Non dimentichiamo mai Peter Norman
Peter Norman ci ha lasciati 9 anni fa. Lo scrittore italiano Riccardo Gazzaniga ha scritto un potente articolo in memoria di questo sprinter australiano la cui storia è poco conosciuta, contrariamente alla foto, entrata nella leggenda dello sport.
Inizialmente pubblicato sul suo sito personale, tradotto in inglese su GRIOT, abbiamo ora deciso di condividerlo con voi.
Le immagini, a volte, possono ingannare.
Prendete questa fotografia, ad esempio. La riconoscerete senz’altro, è estremamente famosa e si trova in tutti i libri di storia: raffigura il gesto di ribellione di John Carlos e Tommie Smith, due corridori afroamericani che, sul podio durante la premiazione dei 200 metri alle Olimpiadi del 1968, in Messico, alzano il pugno in segno di protesta contro la segregazione razziale.
Bene, per molto tempo questa foto mi ha ingannato. E probabilmente ha ingannato anche voi.
Ho sempre considerato questa foto come un’immagine straordinariamente potente di due uomini di colore, a piedi nudi, a testa bassa, con il pugno guantato di nero levato verso il cielo, mentre l’inno americano suonava. Ho sempre visto, in questa immagine, un gesto simbolico forte, per difendere i diritti delle persone di colore, in un anno segnato dalla morte di Martin Luther King e di Bobby Kennedy.
Ho sempre visto, in questa immagine, una foto storica di due uomini di colore.
È per questo, senza dubbio, che non ho mai prestato troppa attenzione a quel terzo uomo. Un bianco, immobile sul secondo gradino del podio. Non ha il pugno alzato. L’ho sempre considerato una specie d’intruso, una presenza di troppo, capitato lì per caso, senza volerlo.
Addirittura, pensavo che quell’uomo rappresentasse, nella sua rigidità e glaciale immobilità, l’archetipo del conservatore bianco e la resistenza a quel cambiamento che Smith e Carlos invocavano in silenzio dietro di lui.
Ma mi sbagliavo. Anzi, non avrei potuto sbagliarmi più di così.
La verità è che quell’uomo bianco, l’unico che non alza il braccio, è forse l’eroe più grande di quella famosa sera d’estate del 1968.
Si chiamava Peter Norman, era australiano e quella sera aveva corso come un pazzo, terminando la gara con il tempo incredibile di 20.06. Solo l’americano Tommie Smith aveva fatto di meglio, conquistando la medaglia d’oro con un nuovo record del mondo e un tempo di 19.78. Un secondo americano, un certo John Carlos, si trovava al terzo gradino del podio con pochi millisecondi di scarto da Norman.
In effetti, si pensava che la vittoria se la sarebbero contesa i due americani. Norman era uno sconosciuto, un outsider, che ebbe un inspiegabile scatto negli ultimi metri e si ritrovò catapultato sul podio. Quella, era la corsa della sua vita.
Ma il fatto più memorabile non fu la gara in sé, quanto gli eventi che seguirono la corsa, al momento di salire sul podio.
Smith e Carlos stavano per portare davanti al mondo intero la loro protesta contro la segregazione razziale. Si preparavano a fare qualcosa di grande, ma anche un po’ rischioso, e lo sapevano.
Lui, Norman, era un bianco e veniva dall’Australia. Sì, dall’Australia: un paese che all’epoca aveva delle leggi di apartheid molto rigide, quasi come quelle sudafricane. Il razzismo e la segregazione erano estremamente violenti, non solo verso i neri ma anche nei confronti degli aborigeni.
I due afroamericani chiesero a Norman se credesse nei diritti umani. Norman rispose di sì.
« Gli comunicammo cosa stavamo per fare, sapevamo che si trattava di qualcosa di più grande e importante di qualsiasi prestazione sportiva », racconterà in seguito John Carlos. « Mi aspettavo di vedere paura negli occhi di Norman. Invece, ci vidi amore. »
Norman rispose semplicemente: « Sarò con voi ».
Smith e Carlos avevano deciso di salire sul podio a piedi nudi, a simboleggiare le condizioni di povertà in cui viveva una gran parte delle persone di colore. Esibivano sul petto lo stemma del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, un movimento di atleti impegnati nella difesa dell’uguaglianza tra gli uomini.
