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Marguerat Da Gesù a Paolo: la politica nel Nuovo T.

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INTERVISTA A DANIEL MARGUERAT - DA GESÙ DI NAZARETH A PAOLO DI TARSO: LA POLITICA NEL NUOVO TESTAMENTO
Daniel Marguerat, nato nel 1943, è un esegeta neotestamentario svizzero, affermato specialista del Nuovo Testamento. Dopo gli studi di teologia protestante e di scienze bibliche nelle Università di Losanna e di Gottinga, ha conseguito un dottorato in teologia. La sua carriera accademica è iniziata con la nomina alla cattedra di Nuovo Testamento dell’Università di Losanna, dove ha insegnato dal 1984 al 2008. È stato invitato a tenere corsi in prestigiose università e in centri di ricerca in Svizzera, Stati Uniti, Italia, Canada, Israele, Francia e Belgio. Vastissima la sua produzione scientifica.
A titolo di esempio, per le edizioni in lingua italiana, si ricordano: Paolo di Tarso. Un uomo alle prese con Dio, Claudiana, 2004; Introduzione al Nuovo Testamento. Storia – redazione – teologia(ed.), Claudiana, 2004; L’uomo che veniva da Nazareth. Che cose si può sapere oggi su Gesù, Claudiana, 2005; Per leggere i racconti biblici (con Yvan Bourquin), Borla, 2011; Il Dio dei primi cristiani, Borla, 2011; Gli Atti degli apostoli1. At 1–12, EDB, 2011; Chi ha fondato il Cristianesimo? Cosa dicono i testimoni dei primi secoli (con ÉricJunod), EDB, 2012; Il primo Cristianesimo. Rileggere il libro degli Atti, Claudiana, 2012; Sapori del racconto biblico. Una nuova guida a testi millenari (con André Wénin), EDB, 2013.


Professor Marguerat, lei ha consacrato la sua ricerca allo studio del Cristianesimo delle origini e al contesto storico e culturale nel quale si è sviluppato. Cosa può dirci della maniera o, piuttosto, delle maniere nelle quali si concepisce la politica negli scritti del Nuovo Testamento?
Si può dire che la prima sorpresa per il lettore moderno è che l’istituzione politica, il potere politico, è riconosciuto ed ammesso come tale nel Nuovo Testamento. Questo non pone problemi perché nell’antichità, in particolare nel I secolo d.C., l’istituzione politica è riconosciuta come una necessità, spesso di diritto divino, e fa parte della realtà del mondo che nessuno osa distruggere oppure mettere in causa. Il Nuovo Testamento partecipa di questa evidenza anche se pochissimi sono i passaggi che ne trattano frontalmente o che problematizzano la questione del rapporto con la dimensione politica. Tutto ciò non pone problemi almeno fino a quando il potere non si oppone all’evangelizzazione e ai credenti. In fondo è questa la ragione per la quale si colgono negli scritti sacri delle posizioni che possono essere considerate diametralmente opposte. Infatti, da un lato, si trovano dei testi – come, ad esempio, il capitolo 13 della lettera ai Romani – che parlano della sottomissione alle autorità politiche, oppure – come nella Prima lettera a Timoteo – che esortano a pregare per le autorità politiche. Dall’altro lato, esistono delle profezie violente come quelle di Giovanni, il “visionario” dell’Apocalisse, che denunciano la deificazione dello Stato perché il potere politico è demonizzato, cioè è diventato lo strumento attraverso il quale Satana agisce sul pianeta. Pertanto, si palesa una contraddizione totale tra l’affermazione della sottomissione al potere costituito – come presentato in Romani 13 –, giustificata dal fatto che l’autorità concorre al bene dell’umanità, e la denuncia virulenta della demonizzazione dello stesso potere politico. Una tale discrasia deriva dalla grande differenza esistente tra la nostra percezione della politica e quella dei lettori del I secolo. Nell’antichità classica, il potere politico ha sempre avuto un fondamento religioso, ma ciò non voleva dire che il “trono” e l’“altare” si alleavano, l’uno cercando l’adesione e la complicità dell’altro. Il potere politico nell’antichità è sempre considerato come legittimato da Dio, ovvero come costruito, voluto, autorizzato da una potenza divina. Questo elemento si concretizzerà in modo visibile e spettacolare nel culto reso all’imperatore, che non è altro che un’eredità della divinizzazione dei re nei regni ellenistici. Si sa che la divinizzazione dell’imperatore nell’Impero romano non è stata immediata, basti pensare al fatto che l’imperatore Augusto (63 a.C.-14 d.C.) era abbastanza diffidente, mentre i suoi successori lo erano meno. In ogni caso, gli imperatori romani hanno ereditato una pratica ricorrente nei regni dell’Asia Minore. La dimensione religiosa del potere fa sì che, da una parte, esso possa essere accettato mentre, dall’altra parte, possa essere considerato come una grave e mortifera minaccia rivolta alla fede cristiana.

