Introduzione
Il
tema che mi è stato assegnato come ricerca e come contributo da offrirvi questa
sera ha come titolo: “La vocazione oggi”. Ora, quando si parla di vocazione e di vocazioni oggi, subito si
parla anche di crisi, e in verità
possiamo dire che effettivamente – attenzione alle parole che uso – c’è una diminuzione forte delle ordinazioni
presbiterali e una diminuzione fortissima di quelli che professano la vita
religiosa (monaci, monache, frati suore, religiosi e religiose). Come
interpretare questa crisi, dalla quale sembra dipendere il futuro delle
comunità cristiane, soprattutto nelle nostre terre di antica cristianità?
Questa
sera non spetta a me ricordare che questa crisi era in realtà già presente
negli anni ’60 del secolo scorso e che certamente ha avuto un accrescimento
vistoso a partire dalla svolta antropologica, culturale e politica di quegli
anni. Finiva la cristianità come assetto culturale, iniziava il processo di
secolarizzazione, di “disincanto del mondo” (Marcel Gauchet), e di conseguenza
emergevano nuove urgenze, nuove e impensate vie per “vivere la vita”. Denatalità,
diminutio della comunità cristiana,
mutamenti sostanziali nella forma di vivere la vocazione presbiterale o
religiosa, emergenza delle vocazioni laicali e della vocazione “cristiana” –
quella cioè che ogni cristiano riceve in dotazione con il battesimo –, nuove
comprensioni dell’etica e della sessualità: tutto questo ha contribuito alla
crisi.
Conosciamo
bene queste congiunture, da tempo le analizziamo e magari cerchiamo per esse
adeguati rimedi. Ma io voglio andare oltre: vorrei porre delle domande al termine
di questa introduzione al tema e poi sostare sulla vocazione e sull’oggi, che
per noi cristiani non è mai solo cronologico, ma è sempre kairós, “oggi di Dio”. Queste le domande che sono necessarie,
necessarie quanto le risposte che però non sempre sono possibili.
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Quella che chiamiamo crisi di vocazioni è
veramente tale oppure è una crisi della fede, soprattutto della fede come
atteggiamento umano di fede-fiducia – la cosiddetta fides qua – fede-fiducia negli altri, nel futuro, nella terra e
dunque in tutto ciò che riusciamo a realizzare e a vivere?
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Quella che chiamiamo crisi di vocazioni è
certamente una mancanza sofferta oggi dalle comunità cristiane, ma non è
sterile: non può forse essere un cammino attraverso il quale lo Spirito santo
ci chiede di comprendere in modo diverso le vocazioni stesse?
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L’attuale crisi di vocazioni ci spaventa per la diminutio numerica, avendo noi un’ottica
utilitaristica (“occorrono per tanta gente tanti preti come una volta”), oppure
ci spaventa per la mancanza di santità, di fede e di carità che coglie le
comunità cristiane, le quali restano così sterili e poco feconde di vocazioni?
Non deve preoccuparci solo la quantità delle vocazioni, ma piuttosto la loro
qualità umana e spirituale! La chiesa può fare molte cose eccellenti con poche
vocazioni, ma dotate di qualità e convinzione. Aumentare a ogni costo le
vocazioni significa aumentare il numero dei miseri e dei fanatici, non dei
santi…
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E infine un’ultima domanda: se è vero che ci
sono pochi chiamati, non è perché sono scomparsi quelli che chiamano? Non è
perché tutti nella chiesa sentono le vocazioni come un’”eccezione” e non come
il fondamento della vita cristiana? Non c’è forse un rassegnarsi da parte di
tutti i cristiani, compresi quelli che dovrebbero “chiamare”, alla situazione
di crisi, supponendo che la chiesa corrisponda ai mezzi umani immediatamente
disponibili? È un grave errore spirituale!
