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A. Melloni Il pensiero sulla pace nel cattolicesimo

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INTERVISTA AD ALBERTO MELLONI: IL PENSIERO SULLA PACE NEL CATTOLICESIMO. UNO SGUARDO OLTRE LA POLITICA
Alberto Melloni è nato nel 1959. Storico della Chiesa e specialista del Concilio Vaticano II di fama internazionale, ha studiato nelle Università di Bologna, di Friburgo, in Svizzera, e alla CornellUniversity, negli Stati Uniti. Professore ordinario di storia del Cristianesimo all’Università di Modena-Reggio Emilia, è titolare della cattedra Unesco dedicata al pluralismo religioso e alla pace dell’Università di Bologna. Direttore della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII di Bologna, ha all’attivo numerosissime pubblicazioni. Si ricordano:Il conclave. Storia di una istituzione, Il Mulino, 2001;Chiesa madre, chiesa matrigna. Un discorso storico sul Cristianesimo che cambia, Einaudi, 2004; L’inizio di papa Ratzinger. Lezioni sul conclave del 2005 e sull’incipit del pontificato di Benedetto XVI, Einaudi, 2006; Papa Giovanni, Einaudi, 2009; Pacem in terris. Storia dell’ultima enciclica di Papa Giovanni, Laterza, 2010; Le cinque perle di Giovanni Paolo II. Le scelte di Wojtyla che hanno cambiato la storia, Mondadori, 2011; Quel che resta di Dio. Un discorso storico sulle forme della vita cristiana, Einaudi, 2013.


Professore, come si è confrontata la chiesa cattolica con il tema della pace e qual è stata l’influenza esercitata su di lei dalla modernità?

Il cattolicesimo romano ha vissuto il confronto e il contrasto con la modernità in una maniera che è lentamente evoluta nel corso della storia. Ma per un lungo tempo sia il tema della pace che il tema della guerra – soprattutto il tema della guerra – hanno avuto una grande centralità nelle sue riflessioni. Nell’apologetica intransigente, l’idea era quella che la guerra dimostrasse quanto fosse sbagliata la modernità, che la guerra, così come si diceva con un’espressione molto citata dal magistero pontificio, fosse “la sanguinosa sanzione dell’apostasia moderna”. Invece, col passare del tempo ci si è resi conto che l’annuncio della pace non era semplicemente un modo per dimostrare che il male era all’origine di quei conflitti, ma che esisteva un contenuto specifico della pace. Così, la chiesa è riuscita ad individuare questo contenuto in maniera sempre più forte, fino ad arrivare alla “teologia dei segni dei tempi” di papa Giovanni XXIII (1881-1963) e del Concilio Vaticano II. Questo perché è stato solo all’inizio degli anni Sessanta che il cattolicesimo si è reso conto che il desiderio di pace che anima il mondo non era parte di un disegno di esclusione della Chiesa dalla scena pubblica ma, al contrario, era un modo con il quale il Vangelo stesso veniva ripresentato alla Chiesa. Ecco, proprio nel desiderio di pace degli uomini sono presenti degli elementi che ricordano alla Chiesa un punto centrale evangelico, del messaggio stesso di Gesù.

Qual è stata la ricezione della pace nel magistero della Chiesa cattolica?

Non è sbagliato far risalire il primo appello alla pace di grande risonanza, che viene da Roma, a quella famosa frase di una nota di Benedetto XV (1854-1922) dell’agosto del 1917, quando il papa definì la guerra “un’inutile strage”. Era una frase che dava il senso di come, anche se non subito ma dopo tre anni di conflitto, la Chiesa cattolica fosse capace di riprendere una funzione di guida all’interno dell’intera società europea, di esprimere un giudizio non indulgente in quella che era stata l’ansia, il desiderio di guerra manifestatosi nella società europea dal 1910 in poi. La Chiesa si sintonizzava con la speranza delle grandi masse popolari mandate al fronte come “carne da cannone”. L’idea della guerra come “un’inutile strage” – che la Chiesa poteva denunciare proprio perché era neutrale rispetto ai partiti in conflitto, rispetto ai Paesi in lotta, e rinunciando in pratica a quella che era l’antica distinzione tra Paesi cattolici e Paesi non cattolici – ritornerà anche alla vigilia della Seconda guerra mondiale nel 1939. Credendo ancora che in questo contesto la neutralità fosse la chiave per poter essere ascoltati, Pio XII (1876-1958) pronunciò quelle famose parole: “nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra”. Questa volta, però, prima che la guerra scoppiasse quelle parole non ottennero lo stesso risultato. Anzi, lo scoppio del conflitto mondiale mise la Chiesa in una posizione molto difficile. Da un lato, perché i Paesi che entrarono in guerra vennero coinvolti da un’ambizione di invasione e di distruzione di cui i Paesi fascisti e nazisti erano portatori e, dall’altro lato, perché la neutralità stessa serviva come strumento all’interno del contesto europeo, ma non guadagnava alla Chiesa quel prestigio che invece le aveva guadagnato nella Prima guerra mondiale. Sarà nel 1963 che l’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII inciderà in maniera decisiva su questo tema.