Ma soprattutto portavano i famosi guanti neri, simbolo delle Pantere Nere, che resero il loro gesto davvero d’impatto.
Fu Norman ad avere l’idea.
Infatti, un attimo prima di salire sul podio, Smith e Carlos si resero conto di avere un solo paio di guanti. Stavano per rinunciare a quel simbolo, ma Norman insistette, consigliando loro di prendere un guanto ciascuno.
E così fecero.
Se osservate bene la foto, vi accorgerete che anche Norman porta sul petto uno stemma del Progetto Olimpico per i Diritti Umani.
I tre atleti salirono poi sul podio. Il resto è Storia, immortalata dalla potenza di questa foto che ha fatto il giro del mondo.
« Non vedevo cosa stava accadendo dietro di me », ricorderà in seguito Norman, « ma capii che stavano mettendo in atto il loro piano quando la folla, che cantava l’inno nazionale americano, smise all’improvviso. In quel momento lo stadio piombò in un silenzio totale. »
Questo evento scatenò l’immenso clamore che conosciamo. I due atleti furono immediatamente esclusi dalle gare ed espulsi dal villaggio olimpico. Una volta tornati negli Stati Uniti, andarono incontro a numerosi problemi e ricevettero minacce di morte.
Molto meno note sono le gravissime conseguenze che subì Peter Norman. Per aver mostrato il suo sostegno alla causa di questi due uomini, fu costretto a dire addio alla sua carriera, che avrebbe potuto essere molto promettente.
Quattro anni dopo, nonostante gli eccellenti risultati sportivi, non fu selezionato per rappresentare l’Australia alle Olimpiadi del 1972. Non verrà invitato nemmeno ai Giochi Olimpici che si svolgeranno nel suo paese nel 2000.
Deluso, Norman lasciò le competizioni di atletica, tornando a correre a livello amatoriale. In Australia, dove il conservatorismo e l’idea della supremazia razziale erano forti, fu trattato come un emarginato, un traditore. Fu rinnegato dalla sua famiglia ed ebbe grosse difficoltà a trovare lavoro a causa dell’immagine negativa che si portava dietro. Lavorò per un periodo in una macelleria, poi come semplice professore di ginnastica.
In seguito a una ferita mal curata, finì i suoi giorni consumato dalla cancrena, dalla depressione e dall’alcolismo.
Eppure, per anni Norman aveva avuto l’opportunità di riscattarsi, di salvare la sua carriera e tornare a essere considerato il grande sportivo di talento che in realtà era. Fu infatti più volte invitato a condannare pubblicamente il gesto di John Carlos e Tommie Smith, a domandare perdono, insomma a pentirsi di fronte a quel sistema che aveva deciso di rinnegarlo.
Un semplice perdono gli avrebbe permesso di tornare a gareggiare e, più tardi, di prendere parte all’organizzazione dei Giochi Olimpici di Sydney del 2000. Ma non lo fece mai. Norman non rinnegò mai le sue idee e non accettò di tradire i due americani per « riscattarsi ».
Con il tempo, Carlos e Smith finirono per diventare dei veri e propri eroi, per aver lottato in difesa dell’uguaglianza razziale nonostante tutto e tutti.
In California, è stata persino eretta una statua dedicata ai due atleti dai pugni alzati.
In questa statua, l’australiano non compare.
Cancellato, eliminato dalla storia, eppure detestato da tutto il suo paese, ecco cosa è divenuto. La sua assenza sembra essere l’epitaffio di un eroe di cui nessuno si è mai accorto e che la storia, purtroppo, non ha mai ricordato.
Peter Norman muore nel 2006 a Melbourne, in Australia. Per decenni, è stato per molti « l’uomo che non ha alzato il pugno », totalmente screditato dal suo stesso paese e in seguito, peggio ancora, dimenticato.
Al funerale, i due sprinter americani vollero portare a spalla la sua bara
Non dimentichiamo mai Peter Norman, eroe senza guanti, ignorato dalla storia, che non ha mai smesso di lottare per i diritti umani.