Occorre,
in ogni caso avere fede: “il Signore è fedele” (2Ts 3,3), il Signore è fedele e
non manca di vedere e di provvedere alla sua comunità, affinché abbia sempre i
mezzi per ringiovanire e rinnovarsi. Il Signore vede, ascolta e conosce la sua
chiesa: a noi chiede fede-fiducia, senza la quale egli non può operare in noi e
tra di noi. Attenzione, dunque, quando
parliamo di crisi di vocazioni: è sempre crisi di chiamata, crisi di modelli
storici, crisi di vita comunitaria, ecclesiale.
1. La
vocazione oggi
Le
considerazioni che farò sono tratte soprattutto dalla mia assiduità con le
sante Scritture – non può essere diversamente per un cristiano –, dalla grande
Tradizione che frequento nella mia vita monastica, dalla mia esperienza di uomo
ormai anziano che ha visto emergere, crescere, acconsentire e assumere diverse
vocazioni, ma anche contraddirle, smentirle, abbandonarle. Sì, la vocazione è
una vicenda, una storia a volte lunghissima, un cammino difficile, pieno di
cadute e di rinnegamenti, in cui il
Signore ci chiede solo di “conservare la fede” (cf. 2Tm 3,7) che è fedele,
che perdura, persiste, persevera nonostante tutto: “se noi siamo infedeli, il
Signore rimane fedele” (2Tm 2,13)!
a) La vocazione umana
Innanzitutto occorre mettere in
evidenza che in ogni uomo c’è la possibilità di una vocazione, anzi occorre
dire che ciò che fa l’uomo, che lo
umanizza, è la vocazione umana. Nessuno si sorprenda dell’espressione
“vocazione umana”: chi conosce lo spirito del concilio Vaticano II sa che in
quell’evento si è sentito il bisogno, per la prima volta nel cristianesimo, di
parlare di vocazione umana. Ogni uomo, per il fatto di essere tale, sente in sé
una coscienza, una parte profonda e segreta, un santuario accessibile a lui
solo, un crogiuolo in cui vive interiormente il proprio “sé” (cf. Gaudium et spes 16). Qui si avverte una
chiamata, si sente un impulso, un desiderio che chiama a uscire da se stessi,
che chiede di essere capaci di responsabilità-responsum, dunque di rispondere. Quando un uomo, una donna sente
questa chiamata e comincia a decifrarla, ecco che sente cosa vorrebbe fare
della propria vita, degli anni che gli stanno davanti.
Si
tratta contemporaneamente di cogliere che la propria vita è unica, che non ce
ne sarà un’altra e che quella vita va vissuta in una forma che abbia senso per
chi “viene al mondo”. Ecco perché questo processo abitualmente si fa
consapevole nell’adolescente, nel giovane. Cosa fare della propria vita per non
buttarla, per viverla in pienezza, per trovare senso, il senso dei sensi, e
fare della propria vita un capolavoro, un’opera d’arte? Vocazione umana,
questa, che va fatta nascere, va custodita, va temprata e confermata dal
singolo, ma anche da chi gli sta accanto. Il mestiere di vivere è faticoso,
duro, ma può essere buono, bello e beato se la
vocazione diventa mestiere di vivere. Se il vivere è senza vocazione,
invece, diventa intollerabile, e se la vocazione non diventa il mestiere
assunto nella vita allora si è in una situazione sempre frammentaria,
“liquida”, sfilacciata, inconcludente. Dunque c’è una vocazione umana, una
“chiamata a poter essere”, che deve abitare in ogni persona: così nasce
l’avventura umana, così si assume la responsabilità verso gli altri e verso il
mondo, così si può perseguire la ricerca di senso e approdare a ciò che attende
ogni uomo come culmine dell’umanizzazione; vivere
l’amore come storia.
b) Pensare e ascoltare
In
questo itinerario della vocazione umana la prima esigenza è che ci si eserciti
a pensare: e pensare è sempre
innanzitutto ascoltare. Ascoltare!