Un’enciclica fondamentale nella storia della Chiesa…

L’enciclica è nata verso la fine del 1962 e, proprio nei primi giorni del Concilio Vaticano II, si aveva la sensazione che il mondo fosse alle porte di una Terza guerra mondiale. Tutto ciò a causa di una crisi politica dovuta alla scoperta di impianti missilistici sull’isola di Cuba, un episodio che fece temere che, da un momento all’altro, il blocco navale imposto dal presidente americano John F. Kennedy (1917-1963) all’isola, suggellato dai russi, potesse scatenare un altro grande conflitto mondiale. Così, papa Giovanni XXIII lanciò un suo appello per la pace e venne ascoltato. Si trattava di un appello nel quale egli non usava le categorie morali della “inutile strage” oppure della “sanguinosa sanzione”, non usava nemmeno l’argomento diplomatico di ciò che è perduto con la guerra e di ciò che è guadagnato con la pace, ma usava l’argomento dei “segni dei tempi”. Diceva di ascoltare il grido delle famiglie che domandano la pace a Dio e in questo modo, mettendo sullo stesso piano sia l’Unione Sovietica che gli Stati Uniti d’America, trovava una via che avrà un risultato molto significativo, anche se questo merito non gli venne normalmente e volentieri riconosciuto né da parte americana né da parte russa. Proprio da ciò nacque un’enciclica sulla pace, la Pacem in Terris, che monsignor Pietro Pavan (1903-1994) rileggeva nei primi giorni del 1963, nella quale erano presenti gli elementi fondamentali sulla concezione della pace nel pensiero di Giovanni XXIII, come ad esempio l’idea che la pace non era un’opzione fra le tante perché nell’era atomica non esiste più la “guerra giusta”. Dunque, cessava di esistere un’antica dottrina che misurava cause, conseguenze, legittimità e titoli di proclamazioni della guerra. Nella stessa enciclica c’era anche un riconoscimento dell’obiezione di coscienza che, su indicazione di alcuni teologi che lessero il testo precedentemente, venne rimosso per non mettere sul piano della scena internazionale una questione troppo delicata e difficile. Inoltre, era presente un’apertura di fiducia molto forte verso gli organismi internazionali, soprattutto verso l’Onu, con l’idea che il multinazionalismo poteva costituire una risposta ai conflitti.

Quale evoluzione ci fu nel magistero cattolico dopo il pontificato del “papa buono”?

Papa Giovanni XXIII moriva poche settimane dopo aver firmato l’enciclica e il suo successore, papaPaolo VI (1897-1978), si ritrovò in una situazione molto diversa. In piena guerra del Vietnam, di fronte alla politica espansionistica sovietica, nel 1965 papa Paolo VI si recò all’Onu per tenere un discorso. Ci andò come padre conciliare, vale a dire come un padre conciliare che tiene il suo discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite. Eppure, in quella sede non ripetette le parole del suo predecessore, parole che non saranno ripetute neppure nel documento Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II. Paolo VI pronunciò la famosa frase “mai più la guerra, mai più la guerra”, ma disse anche che la guerra è una conseguenza del peccato e che, per questo motivo, non era possibile escluderla dall’orizzonte umano. Verso la fine del 1967, egli tentò in tutti i modi di diventare l’artefice di una mediazione tra gli Stati Uniti e il Vietnam. Probabilmente, questa mediazione avrebbe potuto risolvere la guerra o almeno causare una tregua, ma tutto ciò non si realizzò. Conseguenze molto gravi, per quanto riguarda il governo interno della Chiesa cattolica, ha avuto la decisione di rimuovere dai suoi incarichi l’arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Lercaro (1891-1976), per aver preso una posizione drammaticamente contraria alla guerra e condannato i bombardamenti sul Vietnam. Questo patrimonio del pensiero sulla pace entrava molto fortemente nel pontificato di Giovanni Paolo II (1920-2005), che se ne appropriò almeno in tre modi diversi. Prima di tutto, quando decise, nel 1986, di partecipare all’iniziativa dell’anno della pace delle Nazioni Unite convocando ad Assisi i capi delle principali religioni del mondo. Non si trattava di un gesto usuale e in precedenza non c’era mai stato nulla di simile. Si trattava, per così dire, di una forma di ricezione accrescitiva del Concilio Vaticano II e molto impegnativa, molto forte, molto contestata, con la quale però il papa aveva intuito che le religioni non avrebbero potuto rimanere in bilico nel mondo della fine del Novecento. Cioè, le religioni sarebbero state o produttrici di conflitti di guerra oppure produttrici di un pensiero di pace. L’idea di radunare tutte le religioni per impegnarle nel cammino della pace, in un momento in cui il fondamentalismo islamico era una parola quasi senza significato, ebbe un grande peso. Per questa ragione, il papa polacco si oppose per due volte agli Stati Uniti d’America, nelle due guerre rispettivamente dell’Iraq del 1990-1991, per la liberazione del Kuwait, e quella dopo le stragi dell’11 settembre 2001 a New York, cercando di ricordare in maniera molto forte e librata – e la seconda volta lo fece con un accento personale ancora più forte – ciò che costituiva il suo convincimento, la percezione che coloro i quali avevano vissuto la seconda guerra mondiale ricordavano, e cioè che l’inizio di una guerra non annuncia mai quello che ne sarà, la fine, le conseguenze che sono imprevedibili. E le conseguenze di quella guerra sono state davvero imprevedibili.