Vorrei porle alcune domande ricorrenti nel dibattito teologico, sempre nella prospettiva del Nuovo Testamento. La politica è necessaria alla vita dei cristiani? Occorre difendere l’esercizio della politica?
Si può dire che nella storia bimillenaria del Cristianesimo diverse sono state le risposte date a queste due domande. Alla fine dell’antichità, soprattutto nel Medioevo, dove l’istituzione ecclesiastica costituiva un punto di riferimento e un cemento per la società, si considerava come evidente il fatto che il potere politico e quello religioso siano reciprocamente articolati. Del resto, il Medioevo darà alternativamente la preferenza al potere religioso oppure a quello politico. Oggi la lettura che se ne fa è più sfumata. Tuttavia, è possibile affermare che, a partire dalla metà del XX secolo, si considerava la fede cristiana come una realtà che non può fare a meno della dimensione politica dell’esistenza umana. Soprattutto nel Protestantesimo – la confessione cristiana alla quale appartengo –, a cominciare dalla Riforma protestante nel XVI secolo, la fede cristiana è stata considerata come una convinzione intima, una pietà interiore che riguarda l’anima, ovvero la salvezza dell’individuo e che dunque le dimensionieconomica, sociale e politica non rientrino nella sua sfera di competenza. Con il passare del tempo, invece, si è giunti alla convinzione opposta. In particolare, si è capito che la fede cristiana considera la totalità dell’essere umano. Per quanto riguarda il nostro tempo, nelle Chiese cristiane si riflette e si cerca di capire in quale maniera il cristiano tradurrà la sua convinzione personale, come vivrà la propria fede nell’ambito della politica. Allora, secondo i casi, si hanno delle Chiese per le quali il Vangelo si traduce in una particolare decisione politica a discapito di un’altra e così si partecipa al gioco “partitico” del sistema politico. Altre Chiese, invece, insistono sul fatto che l’individuo deve formarsi una convinzione che tradurrà in un voto politico, in un’adesione oppure in un rifiuto di un partito politico, senza comunque che il Vangelo detti una posizione precisa.

In questo caso occorre scegliere a chi o a quale testo ispirarsi…
Vorrei fare un esempio partendo dal Nuovo Testamento. Tra le tredici lettere attribuite all’apostolo Paolo (5-64 d.C.ca) ne esiste una molto breve. Si tratta della lettera a Filemone, che è ancora poco conosciuta e letta. In questo scritto si pone il problema seguente: Onesimo, lo schiavo di Filemone, è scappato dalla casa del suo maestro e si è rifugiato a casa di Paolo. L’apostolo, che è in prigione a Efeso, lo ha convertito alla fede in Gesù Cristo. Paolo rinvia lo schiavo Onesimo al suo padrone Filemone, chiedendogli di riceverlo non più come uno schiavo ma come un fratello amato nella carne e nel Signore (cf. Fm1,16). Questo vuol dire che lo statuto sociale di Onesimo non deve essere più decisivo nella relazione tra Filemone e Onesimo, e che Filemone deve riceverlo come un fratello in Cristo, vale a dire come un uomo che dispone di un’uguaglianza di dignità e di valori in Cristo. Certamente ci si chiede che cosa voglia dire tutto ciò e come si tradurrà concretamente nella vita. Onesimo resterà uno schiavo, ma Filemone lo tratterà con umanità riconoscendoin lui un fratello battezzato. Oppure, Filemone tradurrà questa nuova relazione, questo nuovo statuto diOnesimo, emancipandolo, cioè abrogando lo statuto di schiavo e facendo di lui un uomo libero. Nell’antichità è questo ciò che il proprietario di uno schiavo aveva il diritto di fare. Ora, Paolo dice a Filemone che sarà capace di fare quanto lui gli chiede, addirittura molto di più. Pertanto, qui si è in presenza di un elemento che rinvia alla questione politica. In ogni caso, Paolo non prende una decisione politica. Quest’ultima sarebbe stata quella di chiedere la liberazione dello schiavo oppure quella di opporsi drasticamente allo statuto della schiavitù. Paolo fa esplodere la relazione di potere che lega il maestro allo schiavo nelle relazioni interpersonali, ma la traduzione politica di questo gesto appartiene a Filemone. Questi è colui che deciderà se ricevere e trattare con umanità il suo schiavo e se emanciparlo. Dunque, la “decisione politica” apparterrà esclusivamente a Filemone, senza che la stessa venga immediatamente dettata dall’apostolo che, nel caso, prenderebbe una decisione partitica.