Dio disse come prima parola ad Adamo: “Uomo, dove sei?” (Gen 3,9), e questa è
una domanda fatta sempre a ogni uomo e a ogni donna: “Dove sei?”, una domanda
personale profonda che non può essere estranea ad alcuna persona. È a partire
dall’ascolto di questa domanda – “Dove sei nel tuo cammino? Dove sei nel tuo
stare al mondo? Dove sei tra gli altri e con gli altri?” – che il chiamato può
rispondere: “Eccomi!” (Gen 22,1.11, ecc.). E quando dice: “Eccomi!”, dice di
essere in ascolto, in attesa di una parola, di una chiamata, di un compito, di
una responsabilità.
c) Il
discernimento
Una
seconda tappa della vocazione umana è il sentire ciò che riguarda, compete in
modo particolare e personalissimo chi si dispone alla chiamata. E qui va detto
subito: la chiamata come invito, voce, uscita da sé, è unica per tutti, ma poi
la vocazione diventa vocazioni diverse, il cammino diventa cammini. Le vie
della vocazione umane sono diverse… E qui sta la grande arte dello scegliere
ciò che fa per me, ciò ch sento per me urgente, ciò che mi edifica come uomo o
come donna.
Qui
occorre fare discernimento e poi
avere la forza per fare la scelta. L’operazione del discernimento è la più
laboriosa nel percorso vocazionale. Innanzitutto non la si fa da soli, ma
bisogna che qualcuno con molto rispetto aiuti e accompagni la vocazione. Ognuno
di noi è troppo soggettivo per scegliere in modo da non essere soggetto ai
sentimenti, al “mi sento”, alla dittatura delle emozioni o dei sentimenti, in
modo da non essere spinto da situazioni momentanee, passeggere, o da eventi
capaci di togliere serenità, equilibrio, lucidità di pensiero. Se c’è accanto un
altro – insisto sul fatto che è “altro” – esperto in umanità, allora questo
altro fa domande, a volte mette sospetti, chiarifica ambiguità, ma non comanda,
non determina e neanche ispira. Certo, deve essere un in-segnante, nel senso
che fa segno, indica un orientamento, un senso del cammino, ma non impone, non
esprime il suo desiderio ma predispone soltanto all’incontro tra chi si sente
chiamato e il suo compito.
E
quando c’è sufficiente discernimento, quando uno comprende che ha davanti a sé
la strada in cui si realizzerà come uomo, si umanizzerà, la strada in cui gli
sarà possibile vivere l’amore verso gli altri e ricevere dagli altri l’amore
nel modo più autentico, più reale e più gioioso, allora sceglierà, o meglio
aderirà alla vocazione riconosciuta come propria, ricevuta.
d) La
scelta
Ecco
allora la scelta: fatta con
risolutezza, nella consapevolezza che scegliere una via significa rinunciare ad
altre vie. Ognuno ha una sola vita da vivere, e in essa una sola via da
percorrere. Occorre dunque consapevolezza della “rinuncia”, parola che oggi gode di cattiva fama, parola desueta,
che a volte fa paura, ma che è invece essenziale a ogni cammino umano.
Scegliere significa non vivere più nell’“et…et”,
ma dicendo sì a una cosa e no a un’altra che contrasta con il sì. Questa è la
rinuncia che non è privazione, bensì libertà, che è segno di convinzione, di
adesione, di scelta fatta con risolutezza.
Nella
vita dobbiamo prendere tante decisioni e dobbiamo decidere, a volte decidere
l’obbedienza o la trasgressione, ma sovente decidere semplicemente che strada,
che direzione prendere. Decidere viene dal latino “de-caedere”, “fare un taglio”, operare una separazione da qualcosa
per abbracciare un’altra possibilità. Lo so, fa paura, a volte paralizza,
soprattutto nella giovinezza, lasciare le molte possibilità per una sola
strada; ma se la vita è unica, non si possono vivere più vite e nello stesso
fare storia con gli altri, aderendo pienamente a quello che si fa o si vive! La
decisione, se è presa dopo la nascita della vocazione umana avvenuta e vissuta
in se stessi, non data da altri (non vocazioni indotte da in-segnanti che
seducono e non convertono, che chiedono sequela a loro stessi e non al
Signore!); se è frutto di discernimento avvenuto nell’ascolto di altri, nel
confronto con chi ha doni umani e spirituali per dare un aiuto sapienziale a
chi è più giovane; se infine è assunta con risolutezza, sarà certamente ancora provata, ma potrà giungere alla
maturazione ed essere comunque un cammino umano non percorso invano, non
colpevole di perdita di tempo.