In questo grande e dettagliato excursus da lei tracciato emergono elementi di continuità circa il messaggio della pace e l’impegno per la pace nel magistero degli ultimi pontefici… Arriviamo così a papa Francesco (1936). In un articolo scritto per il Corriere della Sera, pubblicato il 3 settembre del 2013, lei ha commentato l’Angelus in cui Francesco lanciava un accorato appello per la pace in Siria. Cosa l’ha colpita di quel messaggio?

Credo che quel messaggio di papa Francesco contro l’intervento militare in Siria è stato un messaggio di cui non abbiamo percepito fino in fondo l’importanza, l’audacia, la novità e il coraggio, perché nel momento in cui il papa è intervenuto tutto sembrava essere pronto per un’azione armata contro la Siria. Questo intervento avrebbe dovuto – come si è detto anche per la Libia o in altre occasioni – interrompere delle violenze barbariche e bestiali che erano state commesse. In realtà, avrebbe solo aumentato la quantità di violenza disseminata su un territorio già così tanto devastato. Le informazioni presenti sui giornali in quei giorni lasciavano intuire che tutto fosse pronto per l’azione militare contro la Siria. Così, Francesco ha scelto di mettere di traverso il cattolicesimo romano, il Cristianesimo, con questo appello così evangelico, così semplicemente ispirato al Vangelo di Marco e alla cacciata dei demoni resistenti con il digiuno e con la preghiera. Il papa ha dato prova di una grande forza spirituale e non materiale della Chiesa cattolica, una forza che è stata capace di fermare questo intervento militare. Sicuramente, essa non è stata capace di attivare un processo di pace che in Siria manca da molti mesi, da molti anni, però ha dato il messaggio che su questo tema il cattolicesimo romano non è più disposto a farsi trascinare. Inoltre, egli ha sottolineato che nessuno più è in grado di trascinarlo dentro gli equivoci della propaganda bellica.

Parlando con alcuni esponenti del mondo ebraico, con teologi musulmani, oppure con donne e uomini di altre fedi, colpisce il fatto che queste persone sottolineino l’importanza del nome Francesco mettendolo subito, direi quasi istintivamente, in legame con i temi della pace e del dialogo. I latini dicevano “Nomen est omen”, “il nome è un presagio”…

È vero. Fin da quando è stato eletto papa, spiegando la scelta del nome assunto – lo ha riferito ai giornalisti nell’Aula Paolo VI –, papa Francesco ha detto di aver scelto il nome del Santo di Assisi perché era l’uomo della povertà e della pace. Ha individuato due cifre essenziali della figura di Francesco d’Assisi (1181/82-1226) nella storia della Chiesa. Il primo punto riguarda quello dell’uomo di pace il cui annuncio – il famoso “pace e bene” che ancora oggi viene usato dai figli della sua famiglia spirituale – aveva un valore politico molto forte nel Duecento italiano. In proposito, occorre ricordare che il “pace e bene” era la pace tra guelfi e ghibellini. Passo al secondo punto. Questa capacità di san Francesco di disarmarsi per annunciare la pace era talmente forte da costituire addirittura attorno a lui l’alone leggendario dell’incontro con il sultano, vale a dire di un pellegrino che partecipava al pellegrinaggio armato, ovvero alla crociata costituita, e che al tempo stesso ne prendeva le distanze, rifiutava qualsiasi tipo di armi, mentre cercava un incontro e un dialogo silenzioso con l’altro. Ecco quanto Francesco d’Assisi ha testimoniato all’interno del cattolicesimo romano e della chiesa latina: la possibilità di un modo diverso di incontrare gli altri rispetto a quella che, nel XIII secolo, era considerata la cosa più giusta e naturale da rispettare, l’ostilità per il nemico.

