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Erwan Chauty Incertezza

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Quando un gruppo sociale si interroga sul proprio futuro, in ambito sia religioso, sia laico, può accadere che vi siano voci discordanti, che si contrappongano punti di vista diversi nell’interpretare la situazione presente e nel prevederne gli sviluppi. A questo proposito, il Concilio Vaticano II riteneva necessario saper «scrutare i segni dei tempi» e «interpretarli alla luce del Vangelo» (cfr Gaudium et spes, n. 4). Ma anche stabilire quale sia un “segno dei tempi” nel mondo d’oggi non è così scontato e genera disaccordo.


Nella Bibbia vi sono testimonianze di simili dibattiti. Ad esempio, nelle epoche di crisi i profeti, osservando ciò che accadeva, denunciavano la condotta di re e sacerdoti, parlavano con coraggio di eventi funesti che nessuno osava affrontare, annunciavano un futuro di speranza quando tutti erano disperati. Sempre, però, accanto a quelli autentici sorgevano dei falsi profeti ed era essenziale saper discernere chi di loro diceva la verità per decidere cosa fare. Anche Gesù mette in guardia i suoi discepoli: Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci! (cfr Matteo 7,15).

Può essere molto utile esaminare alcuni testi dell’Antico Testamento – ne proponiamo tre – in cui vera e falsa profezia vengono messe a confronto. Ad essi applicheremo le categorie ermeneutiche del lettore e della comunità di ricezione, per ricavarne dei criteri orientativi, rispettando la distanza culturale del mondo biblico dal nostro e tenendo conto del diverso linguaggio con cui noi formuliamo le nostre preoccupazioni psicologiche e spirituali.

I racconti nel Primo libro dei Re

I primi due brani in cui si affrontano veri e falsi profeti si trovano nel Primo libro dei Re. Nel capitolo 13,11-24, un vecchio profeta di Betel spinge un uomo di Dio al peccato, inducendolo a rinunciare al digiuno ordinatogli dal Signore. In uno strano capovolgimento, questo vecchio profeta dal cuore pervertito è destinatario della parola autentica di Dio, che gli comanda di annunciare la morte a colui che aveva rotto il digiuno il quale, infatti, è ucciso da un leone incontrato lungo il cammino. La lezione sembra essere che nessuno può ritenersi un vero profeta in modo definitivo; viceversa, anche colui che ha spinto un altro verso il peccato può ridivenire un vero profeta.

Un po’ più oltre, in 1Re 22,1-38 è raccontata la decisione di Acab, re d’Israele, e di Giòsafat, re di Giuda, di combattere per riconquistare Ramot di Gàlaad. Prima della battaglia i re consultano 400 profeti che li rassicurano sulla vittoria. Ma, in preda a un dubbio, Giòsafat consulta anche un altro profeta, Michea, che Acab detesta perché non mi profetizza il bene, ma il male. A Michea è fatta una richiesta contraddittoria: profetizzare il bene e dire la verità in nome del Signore. Con coraggio, sceglie di obbedire alla verità piuttosto che di profetizzare un esito favorevole. Le sue parole preannunciano una sconfitta totale e rivelano che Dio ha permesso a uno spirito di menzogna di guidare gli altri profeti. Il seguito del racconto conferma la sua profezia: Acab è ucciso da una freccia e i cani leccano il suo sangue. Nell’episodio è evidente che il vero profeta rimette in discussione le certezze assodate e la sua parola è sempre imprevedibile e scomoda.

Geremia e Anania

I due brani precedenti danno qualche indicazione sulla differenza tra vero e falso profeta e sono scritti in modo da non lasciare molti margini al dubbio. Il lettore sa da subito se una parola viene dal Signore o si oppone a lui (cfr 1Re 13,18: egli mentiva a costui); lo stesso Michea all’inizio si comporta come un falso profeta (1Re 22,15-16), ma la sua commedia non si protrae a lungo. La situazione è invece molto diversa in un altro brano: il racconto del confronto tra i profeti Geremia e Anania, narrato in modo da lasciare il lettore nell’incertezza riguardo a chi dica la verità.