A suo avviso, perché ancora oggi ci sono dei gruppi di cristiani che vedono un’opposizione tra le due istanze e che sostengono un conflitto, una dicotomia perpetua, tra la politica e il Vangelo?
Penso che esista una corrente del Cristianesimo ispirata da quanto è riportato nel capitolo 18 del libro dell’Apocalisse, ovvero dalla denuncia dell’arroganza del potere politico. Questa si palesa quando un sistema politico si presenta come il maestro assoluto dell’esistenza umana, cioè pretende di sostituire Dio trasformandosi in un sistema tirannico. Per quanto mi riguarda, credo che non esistano delle risposte universali alla sua domanda. Vi sono dei Paesi nei quali la tirannia dello Stato non esiste in quanto tale e che, quando il potere minaccia di diventare tirannico, sviluppano dei meccanismi politici di critica e di controllo sufficienti ad impedirgli di raggiungere questo scopo. Inoltre, ci sono dei periodi della storia nei quali uno Stato diventa tirannico. In quel momento storico è piuttosto l’Apocalisse che parla, mentre nel primo caso a dare ispirazione sarebbe il testo di Paolo della lettera ai Romani (cf. Rm 13). Quindi, i contesti nei quali il Vangelo è incompatibile con la politica sono quelli caratterizzati da una situazione in cui lo sviluppo di un potere tirannico rende necessaria la lotta contro lo Stato. Si può aggiungere che nella storia in generale, e nella storia del Protestantesimo in particolare, al tempo della Riforma il movimento anabattista considerava illegittima ogni forma di potere umano. Questo perché, da un punto di vista teologico, i seguaci dell’anabattismo ritenevano che con l’avvento del Regno di Dio ogni autorità e ogni sistema politico fosse diventato illegittimo, poiché il potere sul mondo e del mondo appartiene solo a Dio. La tesi anabattista la si ritroverà in certe pietà definite “entusiaste”: i fedeli si considerano cittadini del Regno di Dio, rifiutando di considerarsi cittadini di una nazione o di uno Stato governati da un sistema umano, come ad esempio un sovrano. In effetti, nel corso della storia del Cristianesimo si ritrovano dei movimenti cristiani che sono gli eredi di questa situazione di persecuzione di fronte ad uno Stato tirannico, e che hanno conservato una certa dose si odio verso il potere politico, che finisce così per essere demonizzato. Certamente credo che sia la lotta che la denuncia dell’arroganza siano legittimi dinanzi ad un regime tirannico. Tuttavia, considerare a priori – sempre e comunque – che il potere dello Stato è illegittimo confonde due aspetti: da un lato, la storia che l’umanità vive e, dall’altro lato, il Regno di Dio che viene ma che non è ancora presente nella sua pienezza.

Vorrei ritornare su alcuni testi fondatori che esprimono bene il legame tra la politica ed il Nuovo Testamento. Comincio con il fondatore del Cristianesimo, Gesù di Nazareth (7 a.C.-36 a.C. ca), e continuo con il Vangelo considerato come il più antico, quello di Marco. Parto da un passaggio celebre che parla del rapporto tra “Dio e Cesare”. L’esegeta protestante Franz Lenhaardtlo evocava nel suo libro Le chrétiendoit-il servir l’État ?, pubblicato nel 1942. Si tratta del testo di Marco 12,13-17, ma ci sono anche dei paralleli in Matteo 22,15-22 e in Luca 20,20-26. Come bisogna leggere questa pericope e come risituarla nel suo contesto? Occorrerebbe passare da una opposizione ad un’articolazione tra “Dio e Cesare”?