Quali sono le fonti della teologia della pace di papa Francesco?

Papa Francesco non aiuta molto chi lo studia. Ha questo stile che continuamente evita di dichiarare le fonti delle quali si serve. In un mondo in cui, come fanno tutte le persone di media cultura, va di moda citare molto qualsiasi cosa giusto per mostrarsi à la page, Francesco pratica un’ascesi radicale da questo punto di vista, addirittura nel nascondere fonti importanti. A mio parere, tutto ciò presenta una ragione molto semplice ed ottiene un risultato efficace. Questo fa apparire in maniera più consistente e viva quella che è la caratteristica cruciale e centrale di tutto il suo modo d’essere, sia come cristiano che come vescovo, cioè quello della centralità dell’annuncio del Vangelo come Vangelo. Jorge Mario Bergoglio ha una singolare e straordinaria capacità di comunicare il Vangelo come tale, per quello che è realmente. Anche nella sua teologia della pace non sono le dimensioni internazionali che contano. Queste dimensioni ci sono, certamente, affiorano nei suoi scritti. Si deve pensare, ad esempio, al fatto che siamo di fronte ad un uomo che ha rovesciato il modo classico di concepire il pianeta, non pensandolo più secondo le categorie di “ovest” e di “est”, come facciamo noi europei, ma pensandolo con le categorie di “nord” e di “sud”. Si tratta di categorie nuove anche per la politica vaticana. Tuttavia, egli non si ferma a questo. Non è un uomo che viene dall’esperienza europea, dunque dall’indebitamento culturale e spirituale con gli Stati Uniti che avvertono tutti i Paesi, soprattutto quelli nazisti e fascisti liberati dalla “loro” colpa grazie all’intervento degli alleati. Invece, egli presenta un’apertura, che a volte può sorprendere, verso la Russia, un desiderio verso il mondo asiatico – ex Oriente lux – che ha anche un grande valore strategico dato che oggi, in un paese tanto martoriato dalla guerra come l’Africa, è la Cina il vero protagonista delle relazioni internazionali, non l’Europa e tantomeno l’America. Però, tutto rimane secondario rispetto ad un’esigenza semplice di comunicazione del Vangelo. Questa centralità del Vangelo, nella sua predicazione e nella sua figura, mi sembra un grande contributo che egli offre anche al discorso sulla pace e alle relazioni internazionali. Infatti, papa Francesco è capace di affermare che la radicalità del messaggio cristiano non è un elemento che riguarda soltanto un piccolo set di virtù etiche collocate molto lontano dalla vita quotidiana ma, al contrario, qualcosa che ha a che fare con il percepirsi membri della famiglia umana ed in una vera unità.

Sempre nell’articolo al quale prima ho fatto riferimento, lei dice che “Francesco non ha in mente una rituale deplorazione ma vuole andare oltre”. Questo “oltre”, Professor Melloni, lei lo individua nel gesto del digiuno e della veglia di preghiera del 7 settembre 2013…

Sì, il papa si mantiene a distanza rispetto a un magistero cattolico che aveva deprecato la pace, anche quando questo costituiva una piccola parte della polemica antimoderna. Direi che Francesco prende le distanze mettendosi al sicuro da questo tipo di semplificazione. Non fa semplicemente delle affermazioni su quello che è il tema della pace, ma impegna i cristiani ad un gesto personale e non soltanto all’enunciazione di una posizione, di un punto di vista. In fondo, era stato così anche con Giovanni Paolo II. Questa linea di tendenze e di strategie è molto importante perché può coinvolgere e deve coinvolgere gli episcopati che, per esempio, come per la giornata di preghiera per la pace in Siria, hanno seguito le volontà del papa ma con un entusiasmo non sempre così visibile.

L’impegno personale del cristiano per una società dove regna la pace e il riconoscimento che la vera pace viene da Dio sono due punti saldamente connessi nella teologia cristiana. Quale definizione darebbe della “Pax Christiana” e come la caratterizzerebbe?