Questa
è la vocazione umana, o meglio il percorso umano essenziale nel quale Dio può
innestare la vocazione frutto e sviluppo della grazia battesimale presente nel
cristiano.
2. La
vocazione cristiana
Nel
terreno umano reso fecondo, cioè adatto a ricevere il seme della Parola di Dio,
può essere innestata la chiamata di Dio. È come nella parabola raccontata da
Gesù (cf. Mc 4,1-20 e par.).
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Se il terreno non è zappato, lavorato, ed è
dunque terreno calpestato come una strada, la Parola che è sempre chiamata e la
chiamata che è sempre Parola indirizzata a… non può mettere radici.
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Se il terreno è poco profondo, se la vita cioè è
vissuta superficialmente, allora può darsi che la chiamata susciti entusiasmo,
che sembri subito germogliare, ma ben presto finisce come un germoglio che si
secca.
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Se il terreno è infestato da erbe selvatiche, se
la vita è tutta spesa in preoccupazioni, in ansie mondane, in realtà che
appaiono ma sono frivole o addirittura cattive, allora la vocazione è
soffocata: non c’è capacità di rinuncia a molte cose per scegliere “l’unico
necessario “ (Lc 10,42).
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Ma se il terreno è stato preparato dal pensare,
dalla consapevolezza del vivere, dall’ascolto della Parola di Dio, dall’ascolto
di chi “chiama” e dalla forza della perseveranza, allora ecco che la vocazione
cristiana sboccia; anzi, potremmo dire che la
vocazione umana fiorisce in vita cristiana.
E
questo vale oggi come ieri, perché Dio non muta, non cambia: parla oggi così
come ieri e sempre, non è mai muto né silenzioso. Siamo noi che a volte non
ascoltiamo e, piuttosto che ammetterlo dicendo che siamo sordi e ciechi,
preferiamo imputare la responsabilità a Dio dicendoci: “Dio fa silenzio, per me
è muto, non si fa vedere, ha coperto il suo volto”. Dio chiama sempre, dice
sempre: “Chi manderò?” (Is 6,8), ma è qui che si decide la possibilità della
vocazione: non in Dio ma in noi! C’è qualcuno che ripete il grido di Dio?
Qualcuno che, come Eli al giovane Samuele, insegni a dire: “Parla, Signore,
perché il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,9.10)? Qualcuno che, come Elia, stenda
il mantello su Eliseo (cf. 1Re 19,19-21)? Qualcuno che, come il Battista, dica
ai discepoli: “Ecco l’Agnello, il Servo di Dio (Gv 1,29.36)! È lui: se volete,
seguitelo!”? Sì, qualcuno che chiami, che inviti un altro, un giovane a
“uscire” e a uscire oggi, perché oggi la Parola del Signore è rivolta al
chiamato.
Occorre
essere realisti: Dio parla al cuore, è lui il protagonista della chiamata, ma
lo fa attraverso altri, uomini e donne, capaci di educare, di e-ducere, cioè di far uscire, di
condurre fuori. I genitori? Certo, anche loro e innanzitutto loro: non però nel
senso che determinano il futuro del figlio; non devono neanche desiderare che
il futuro del figlio sia secondo i loro desideri. Questo è egoismo, sogno di
onnipotenza dei genitori, mancato riconoscimento dell’alterità del figlio. I
genitori devono anzi lasciare al figlio la decisione della vocazione, ma devono
apprestare il terreno perché, se Dio chiama, sia ascoltato. Vogliamo dire la
verità? Quasi tutti i genitori cattolici oggi fanno di tutto perché il figlio
trovi uno sbocco, un lavoro, una professione che lo renda ricco e felice, ma
fanno anche di tutto perché il figlio non senta una chiamata a lasciare tutto,
compresi loro, per seguire il Signore! E se un figlio manifesta l’intenzione di
seguire il Signore, i genitori si premurano che non sia un lasciare, una
diminuzione rispetto a quello che loro hanno pensato…
Ma
non ci sono solo i genitori e la famiglia, pensiamo anche alle figure
educative, oggi molteplici e diverse: se ci sono, sono veramente autorevoli? L’autorevolezza di un in-segnante nasce
dalla sua coerenza tra dire, fare e vivere, dalla sapienza accumulata, dalla
libertà esercitata rispetto alle dominanti culturali. E se ci sono, “chiamano”?