In questo famoso episodio del tributo reso a Cesare non esiste un’opposizione. Questo elemento è molto interessante. Per risituare la domanda che è posta a Gesù – “occorre pagare il tributo a Cesare?” – è necessario dare uno sguardo al contesto storico. Nella Palestina del I secolo d.C., il popolo d’Israele viveva in un regime di occupazione politica. I romani prelevavano un tributo, vale a dire una tassa individuale. Al tempo di Gesùerano presenti in Palestina delle persone fortemente impegnate in campo religioso. Forse, oggi, le si definirebbe “fanatiche”. Queste stesse persone, col passare degli anni, davano vita al movimento zelota che impugnerà le armi contro i romani. Gli zeloti credevanoche pagare il tributo a Cesare significasse allearsi con i romani. Per loro ciò significava giurare “fedeltà” non solo ad una potenza occupatrice, ma anche ad un sovrano idolatra, l’imperatore Tiberio (42 a.C.-37 d.C.). Costui, che regnò al tempo di Gesù, fu anche al centro di un vero e proprio culto divino. Per queste ragioni, si intuisce come la domanda posta a Gesù costituiva un tranello. Si deve o no pagare il tributo a Cesare? Se Gesù avesse risposto positivamente (che occorreva pagarlo) sarebbe stato denunciato come un collaboratore oppure come un complice di uomini empi e di un re pagano. Invece, se Gesù avesse risposto negativamente (che non si doveva pagare), allora sarebbe stato annoverato tra quelli che si opponevano alla potenza romana, ritendendo legittimo il combattimento con le armi. Dunque, dietro una domanda apparentemente insignificante si celava qualcosa di così importante, dato che si chiedeva a Gesù di situarsi nel suo rapporto alla dimensione politica. Tuttavia, si era coscienti che questo rapporto alla dimensione politica era religiosamente legittimato. Così, il problema finanziario – occorre pagare il tributo? È giusto che il sovrano esiga questa imposta? – è un ordine della fedeltà alla sfera religiosa. Gesù, però, come sempre nel suo ministero, non cadeva nella trappola. Egli vi sfuggiva chiedendo di mostrargli una moneta con l’effigie di Cesare, e aggiungeva di rendere a Cesare quello che gli appartiene. Ovvero, il denaro appartiene a Cesare e reca la sua immagine, e per questo motivo occorre renderglielo. Ma Gesù aggiungeva un altro elemento dicendo di rendere a Dio quello che è di Dio.

Questo cosa significava?
Gli interlocutori di Gesù creavano un’alternativa “esclusiva”: o si giurava fedeltà a Dio e si escludeva il potere politico romano, oppure si giurava fedeltà a Cesare e si diventava dei collaboratori degli occupanti e dei cattivi ebrei. Proprio su questo punto Gesù non cadeva nella trappola. Perché, in fondo, egli metteva in luce questa duplice fedeltà, che consisteva nel rendere a Dio quello che è di Dio e a Cesare quello che è di Cesare. Ciò vuol dire che, per Gesù, il cristiano è debitore di una duplice fedeltà: da una parte, di una fedeltà al potere politico che gestisce il suo mondo, al potere che gestisce il corpo sociale al quale l’individuo appartiene; dall’altra parte, di una fedeltà a Dio. Così, la questione di Gesù non era più quella di sapere se pagare o meno il tributo a Cesare. Questo perché se si è consapevoli di essere figli di Dio si è anche consapevoli di non poter essere minacciati dal potere di Cesare. Pagare un’imposta non significava riconoscere Cesare come una divinità che gestisce la propria esistenza. Al contrario, ciò voleva dire che l’uomo, quando pagava il tributo a Cesare, non rinunciava o rinnegava in alcun modo di essere radicato nella fede al Dio d’Israele. L’uomo non la rinnegavaperchési tratta di un’altra sua dimensione. Egli non diventa un traditore oppure un complice, ma prende conoscenza di chi gestisce il suo quotidiano, e che lo gestisce in maniera pragmatica e non religiosa. L’identità del credente del tempo di Gesù e quello contemporaneo si radicava e si radica altrove, in Dio. Dunque, Gesù stesso sostituiva la domanda dei suoi interlocutori con altre domande: “su cosa si fonda la vostra identità? È fondata sul Dio d’Israele? La vostra identità credente è fondata sull’Alleanza con il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe?”. Solo così si poteva capire che questa identità credente non era in nessun caso minacciata da un potere futile, e tantomeno da un potere di occupazione come era quello di Roma.

Come applicare questo passaggio così denso al nostro tempo? 