La pace è un nome dato a Gesù nel Nuovo Testamento, come testimonia l’apostolo Paolo (5-64 d.C.) scrivendo: “Cristo nostra pace” (cf. Ef 2,14). Nel testo originale, queste tre parole hanno la stessa importanza, rilevanza ed essenzialità. Per questo, il tema della pace diventa cruciale in un pontefice che pone al centro del suo ministero petrino l’annuncio radicale del Vangelo. Al tempo stesso, il papa e la Chiesa, che sta beneficiando del suo insegnamento e ministero, sono coscienti del fatto che la costruzione della pace richiede la costruzione della fiducia nell’altro, di cui i cristiani non sono semplicemente gli erogatori ma sono parte integrante. Se i cristiani non sono in grado di esprimere questa fiducia nell’altro non possono chiedere niente a nessuno. In questa sua capacità di produrre fiducia, mi pare che Francesco abbia guadagnato non solo quei piccoli segni di celebrità, che fanno parte di quella che lui chiama “Francescomania”, ma anche una credibilità sul piano internazionale.

La testimonianza di un papa attento alla cultura del dialogo può avere un riverbero extra ecclesiam sul pensiero laico?

Mi pare che questo lo abbia molto. Nel senso che non è infrequente che l’inizio di un pontificato porti con sé travolgenti manifestazioni di consenso, un po’ per il gusto dell’unità, un po’ per il fascino e qualche volta per quella cortigianeria che non è un privilegio solo dei credenti, oppure dei cattolici, ma che può albergare in tanti luoghi. Al tempo stesso, mi sembra che il modo di essere cristiano di questo papa susciti, per così dire, una “preoccupante ammirazione” al di fuori dei confini della Chiesa cattolica e delle Chiese cristiane. Come se per una qualche ragione quello che è capitato nel corso di alcuni decenni avesse fatto dimenticare che il Cristianesimo è quella cosa che Francesco fa. Certamente, ci sono state di mezzo tante impennate, battaglie, difese sacrosante da tutti i punti di vista, ma che hanno fatto in modo che chi guardava la Chiesa cattolica si aspettasse che questa dovesse essere come la stampella delle destre politiche in cerca di valori, oppure semplicemente come una sorta di anziana petulante protagonista della scena internazionale che domandava cose che nessuno poi faceva nella realtà. Invece, questa capacità del papa di riuscire a far sentire, al tempo stesso, la radicalità e il fascino del messaggio evangelico mi sembra qualcosa che incide perché ha modificato radicalmente l’immagine di un cattolicesimo romano che, occorre ricordare, all’inizio del 2013, prima delle dimissioni di Benedetto XVI (1927), godeva di una credibilità molto compromessa da una serie di cose che ne avevano davvero molto appannato l’immagine. Invece, oggi questo fa pensare quegli eventi come distanti non tredici mesi ma tredici secoli.

La presenza del Cristianesimo nella trama storica della cultura occidentale quale riflessione suscita al pensatore che oggi si interroga sul senso, ma anche sul futuro, della nostra cultura occidentale?