La vicenda si sviluppa sullo sfondo della prima vittoria di Nabucodònosor contro Gerusalemme nel 597, con la deportazione del re Ioiakìm e l’ascesa al trono di Sedecìa al suo posto. Il suo regno durerà undici anni, fino alla completa distruzione della città con una seconda deportazione del popolo a Babilonia. Nel quarto anno di questo regno avviene lo scontro tra i due profeti. La scena si svolge in presenza dei sacerdoti e del popolo, nel tempio spogliato dagli oggetti di culto dopo la prima deportazione. Anania annuncia che entro due anni i deportati e gli arredi del tempio ritorneranno da Babilonia. Geremia prende la parola augurandosi la realizzazione della profezia appena pronunciata: Così sia! Così faccia il Signore! (Geremia 28,6). Ma aggiunge subito dopo un criterio di discernimento: bisogna credere subito ai profeti quando annunciano guerra, fame e peste; mentre per credere a un profeta che annuncia la pace bisogna attendere la realizzazione della sua parola. Anania compie allora un atto simbolico: toglie dal collo di Geremia il giogo che aveva costruito in precedenza e posto su di sé come segno dell’accettazione della dominazione babilonese e lo rompe. Dopo questo gesto, Geremia riceve una parola dal Signore: un giogo di ferro sostituirà quello di legno, tutti serviranno Nabucodònosor, persino le bestie selvatiche, e Anania morirà per aver predicato la ribellione contro il Signore. Il racconto si chiude, in modo laconico, riportando la morte di Anania due mesi dopo (cfr Geremia 27-28).

L’effetto sul lettore

Questa conclusione è senza appello: il falso profeta è smascherato nel momento in cui la condanna divina, annunciata dal vero profeta, si realizza. Ma – ed è qui che risiede l’originalità di questo capitolo – la vicenda non è sempre stata così chiara: come va interpretato il segno del giogo? Nel corso del racconto, il lettore può aver dubitato, esitato a distinguere il vero o il falso profeta: «e se Anania avesse ragione? Se il Signore l’avesse incaricato di profetizzare la fine della prima deportazione a Babilonia?». Vedremo che il testo è costruito in modo tale da sviluppare questo gioco legato all’incertezza, coinvolgendo il lettore per svelarne le ambiguità.

Anania, figlio di Azzur, il profeta di Gàbaon, mi riferì nel tempio del Signore sotto gli occhi dei sacerdoti e di tutto il popolo: «Così dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: Io romperò il giogo del re di Babilonia!» (Geremia 28,1-2). All’inizio del capitolo tutto è chiaro per il lettore. Il brano è scritto alla prima persona singolare e il lettore ha lo stesso punto di vista di Geremia, come attestato dal pronome alla prima persona singolare: mi riferì. Può così giudicare con facilità il valore di ciascun profeta: mentre Geremia è fin dall’inizio a fianco del Signore e della verità della storia, Anania deve ancora provare chi è. Ma ben presto il racconto ingarbuglia questa possibilità di giudicare attraverso tre elementi letterari.

Innanzi tutto, Anania parla come un vero profeta! Oltre a usare la stessa formula impiegata da Geremia e propria del linguaggio profetico, Così dice il Signore, profetizza che Dio romperà il giogo del re di Babilonia, un tema tipico della letteratura profetica. Si trova, ad esempio, a più riprese nel libro di Isaia: tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, come nel giorno di Madian (Isaia 9,3). O ancora: Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? (Isaia 58,6).

In secondo luogo, in Geremia 28,5, vi è un sottile cambio nella narrazione nel momento in cui è menzionato il profeta Geremia. La storia non è più raccontata dal suo punto di vista e il lettore perde il riferimento in prima persona che aveva in precedenza e col quale poteva identificarsi, per ritrovarsi spettatore di una scena in cui due profeti si confrontano, senza che il testo riveli una preferenza: Il profeta Geremia rispose al profeta Anania, sotto gli occhi dei sacerdoti e di tutto il popolo che stavano nel tempio del Signore. Il profeta Geremia disse: «Così sia! Così faccia il Signore! Voglia il Signore realizzare le cose che hai predette, facendo ritornare gli arredi nel tempio e tutti i deportati da Babilonia in questo luogo! (Geremia 28,5-6).

Il terzo elemento è quest’ultima affermazione di Geremia. In uno spettacolo teatrale il tono della voce permetterebbe di sapere se le parole del profeta sono ironiche o sincere. Il testo biblico, invece, lascia volutamente l’ambiguità.

Grazie a questi tre elementi il racconto lascia un margine di “gioco”, come in un meccanismo le cui parti hanno una certa liberà di movimento le une rispetto alle altre: il lettore non sa esattamente come il narratore valuta ciascun profeta. Di solito, il lettore non è consapevole di questo “gioco” e colma la lacuna proiettandovi le sue opinioni. Così, le sue idee orientano in un senso o nell’altro l’interpretazione, che può essere poi confermata o smentita dal seguito del racconto.