Se riportiamo tale pericope al XXI secolo, questo significa che il cristiano, di fronte a ciò che rivendica l’istituzione politica dal cittadino, si chiederà: “quanto mi è richiesto, riguardala mia appartenenza ad una nazione governata da un governo politico che non mette assolutamente in causa la mia identità credente? Oppure ciò che lo Stato rivendica colpisce – anche in maniera insopportabile – le convinzioni che la mia identità cristiana, sugellata dal battesimo, ha costruito in me?”. Faccio un esempio, quello relativo al servizio militare, con alcune domande: “arruolarmi nell’esercito dei cittadini è una rivendicazione legittima di uno Stato? Questo contraddice l’etica pacifista, il divieto di uccidere che fa parte della mia identità religiosa? La questione dell’arruolamento nell’esercito riguarda la mia identità di cittadino o la mia identità religiosa?”. Si è consapevoli che la risposta non è unanime ed unica, e non ci sono dei “buoni cristiani”. Questi ultimi non sono quelli che si pronunciano per l’uno o per l’altro dei due orientamenti. Non sono quelli che si schierano dalla parte dell’identità credente perché altri, ad esempio, hanno dichiarato di voler diventare soldati perchéquesto era un loro dovere religioso, per proteggere il proprio Paese e i propri concittadini, oppure perché questa responsabilità e questo esporsi alla morte facevano parte del dovere, dell’imperativo dell’amore per il prossimo. Dunque, Gesù nonoffre una sorta di ricetta da poter applicare per sempre, in qualsiasi epoca storica o situazione, quasi fosse una ricetta di cucina che attraversa i secoli. Eppure, i suoi propositi interpellano circail modo in cui il credente comprende la propria identità. È in questo che Gesù è un fantastico ispiratore, un ispiratore di una risposta che viene dal nucleo più intimo della mia identità, cioè della mia identità credente.

Con una certa cautela critica, si può affermare che il messaggio del Gesù storico presenti degli aspetti politici come, ad esempio, l’annuncio del Regno di Dio, la fine del disordine e dell’ingiustizia, l’avvenimento di una pace armoniosa etc. Ma Gesù non ha mai voluto servirsi del potere per realizzare – come abbiamo visto – ciò che annunciava con il suo messaggio. Gesù sostiene realmente un disimpegno totale dalla sfera politica? Forse vi si deve leggere soltanto ed esclusivamente una critica alla strumentalizzazione ideologica del religioso e l’appello, per il discepolo, al discernimento?
Lei ha ragione quando dice che il messaggio di Gesù comporta una dimensione politica. Al centro di questo messaggio si trova la proclamazione del Regno di Dio. Quest’ultima ha certamente un aspetto politico, ma questo cosa significa? Vuol dire principalmente due cose: prima di tutto, che il mondo appartiene a Dio; per seconda cosa, si assiste alla contestazione fondamentale di un potere politico che diventerebbe tirannico, ovvero che volesse sostituirsi a Dio. È chiaro che quando Gesù annunciava il Regno di Dio, egli affermava che la nostra identità di credenti è una identità di figli di Dio. Per questo, in alcuni regimi totalitari, dei credenti imprigionati, torturati o perseguitati, possono dire ai loro persecutori di avere una libertà che loro non potranno mai raggiungere, che non potranno mai distruggere, perchéquesta è la libertà del Vangelo. Questa è la libertà che permette al credente di essere il cittadino del Regno, cioè di avere come Sovrano della propria vita solo il Dio Onnipotente. Sostanzialmente è questa la ragione per la quale, quando un potere politico diventa tirannico – cioè si autoproclama maestro assoluto dell’esistenza degli individui –, compaiono, come nel caso dell’Apocalisse, dei credenti che contestano lo stesso potere tirannico e deificato in nome della speranza del Regno. La speranza del Regno di Dio è l’ultimo ricorso che possiedono i cristiani, che nessuno potrà mai sottrargli. Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), teologo protestante tedesco e pastore, professore universitario, ha partecipato durante la Seconda guerra mondiale ad un complotto contro Adolf Hitler (1889-1945). Il complotto è stato scoperto e negli ultimi mesi della guerra, nel 1945, Bonhoefferè stato ucciso dai nazisti. La partecipazione di Bonhoefferal progetto che vuole eliminare ilFührer, è legittimata dallo stesso teologo con il fatto che il potere hitleriano ha superato ogni limite, cioè ha abbandonato la sua vocazione che è quella di servire l’umanità trasformandosi in un potere tirannico e demoniaco. Proprio in questi momenti occorre ricordarsi della proclamazione del Regno di Dio. Per questo sottolineo: Gesù non ha mai voluto sostenere un disimpegno dalla sfera politica. Tuttavia, si deve ricordare anche – e lo si vede bene nella pericope che abbiamo prima discusso – che Gesù non era un ribelle sistematico, tantomeno un nemico dell’esistenza sociale. Egli non era un nemico del potere politico per partito preso. Solo nel momento in cui questo potere disumanizza una società, allora l’adesione al Regno diventa conflittuale ed ostacola le pretese del potere politico che vuole dominare la totalità della vita umana.