Prima di tutto, credo che valga la pena sottolineare un aspetto. La parola “occidentale” è molto scivolosa e anche un po’ pericolosa. Esiste un’accezione volgare di “occidentale” che lo identifica con il sistema capitalistico, liberale, con il regime parlamentare delle nazioni a suffragio universale che connota l’Europa dell’Unione e, in modo particolare, gli Stati Uniti d’America. Anche se poi è un Occidente che si estende, da una parte, fino al Giappone e, dall’altra parte, arriva più vicino al polo nord di quanto non arrivi vicino all’equatore. È un’accezione volgare che ha creato parecchi problemi, tra i quali ce n’è uno drammatico perché, per paura di questo significato che l’Occidente ha assunto, il cattolicesimo ha tolto tra i titoli del vescovo di Roma quello di “patriarca dell’Occidente” giustificandolo – come ha fatto a suo tempo il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani – con una forma di anacronismo che avrebbe potuto far pensare che il papa, appunto, era per così dire il “parroco della Nato” piuttosto che il “patriarca dell’Occidente”. L’Occidente è senz’altro una categoria importante per capire il nostro mondo, la nostra cultura, è il deposito di conflitti e di valori. È stato il bacino nel quale i cristiani, con le guerre di religione, hanno fatto più morti delle guerre mondiali messe assieme. È il luogo nel quale la costruzione di quello che noi chiamiamo oggi “Stato di diritto” è avvenuta attraverso la violazione di diritti gravissimi e fondamentali. Però, è anche vero che questa categoria dell’Occidente ha bisogno di un Oriente, e l’Oriente che oggi ci sta davanti, che è la Cina, non si percepisce come l’Oriente di nulla ma come una terra di mezzo. Questo è il significato del nome della Cina, o meglio il significato dell’ideogramma del nome della Cina. Rispetto a questa terra di mezzo, credo che il cattolicesimo trovi la sua sfida più forte che è una sfida di universalità. Il Cristianesimo è nato da un figlio di artigiani che parlava aramaico, ha imparato l’ebraico, il greco della Koiné, il latino, il cirillico, le lingue slave, è diventato celtico, ha assorbito tutte le culture, e ha imparato a dire la propria fede con le espressioni più raffinate di quelle stesse culture. Il Simbolo di Nicea-Costantinopoli usa e spreme come un limone quella che è la cultura filosofica dell’ellenismo disponibile nel IV secolo, e questo al punto che non una persona qualsiasi ma il professor Joseph Ratzinger sosteneva che l’ellenismo aveva acquisito un diritto di cittadinanza perpetuo e irrevocabile all’interno del Cristianesimo. Una cosa è certa: se il Cristianesimo vuole essere il Cristianesimo di Gesù di Nazareth deve essere un Cristianesimo che impara a parlare il linguaggio confuciano, il cinese, ma non solo le lingue dato che deve essere anche capace di impararne la cultura, il modo di dirne la fede così come facevano i missionari di Matteo Ricci (1552-1610) nel XVI secolo. Tutto ciò con la convinzione che, usando le parole delle culture che fanno parte della varietà multiforme del mondo, il Cristianesimo approfondisce la conoscenza dell’unico mistero di cui dispone, ovvero del mistero della Parola di Dio incarnata in Gesù di Nazareth. Questo mi sembra un elemento importante, un elemento che è destinato a mettere in crisi non tanto l’idea di Occidente bensì l’idea che l’Occidente costituisca un universalismo al quale tutti debbano tendere. In questo, noi abbiamo fatto delle esperienze, come quelle che riguardano l’esportabilità della democrazia. Nessuno sa se la democrazia è esportabile o meno, pare proprio di no a guardare gli esempi che ci sono. Però, senza dubbio, la democrazia costituisce un bene divisibile, può essere una cosa che viene conquistata lentamente, attraverso dei progressi e dei cambiamenti, di un cammino nel tempo, nel quale ogni cosa va messa in relazione con quello che gli sta capitando, ogni azione col tipo di reazione che produce. In un mondo di questo genere, gli occidentali non hanno dato un’eccessiva buona prova di sé e non godono di buona fama, sono piuttosto detestati da una buona parte degli abitanti del pianeta. La Chiesa cattolica ha non solo l’interesse ma anche il dovere spirituale di mostrarsi per quello che essa è. Cioè per una Chiesa che può parlare tutte le lingue di tutte le culture, che può esprimersi in tutte le culture, senza che questo ne comprometta l’integrità, la forza, il messaggio di questo “ebreo marginale” che è Gesù – come diceva l’esegeta John Paul Meier (1942), professore all’Università di Notre Dame.

Facendo allusione alla relazione, non sempre facile, tra l’Occidente e l’Oriente mi ha fatto pensare al futuro delle relazioni tra il Cristianesimo e l’Islam, religione così tanto rappresentativa, anche se chiaramente non in maniera esclusiva, dell’Oriente stesso…

Certamente. Vorrei richiamare quello che papa Giovanni Paolo II definiva “lo spirito di Assisi” mettendolo a confronto con l’idea dello “scontro di civiltà”. L’idea del professor Samuel P. Huntington (1927-2008), risalente ad una ventina di anni fa, era quella che in un mondo senza ideologie sarebbero state le religioni a fornire il carburante per le mutazioni sanguinarie della storia del mondo, dunque che sarebbero state le civilizzazioni a scontrarsi, fino ad uno scontro finale con la Cina, col Buddismo e così via. Questi aspetti non sono privi di qualche riscontro nella realtà storica e lo possiamo percepire con i nostri occhi. Per quanto riguarda l’Islam, è vero che, in una famiglia così gigantesca, una piccola fazione sanguinaria è riuscita ad imporsi quasi fosse un’interpretazione autentica. Per meglio capire il tutto, è come se nel cattolicesimo esistesse un gruppo di centomila cattolici sanguinari su un miliardo di cattolici, e qualcuno dicesse che quelli non sanguinari sono dei cattolici moderati anziché dire che sono dei cattolici e basta. Questa devastazione all’interno del grande universo spirituale e teologico dell’Islam– in quella prima fede religiosa che ha inventato la tolleranza per essere precisi – ha delle conseguenze molto forti e drammatiche. Cosa possa accadere in futuro tra un’India dominata da un populismo induista aggressivo e i Paesi vicini musulmani è una cosa che suscita inquietudine e terrore solo a pensarlo. Però, vediamo anche che, molto spesso, quelle che si sono manifestate come delle atrocità sono avvenute dentro le religioni e dentro le civilizzazioni. La guerra in Ucraina è stata una guerra che passava sulla faglia dove abitano i cattolici uniati, gli ortodossi autocefali, gli ortodossi della Chiesa di Mosca. Ancora oggi assistiamo all’incapacità di trovare un cammino di unità all’interno delle Chiese. Oppure possiamo pensare a ciò che è accaduto nel Ruanda, un massacro verificatosi nel Paese più cattolico dell’Africa e nel quale non ci furono nemmeno distinzioni confessionali, dove la fede religiosa e la fede cattolica non sono state capaci di ostacolare l’odio etnico, di percepirlo e di stroncarlo in tempo. Quindi, la questione dello scontro delle civiltà e delle religioni è qualcosa che richiede da parte di tutti una comprensione più autentica del proprio valore, del proprio significato, della propria esperienza, mentre non credo che la cosa giusta sia quella di immaginare che il mondo di domani debba essere diviso tra la gente moderatamente religiosa (che sarebbe quella buona) e la gente radicalmente religiosa (che sarebbe quella cattiva). Credo, invece, che occorra un radicalismo cristiano, musulmano, buddista, ebraico, induista, confuciano che sappia affermare che la radicalità della testimonianza di fede deve prescindere dal sangue.

