiana. Quel “per puro caso” è piuttosto inquietante, ma anche toccante, poiché contiene un implicito appello all’intera società: l’urgenza di pensare a una “scuola” per la cura della cosa pubblica. Che non significa un Corso intorno a qualsivoglia Ricettario, quanto il fornire degli strumenti critici ed etici per poter affrontare lo splendido ed arduo compito del far politica.
Tra tanti monumentali pilastri e doviziosi sussidi che la nostra memoria culturale e spirituale offre, prezioso resta anche quello biblico. Le storie di re Salomone, ad esempio, si mostrano di grande stimolo per una riflessione attuale. Uomo cresciuto negli orizzonti aperti a tutti i popoli vicini e lontani dal proprio, dalla mente assorbente e “vasta come la sabbia che è sulla spiaggia del mare” (1Re 5,9) - Salomone fu il più grande dei re di Israele. Quale fu il segreto del suo strepitoso successo? Tutto nacque da un sogno: il “sogno di Gabaon”, simbolicamente il sogno del governo. Tanto grande quanto difficile, si rese conto, subito, Salomone. Trovandosi dinanzi alle esigenze di un popolo in continua formazione e tras-formazione, numeroso e diviso, complesso e variegato, il giovane aspirante monarca non iniziò erigendosi a Giudice e Solutore di ogni problema, ma, al contrario, umilmente auspicò: “un cuore intelligente che fosse capace di ascoltare” (1 Re 3,9).
Una domanda che ridusse in rottami la mentalità di tutti i suoi colleghi: essi, infatti, anche allora (intorno a tremila anni fa!), chiedevano – ahimè! - alla politica, le cose di sempre: “La lunga vita, la ricchezza e la morte dei nemici” (1Re 3,11), ovvero: l’arricchimento e il potere personali, la lunga carriera e il far fuori gli avversari… Salomone fu un politico diverso e perciò davvero un pastore per Israele che, durante il suo Regno, divenne una realtà grande, visibile e concreta sulla scena internazionale del suo tempo, secondo quanto narra la Scrittura.
Ciò non vuol dire che non avesse difetti – la sua ambizione, ad esempio, fu grandissima! - e non facesse anche delle scelte sbagliate che i suoi successori dovettero pagare. Ma tale rischio va messo sempre in conto qualora si intraprenda l’arte di governare. Come tutte le Arti, infatti e le Scienze, anche il governo è sottoposto a quel principio della Sapienza che dice: “ogni cosa ha un limite”. E se i nostri governanti non avessero tale consapevolezza, guai a noi, poiché si riterrebbero i nostri Salvatori. La Sapienza stabilisce che chi governa sia, pur sempre e soltanto, un “Ministro”, quand’anche fosse il “Primo”.
Come tutti i re di Israele anche Salomone dovette fare i conti con la “stampa”. All’epoca questo compito spettava ai Profeti ed ai Saggi. Ed anche quando le loro parole fossero scomode e caustiche nei confronti del re, nessuno si sognava di metterle a tacere, poiché si temeva che contenessero delle verità (e quindi venissero da Dio). Ma anche i veri profeti ubbidivano a un rigoroso codice etico: a differenza dei “falsi profeti”, menzogneri e corporativi, essi si preoccupavano di correggere l’operato dei governanti con uno spirito costruttivo, a sua volta di “servizio”, proteso al bene di tutti i cittadini. E i Saggi, pur instancabili nei loro onesti consigli, non si affrettavano in giudizi demolitori e definitivi precoci, circa l’operato dei monarchi, ma ne attendevano il compimento, prima di fare un bilancio. “Dio stesso non giudica nessuno prima che sia arrivata la fine dei suoi giorni. Perché dovremmo essere più precipitosi noi”? diceva Samuel Johnson.
Affinché un governante possa realizzare il più alto dei ministeri, insomma, è indispensabile anche una giusta dose di fiducia da parte del popolo sovrano.
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