Qualcuno ha visto Gesù come il sostenitore di un pacifismo universale… Ritornando alla realtà storica, qual è lo stato attuale della ricerca storica ed esegetica circa la percezione che Gesù di Nazareth aveva della politica?
Tutte le ricerche che sono state realizzate sul Gesù della storia, almeno da mezzo secolo, mettono in risalto due aspetti. Da una parte, quello che ho appena detto: quando Gesù annunciava il Regno di Dio dava una colorazione politica alla sua predicazione ed appare chiaro che quelli che diventeranno gli zeloti lo hanno ascoltato con interesse e considerato uno di loro. Si può addirittura pensare che la domanda circa la legittimità del pagamento del tributo a Cesare venga da loro, che volevano verificare quanto avevano ascoltato sul conto di Gesù – cioè vedere se Gesù era un rivoluzionario oppure no. Dall’altra parte, si sa che Gesù non ha mai rivendicato apertamente ed esplicitamente il titolo di Messia, di Cristo – si sa che questo titolo gli è stato conferito dopo la Pasqua. Per quale motivo non ha rivendicato il titolo di Messia? Perché nella Palestina del I secolo, proclamarsi Messia voleva dire rivendicare il ruolo di capo politico. Il Messia che il popolo ebraico aspettava trepidamente aveva un profilo diverso da quello di Gesù: era colui che, giunto a capo delle armate di Dio, avrebbe dovuto scacciare dalla Palestina gli empi occupanti romani. Dunque, l’attesa messianica al tempo di Gesù era fortemente connotata dal nazionalismo giudaico. Gesù, invece, aveva promosso un messaggio di non violenza che era più del pacifismo, anche della stessa non violenza, e questo lo si deduce leggendo il Sermone della Montagna (cf. Mt 5-7), nel quale egli abroga la legge del taglione affermando che è un perpetuare la violenza. Questa è la ragione per la quale, secondo il mio punto di vista, Gesù di Nazareth rifiutava di utilizzare il titolo messianico, che era di primo acchito compreso come lo stendardo di chi prendeva le armi contro i romani e che tormentava le legioni romane. Non si trattava di un disimpegno, bensì di una sua volontà di non comprendere il proprio combattimento religioso per rendere a Dio la sovranità come un combattimento politico, oppure di non ridurlo a qualcosa del genere.

Adesso passo all’apostolo Paolo del quale lei è uno dei maggiori studiosi sul piano internazionale. Esiste una pericope, a cui si è accennato, che è stata spesso fraintesa. È tratta dalla lettera ai Romani. Al capitolo 13,1-7, Paolo invita, come lei ricordava all’inizio dell’intervista, a sottomettersi alle autorità che sono volute da Dio. Non è così?