L’impegno per la pace da parte dei credenti può concretamente cambiare quella percezione negativa, assurta quasi a verità, che considera la religione come fonte di odio?

Sì, questo impegno è senz’altro una delle cose più significative. L’anticlericalismo non è, almeno in questo momento, l’ala marciante delle culture e bisognerebbe sempre pensarci quando lo si provoca, oppure lo si resuscita domandando piccoli e sciocchi privilegi, vantaggi che concimano questa pianta che cresce rapidissima con conseguenze nefaste per le società, ancor prima che per le Chiese. Oggi, se c’è una cosa di cui credo si può avere una piccola nostalgia, non eccessiva ma neanche troppo taciuta, è quella che riguarda l’atteggiamento che considerava la fede talmente sul serio da prenderne le distante. Non si tratta dell’ateismo volgare, banale, dell’ateismo pratico, o dell’agnosticismo banale – che alla fine non è mai ateismo ma una forma di idolatria o di religione molto esigente che può riguardare una fede edonista, ideologica e politica. Questo esiste meno, ma la Chiesa dovrebbe riflettere sul fatto che i romani condannavano i cristiani perché considerati “atei”, perché rispetto al mondo del panteismo antico, al mondo del politeismo della civiltà greco-romana, questo fidarsi di un uomo crocifisso costituiva soltanto, ai loro occhi, una forma di ateismo. Nel nostro tempo, la tentazione principale dei cristiani non credo sia quella di un ateismo militante, un po’ petulante, qualche volta ma non particolarmente micidiale, ma credo sia il culto di adorazione per la finanza, per il PIL, il denaro, per queste divinità intermedie che popolano il nostro universo mentale e che possono rendere il Cristianesimo una religione senza Dio, legata a questi idoli. Su questo puntoritengo che i cristiani seri e gli atei seri sono molto più vicini e presentano dei tratti comuni.

Passo dalla riflessione teologica sulla pace alla riflessione teologica che è associata alle realizzazioni dei grandi progetti per il miglioramento dell’umanità, ovvero alla teologia politica. La teologia politica può promuovere questo valore immenso della pace…

La teologia politica è stato un grande sforzo delle Chiese cristiane e della teologia europea di riuscire a pensare il messaggio cristiano dentro una situazione. Questo mi sembra che oggi riverberi non poco su una persona come quella di papa Francesco, che è un personaggio che nasce dentro quel brodo di cultura teologica. Francesco è il primo papa che non ha mai celebrato la messa di San Pio V, che non ha mai indossato per obbligo la talare, che non è stato né ordinato sacerdote né consacrato vescovo prima del Concilio Vaticano II, e che non è mai stato studente di una neoscolastica un po’ asfittica – come quella che si insegnava in certi seminari negli anni Venti, Trenta, Quaranta, rispetto alla quale emanciparsi costituiva una grande sfida dal punto di vista teologico. È un uomo che si è misurato con la teologia politica anche e soprattutto attraverso le teologie della liberazione che ne sono state il frutto, e con le quali è stato commesso lo stesso errore fatto ad inizio del XX secolo con il modernismo. Un errore di valutazione condiviso in egual misura sia dagli studiosi che dall’autorità ecclesiastica, e che consisteva nel prendere tutta una serie di elementi o di proposizioni decidendo che appartenevano tutti alla stessa cosa, e che pertanto quella cosa era sbagliata. Ebbene, è stato fatto questo anche con la teologia della liberazione, con un certo incoraggiamento da parte degli stessi teologi della liberazione che non hanno disdegnato questo essere messi tutti insieme, quasi costituissero una specie di grande congregazione accomunata da alcuni capisaldi fondamentali. Quello che noi vediamo oggi nel papato di Francesco, in maniera molto forte e con qualche sorpresa che ci deve fare arrossire, è che al tempo del vescovo Jorge Mario Bergoglio di teologie della liberazione ce n’erano tante, così come di teologie politiche ce n’erano tante. Alcune di queste avevano una fiducia esagerata negli strumenti dell’analisi marxista della società, ritenendo lo strumento di analisi superiore a quella che era la questione evangelica di fondo. Altre correnti nutrivano meno fiducia nello strumento di analisi marxista, ma sono state comunque confuse con le prime. Altre ancora, come quella da cui proviene Bergoglio, legate a teologi come Lucio Gera (1924-2012) e Juan Carlos Scannone (1931), non avevano alcuna fiducia nel marxismo ma, al tempo stesso, condividevano quella istanza fondamentale di riuscire a dire il messaggio cristiano come un Vangelo che parlava nel tempo. In quest’ultima prospettiva, credo che possiamo ancora rileggere alcuni elementi di mezzo con un occhio diverso.