Per chiamare occorre in primo luogo essere convinti che Dio chiama, che la
vocazione cristiana è una grazia, è qualcosa che porta bontà, bellezza,
beatitudine, e non invece tristezza e pesantezza di comandi. Oggi mancano questi
“traghettatori” da una riva all’altra, dalla propria chiamata a una nuova
chiamata, uomini e donne capaci di incontrare
l’altro, invece di consigliarlo subito, di parlargli dicendogli cosa deve fare
o non fare. In una società senza padri, sono venute a mancare figure
spiritualmente generanti, ed ecco allora la crisi di vocazioni… Mi si permetta
l’espressione: oggi manca una cultura della chiamata, e anziché chiamare ad
ascoltare nella chiesa il Signore che chiama (e basta!), si chiamano i fedeli a
servizi, ministeri, diaconie già predeterminate, con la mentalità di chi deve
riempire i posti delle urgenze e dei servizi necessari. E poi ci lamentiamo
della crisi di vocazioni!
Ma
la vocazione cristiana è tale se è Cristo che chiama con libertà, con sovranità,
con la sua parola efficace, senza che ci siano troppi diaframmi. Occorrono
persone chiamanti, nel senso di persone che fanno eco alla voce del Signore,
persone che come il Battista sono pronte a sparire quando avviene l’incontro
tra il chiamato e il chiamante, il Signore (cf. Gv 3,29-30). Non si devono
negare le mediazioni della comunità cristiana, dei testimoni che chiamano, ma
poi la chiamata personalissima, la messa a parte, l’elezione restano opera di
Cristo, il Kýrios!
Conclusione
Cari
amici, chi vi parla è un fratello, un semplice fratello, che legge la sua vita
nell’anzianità, che guarda al passato senza nostalgie, ma lo guarda solo per
vedere il filo rosso che dà unità ai suoi anni, un filo rosso che solo Dio può
stendere.
Che
dirvi ancora? Semplicemente che Dio è fedele: lo ripeto, è fedele anche quando
noi siamo infedeli! Solo “se lo rinneghiamo lui ci rinnegherà” (2Tm 2,13), dice
l’Apostolo. Dio è fedele perché ha fatto sentire in me la sua voce quando ero
ancora un bambino. Non l’ho seguita subito, ma non vi ho mai opposto altre vie,
e in giovinezza nella libertà ho potuto dire il mio “Amen” alla vocazione che
Dio mi aveva posto davanti.
Ho
finito per vivere il cristianesimo come monaco, e certo sono stato infedele,
sono stato un cattivo monaco, ma Dio non mi ha deluso e mi concede fino a oggi
di conservare la fede; e lo spero ancora, per il mio esodo…
Ma
a voi dico di cercare di ascoltare Dio che parla in ciascuno di voi, di sentire
che vi dice: “Esci, esci da te stesso, dalla tua famiglia (cf. Lc 2,48-51);
esci e non temere, perché tu sei il mio figlio amato (cf. Lc 3,22)”. E se voi
acconsentirete, sentirete lo Spirito su di voi, sentirete nelle vostre menti e
nei vostri cuori lo Spirito santo che vi dà forza, vi consola, vi sostiene
nella lotta (cf. Lc 4,1-2). Sentirete questo, fino a poter dire agli altri con
umiltà: “Lo Spirito del Signore è su di me e mi ha inviato” (cf. Lc 4,18; Is
61,1). Con molta umiltà, con la consapevolezza di non essere niente e di non
poterci vantare di nulla, e tuttavia di essere chiamati, dunque inviati.