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Gianfranco Ravasi L’inventore delle abbazie

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Luigi d’Ayala Valva, membro della comunità monastica di Bose (Biella), presenta per la prima volta in versione italiana i quattro testi agiografici greci più antichi dedicati alla figura di Pacomio.

Il suo nome nella lingua copta significava “falcone reale”: Pacomio, il padre del “monastero”, una delle tipologie di vita spirituale che permane fino ad oggi sia pure attraverso un arcobaleno di morfologie differenti, nacque nell’Alto Egitto nel 292.
Ventenne, fu arruolato nell’esercito romano per un anno. Congedato, fu battezzato e iniziò un itinerario di dura ascesi sotto la guida di un anacoreta, in una solitudine e in un regime di vita molto aspro. Due misteriose rivelazioni rivoluzionarono la sua vita. Un giorno, mentre raccoglieva legna, udì una voce: «Pacomio, lotta, rimani in questo luogo ed erigi un monastero!». Un’altra volta, su un’isoletta del Nilo ove era approdato per raccogliere giunchi, durante una veglia notturna orante, un angelo per tre volte lo aveva ammonito: «Pacomio, la volontà di Dio per te è di servire la stirpe degli uomini per unirli a lui».

Queste due visioni sono il germe di una svolta radicale che, quasi fosse una squilla da lui suonata, convocò molti eremiti e anacoreti, che vivevano nelle assolate lande solitarie del deserto egiziano isolati dal resto dell’umanità, per riunirsi nel “monastero cenobitico”. Questa espressione è sostanzialmente un ossimoro

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