Quale teologia della liberazione si profila in Bergoglio?

Certamente, il papa è il prodotto di una teologia della liberazione. Come dicevo, le teologie della liberazione in America Latina sono state molte e spesso in competizione fra loro. Pochissimi studiosi al mondo hanno capito quali fossero lo spessore, la portata e la profondità delle alternative proposte. Più di uno, per ragioni ideologiche o teologiche, ha percepito sicuramente come un errore questa adozione della prospettiva storica disegnata dall’escatologia marxista come un’espressione adeguata della liberazione dell’Esodo. Ma soprattutto, non si è capito che esisteva una testimonianza cristiana che alla fine, grazie a questa confusione, è diventata invisibile. Quello che oggi mi colpisce di papa Bergoglio è la sua insignificanza negli anni in cui è stato vescovo: Bergoglio è stato sempre così e nessuno si è mai accorto di lui. Non se ne sono accorti i teologi di destra e di sinistra. Gli uomini o i teologi da cui lui si è alimentato, sin da quando pensava di fare un dottorato, come Scannone e Gera, sono sempre stati lì e nessuno li ha mai letti. Ad esempio, in Italia si è tradotto di tutto, ogni sospiro di Leonardo Boff (1938) – che era molto simpatico ma teologicamente quanto meno un po’ sbrigativo su tutte le cose che diceva – ma non c’è traccia delle traduzioni di Gera. L’Occidente ha trovato i propri eroi all’interno della teologia della liberazione, e li ha canonizzati da vivi o criminalizzati, senza rendersi conto che esisteva un tessuto di Chiese dove tutto questo giocava un’altra funzione.

Per lei cosa significa che il prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, il cardinale Gerhard Ludwig Müller (1947), abbia una collaborazione e scriva un libro con un padre della teologia della liberazione, il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez (1928)?

Gustavo Gutiérrez è sicuramente uno dei padri della teologia della liberazione ma di una teologia conciliare della liberazione, nata nell’Assemblea di Medellìn del 1968. È uno di quegli uomini che è stato perseguitato non dai nemici della Chiesa ma dalla Chiesa stessa. Questo è un caso non infrequente nel cattolicesimo romano ma che fa sempre impressione. Quando il teologo domenicano Yves Congar(1904-1995) ricevette la porpora cardinalizia da Giovanni Paolo II, mi capitò di accompagnare il mio maestro, il professor Giuseppe Alberigo (1926-2007), e di visitare il nuovo cardinale. In realtà, lo visitavamo spesso a causa della storia del Concilio Vaticano II alla quale lavoravamo entrambi in quel momento. Padre Congar, immobilizzato nel letto a causa della sclerosi che lo aveva colpito, aveva la sua berretta cardinalizia su un tavolino. Questo riconoscimento voleva rimborsarlo dei danni che aveva subito nel corso di tre durissime persecuzioni, che avevano colpito non soltanto lui ma anche altri teologi domenicani tra gli anni Trenta e Cinquanta. Con molta lucidità, mentre ci complimentavamo con lui per questa nomina, ci disse che il papa gli aveva dato tre esili e un cappello e che gli toccavano ancora due cappelli per essere alla pari. Ecco, credo che la collaborazione libraria tra Gutiérrez e Müller rappresenti un piccolo risarcimento ma che, in ogni caso, ci voglia ancora molto tempo per raggiungere la parità.
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