Effettivamente, nel testo di Romani 13, che ha sollevato enormi riflessioni ed enormi critiche, Paolo dice: “siate sottomessi all’autorità perché non c’è un’autorità che non sia sottomessa a Dio e voluta da Dio”. In fondo Paolo è un uomo del suo tempo. Nel I secolo d.C. ogni autorità politica era un’autorità fondata sulla religione. Non esisteva un’autorità che non sia stata legittimata da Dio. Era Dio stesso che conferiva alla realtà politica la sua autorità. Tutta l’argomentazione di Paolo, contenuta in Romani 13, aveva come scopo diaffermare che le autorità politiche esistono per il bene. Il termine “bene” ritorna frequentemente: esistono per il bene degli uomini, per realizzare un’opera buona. Questa è la ragione per la quale occorreva sottomettersi ad esse. Ciò che è stato sovente dimenticato, nella lettura di questi versetti, è che Paolo definiva l’autorità non soltanto attraverso il fatto che questa deriva da un mandato divino. L’apostolo sosteneva anche che l’autorità riceve una vocazione. Questa vocazione è di fare il bene, ovvero– come Paolo traduceva concretamente –di organizzare uno spazio sociale nel quale gli individui possano realizzarsi gli uni di fronte agli altri, non entrare in conflitto gli uni con gli altri, etc. Nella percezione paolina si trattava di organizzare un corpo sociale nel quale la vita potesse strutturarsi armoniosamente. Il mandato divino era da Paolo legato ad una vocazione: fare il bene e organizzare una società “buona”. Ciò che è stato dimenticato in questa lettura, anche ponendo l’accento su Paolo come “conservatore politico inammissibile”, è che la sottomissione che l’apostolo di Tarso richiamava di fronte alle autorità era legata alla stessa vocazione che le autorità avevano ricevuto. In altri termini, a partire dal momento in cui un’autorità politica abbandona e rinnega il mandato che gli affida la potenza divina – praticando non il benema il male, sollevando i cittadini gli uni contro gli altri, limitando per principio tutta la libertà dei cittadini, torturando o uccidendo alcuni dei suoi membri –, allora essa non corrisponde più alla definizione che Paolo dà perché non è più interessata al bene degli individui. Così, in queste condizioni, la richiesta di sottomissione non ha più valore, perché il potere politico si trasforma in un feroce nemico dei cittadininon essendo più a servizio della società che è chiamata a governare. Dunque, esisteva una riserva di Paolo circa la sottomissione all’autorità politica: occorre, certo, essere sottomessi all’istituzione, ma questa deve comprendersi come derivante dal diritto divino. Tale diritto divino è strettamente legato ad una vocazione. Per Paolo, se rinnegava la sua vocazione divina, il potere politico tradiva la propria essenza e non meritava nessun rispetto. A partire da questa lettura di Romani 13, nel 1945 Dietrich Bonhoeffer ha partecipato – come dicevo – ad un complotto contro Adolf Hitler, precisamente perché questi, anche se possedeva il potere e si era autodesignato nella sua autorità politica, aveva tradito la missione che Dio affida ad ogni governo umano.

Una domanda tecnica. A suo avviso, Paolo conosceva il messaggio politico del Gesù storico?
Certamente Paolo, in senso generale, ha conosciuto il messaggio del Gesù storico. Egli parlavanelle sue lettere molto – e soprattutto – della morte e della risurrezione di Gesù, invece poco del suo insegnamento. Le lettere di Paolo sono state scritte nella seconda ed ultima parte della sua missione, tra gli anni 50 e 58 d.C., mentre Paolo si è convertito verso l’anno 35 d.C. Dunque, dalla metà degli anni Trenta ci sono stati almeno quindici anni di missione paolina. Il periodo che si suole definire “fondatore” delle comunità si situa tra il 35 e il 50 d.C. Paolo, predicando Gesù, non predicava la morte ma la risurrezione, predicavaun uomo nel quale riconosceva il Figlio di Dio e del quale esponeva gli insegnamenti, la vita, i miracoli. Così, queste lettere costituiscono degli scritti nei quali l’apostolo ritornava sull’insegnamento di Gesù, su ciò che riteneva fondamentale, sulla chiave di lettura della vita e del destino di Gesù, ma nelle quali non ripeteva questo insegnamento. Questo era il centro della sua vita. In sintesi, si può dire che Paolo conosceva la vita e il messaggio di Gesù, anche se non riprendeva la parola-chiave di Regno di Dio perché costituiva un termine caratterizzato dall’apocalittica ebraica. Invece, egli metteva in risalto non tanto l’avvento ormai prossimo di Dio sulla terra, ma piuttosto il rinnovamento dell’individuo e del suo modo di comprendersi. Questo avvento potente di Dio, che Gesù annunciava per l’intero popolo d’Israele, Paolo lo annunciò nel cuore stesso dell’individuo. Questa è la ragione per la quale la convinzione di Paolo era, in modo particolare, quella di una nuova identità che riceveva l’individuo accolto da Dio, ovvero la giustificazione per la fede. La giustificazione per la fede è questa accoglienza dell’uomo da parte di Dio, che prende in Paolo il posto che aveva il Regno di Dio nel messaggio di Gesù. Occorre aggiungere un altro aspetto circa l’apostolo delle Genti. Egli inaugurava una nuova “tappa” a proposito di Gesù. Gesù annunciava ed era convinto che il ritorno di Dio sulla terra era prossimo, mentre Paolo apparteneva ad una tappa successiva. Egli era un uomo che predicava nella società dell’Impero romano, permettendo al Vangelo di impiantarsi nella vita sociale. Dunque, l’apostolo comprendeva l’insediamento del Cristianesimo nel cuore stesso della storia. In qualche decennio, egli abbandonò l’idea – che era poi quella di Gesù – che Dio sarebbe venuto sulla terra a scuotere l’ordine del mondo, trasformando in convinzione il fatto che effettivamente Dio scuote qualcosa, ma scuote il cuore dell’individuo dandogli una nuova identità. Tutto ciò avvenne in un movimento religioso che si iscriverà nel tessuto sociale ed economico dell’Impero romano. Ed è proprio grazie a questo cambiamento che la fede in Gesù conobbe, tramite Paolo, il passaggio ad una religione universale. Il sostenere la posizione o la convinzione di Gesù faceva del Cristianesimo una setta ebraica, ma è grazie a Paolo che il Cristianesimo è diventato una religione iscritta nella società, nelle città, diventando universale. Nel IV secolo d.C., il Cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’Impero romano, ma lo sforzo lo si deve a Paolo che lo ha iscritto nella storia. Così, l’avvento del Regno di Dio rimane come una speranza, come il termine del calendario cristiano, ma come un termine che si allontana.