Immaginiamo allora la reazione di tre lettori. Uno che amasse riferirsi alle citazioni bibliche per sostenere una posizione aperta alla speranza prenderebbe le parti di Anania. Davanti al gesto spettacolare del giogo spezzato – che forza sovraumana è necessaria per farlo! – immaginerebbe un Dio che rimuove nelle nostre vite gli ostacoli alla libertà. Un lettore fatalista, invece, non seguirebbe questa lettura, perché sa fin dall’inizio del libro di Geremia che il regno di Sedecìa finirà con la vittoria dei babilonesi e la catastrofe dell’esilio e riterrebbe impossibile uno scostamento del corso della storia da questo destino già tracciato. Un altro lettore, più circospetto, potrebbe essere turbato: Anania afferma il contrario degli oracoli precedenti (cfr Geremia 27), ma il Signore non potrebbe essere sul punto di fare qualcosa di inatteso, dato che per lui la storia non è già scritta?

Questa incertezza si risolve più avanti, quando viene esplicitato il giudizio sui personaggi. Una parola del Signore è rivolta a Geremia, che risponde senza esitazione, e il testo ne afferma l’autenticità: Va’ e riferisci ad Anania: Così dice il Signore: Tu hai rotto un giogo di legno, ma io, al suo posto, ne farò uno di ferro (Geremia 28,13). Alla fine il testo conferma che Anania era in errore fin dall’inizio con l’annuncio della sua morte da parte di Geremia quest’anno (Geremia 28,16) e l’avverarsi di questo evento due mesi dopo.

Il brano non dà indicazioni sui criteri per distinguere i veri e i falsi profeti, ma offre un’esperienza per affinare il senso del discernimento. Il lettore un po’ troppo ottimista, che ha creduto ad Anania, ne può trarre una lezione importante: la parola del Signore non ha la sua origine nei “buoni sentimenti”, né nella ripetizione di temi biblici rassicuranti. Il profeta Geremia ne è un buon esempio: profetizza quando il Signore gli parla; si lascia sorprendere dalla parola che gli è rivolta, che lo sollecita come una missione imperiosa, anche quando è terribile da pronunciare.

Il lettore fatalista sarà contento di non essersi lasciato ingannare. Ma ha davvero compreso il messaggio del brano? Se tutto è già deciso fin dall’inizio, dalla profezia dell’esilio in Geremia 1,3, perché nel libro biblico vi è uno sviluppo così lungo? Questo lettore non ha forse rifiutato di entrare nel gioco proposto dal testo che, in questo capitolo così come in altri, sembra sognare un esito diverso? Lasciarsi mettere in discussione potrebbe insegnargli a non giungere a conclusioni affrettate di fronte agli annunci catastrofici: la parola di Dio è di certo lucida, ma mai fatalista o malevola.

Il terzo lettore, quello che ha esitato, non dovrà sentirsi offeso per essere entrato nel gioco proposto dal testo, da cui ha tratto l’esperienza di una maggiore familiarità con i momenti di incertezza. Sapendo vivere i tempi in cui mancano le evidenze, quando la parola si fa attendere, sarà maggiormente capace di un discernimento autentico: tra ottimismo naïf e fatalismo, saprà meglio camminare sulla corda tesa di una parola proveniente da Dio.

La comunità di recezione

Passando dal livello personale a quello sociale, va innanzi tutto osservato che la rappresentazione del gruppo non è realista: al di fuori dei due profeti, gli altri personaggi sono solo figuranti e le loro reazioni non sono riportate. La dimensione sociale del testo si trova piuttosto nella funzione che esso svolge nella comunità che lo ha trasmesso di generazione in generazione. Infatti, come sostiene lo storico ed esperto dell’antico Israele, Ehud Ben Zvi, non sono i testi in sé che avevano autorità, ma l’esperienza della loro lettura all’interno della comunità.


Applicando questo criterio al testo di Geremia 28, emerge un paradosso: includere questo racconto tra quelli che contribuiscono a formare un’identità di gruppo significa far fare l’esperienza di dubitare nel bel mezzo di un dibattito. Invece di procedere proclamando valori e principi intangibili, questa comunità insegna ai suoi membri a familiarizzare col dubbio e a individuare i criteri di discernimento.

Leggere oggi un testo di questo genere chiama in causa la capacità di interrogarsi su come comunicare un sistema di valori all’interno dei nostri gruppi sociali: sono trasmessi sotto la forma di un’affermazione che non ammette discussione, oppure in un modo da permettere al singolo di formarsi il suo giudizio, attraversando le tappe del dubbio? In questo secondo caso la comunità favorirà la formazione di profeti dalla parola libera e feconda.

Questo testo riprende e sviluppa l’articolo «Vrais et faux prophètes» apparso in Christus, 249 (2016) 55-61. Traduzione dal francese di Giuseppe Riggio SJ.
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