Come definirebbe, dopo tanti anni consacrati allo studio neotestamentario, la vocazione politica del cristiano per la nostra epoca ?
Personalmente sono sempre legato a questa straordinaria formula di Gesù di rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. Sono convinto che ciò che è richiesto ai cristiani è di essere uomini e donne “in allerta”, vale a dire sempre attenti e disponibili a rendersi conto della legittimità di quanto rivendica il potere politico. Il cristiano nutredelle convinzioni, crede che il potere è destinato al bene di tutti, ma è capace anche di riconoscere il momento nel quale il potere trasgredisce il proprio mandato, mettendo in pericoloil bene comune. Il cristiano dovrà rendere a Dio quello che è di Dio: cioè dovrà erigersi, non necessariamente in maniera violenta, ma con i mezzi politici che sono propri ad una democrazia, contro una autorità politica nel momento in cui questa trasgredisce la sua vocazione divina di cercare e di realizzare il bene di tutti. Una sentinella, un uomo e una donna in allerta, è capace di discernere in quale momento una decisione politica, a volte introdotta in maniera innocua, e altrevolte, forse peggio, con una buona intenzione, produce una contraddizione dove si vedono alcune classi sociali sollevarsi contro altre.È fondamentale che, nelle comunità cristiane ed in quelle parrocchiali, questa preoccupazione per il bene comune – che è una preoccupazione eminentemente politica – sia pensata, postae costruita in maniera più esplicita. Perché oggi, soprattutto nei movimenti cristiani che crescono in America del Sud, in Africa oppure in Asia del Sud, il Cristianesimo è della pietà interiore oppure della fede individuale. Ora, i cristiani hanno per vocazione di partecipare al bene del mondo in maniera che questo mondo si avvicini, sebbene parzialmente, al Regno di Dio e ne riflettai suoi colori. Mi sembra che il Cristianesimo – almeno nella sua forma storica – sia oggi leggermente stanco, che abbia perso questa ambizione formidabile che fu quella della cristianità nei primi secoli, e che ha condotto aduna sua espansione incredibile nel mondo intero.Mi sembra che il Cristianesimo abbia perso questa ambizione di pensare il bene comune e una società nella quale ciascuno abbia il massimo di opportunità dalla sua parte. Il Cristianesimo, contrariamente al Marxismo, non ha una vocazione egualitaria, non vive un egualitarismo – anche in un’ideologia egualitaria si cerca il potere degli uni sugli altri, ma la sua ambizione è quella di pensare il bene del mondo sotto il suo aspetto politico ed economico.Proprio su questo punto, i propositi di papa Francesco (1936) mi rendono gioioso perchéil vescovo di Roma mette in avanti la volontà di interrogare il mondo sulla ripartizione dei beni, sulla ripartizione dei profitti, sulla spaventosa povertà, sul pericolo degli equilibri tra coloro che hanno molto e coloro che hanno poco. Il Consiglio ecumenico delle Chiese da molto tempo lancia l’allarme su questi problemi. La mia speranza è che il Cristianesimo non si pieghi sul mondo interiore dell’individuo, ma che si impegni e manifesti i valori cristiani, perché sono questi stessi valori che salveranno il mondo.
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