Manicardi - 28 luglio 2013 XVII Tempo Ordinario
Fonte: monasterodibose
domenica 28 luglio 2013
Anno C
Gen 18,20-21.23-32; Sal 137; Col 2,12-14; Lc 11,1-13
Gen 18,20-21.23-32; Sal 137; Col 2,12-14; Lc 11,1-13
La preghiera è il mistero che riceve luce dalle pagine di Genesi e di Luca. In particolare viene sottolineata la modalità della preghiera. Genesi presenta una preghiera di intercessione e la mostra come insistente e ostinata, capace di ricominciare sempre da capo.
Essa è anche una lotta tra uomo e Dio, un faticoso incontrarsi tra esigenze dell’orante e libertà di Dio. La preghiera esige coraggio, capacità di resistenza, di non scoraggiarsi, esige parresia, cioè franchezza, libertà, audacia. Anche Gesù, nel suo insegnamento sulla preghiera, sottolinea gli aspetti di perseveranza e insistenza: nella preghiera si tratta di bussare, chiedere, cercare. Certi che il dono veramente necessario, il dono dello Spirito, non sarà negato a chi lo invoca (cf. Lc 11,13).
Vedendo Gesù pregare, i suoi discepoli gli chiedono di insegnare loro a pregare, come anche Giovanni aveva insegnato ai suoi discepoli. Lungi dall’essere uno spontaneo manifestarsi di un impulso interiore, la preghiera è trasmessa, ricevuta attraverso una tradizione. “È attraverso una tradizione vivente che lo Spirito santo insegna a pregare ai figli di Dio, nella chiesa ‘che crede e prega’” (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2650). Questa trasmissione onora e rispetta ciò che la preghiera è in verità: un dono. Alla preghiera si può essere certamente educati da un padre spirituale, ma il primo e privilegiato luogo di formazione alla preghiera è la liturgia. Essa è suscitata nell’uomo dall’azione di Dio nella forza dello Spirito: la preghiera della chiesa non è solo leitourghía, azione comune, ma anche opus Dei, azione di (genitivo soggettivo) Dio. Nei tempi odierni in cui fioriscono forme pietistiche e devozionali, ricordare la liturgia come oggettivo luogo in cui si può e si deve imparare a pregare, è senz’altro essenziale.
La preghiera ha la capacità di forgiare l’uomo rendendolo un povero: chiedere, cercare e bussare sono i gesti propri del mendicante, del cercatore, del pellegrino. Ed è proprio del povero anche l’atteggiamento di apertura e fiducia nei confronti di Colui che può donare. È la fiducia che può abitare nella relazione tra amici, come afferma la breve parabola dell’amico importuno (cf. Lc 11,5-8). Ma decisiva nella preghiera è la categoria della filialità. Il Pater, la preghiera che il Signore ci ha insegnato, non è tanto una formula da imparare a memoria, ma la norma della preghiera cristiana (lex orationis: Tertulliano), la sintesi del vangelo (breviarium totius evangelii: Tertulliano), un canovaccio di vita cristiana che guida il credente a entrare nella relazione con il Padre, nel Figlio Gesù Cristo, per mezzo dello Spirito. Pregare significa entrare sempre più in profondità nella dimensione di figli di Dio. Nella preghiera del Signore le domande fondamentali dell’uomo alle prese con la vita e con la morte (Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?) trovano indicazioni di risposta. Io sono una creatura, amata e chiamata per nome da Dio Padre. Io sono anche un essere fallibile e peccatore, che ha bisogno del perdono come del pane quotidiano e che prega per non essere abbandonato in balia delle prove e per non soccombere nelle tentazioni. Nella mia piccolezza amata da Dio io sono anche destinato al Regno, sono chiamato alla santificazione, a vivere l’oggi narrando la santità di Dio con un agire improntato a giustizia e carità. Radicato in un passato che, in ultima istanza, è sotto il segno della paternità amorosa di Dio e lo situa nella fede, il credente vive il presente praticando la carità e il perdono verso i fratelli e si apre con speranza al futuro attendendo la venuta gloriosa del Signore e la comunione con lui nel Regno.
Se il passo parallelo di Matteo afferma che Dio darà “cose buone” a coloro che le domandano (Mt 7,11), Luca parla dello “Spirito santo” come del dono che il Signore non fa mancare ai suoi fedeli (Lc 11,13). Lo Spirito è il dono dei doni, il dono veramente essenziale, quello che consente all’uomo di assumere il volere di Dio e farlo proprio giungendo così a pregare nel nome del Signore Gesù e a vivere nella libertà dei figli di Dio.
Essa è anche una lotta tra uomo e Dio, un faticoso incontrarsi tra esigenze dell’orante e libertà di Dio. La preghiera esige coraggio, capacità di resistenza, di non scoraggiarsi, esige parresia, cioè franchezza, libertà, audacia. Anche Gesù, nel suo insegnamento sulla preghiera, sottolinea gli aspetti di perseveranza e insistenza: nella preghiera si tratta di bussare, chiedere, cercare. Certi che il dono veramente necessario, il dono dello Spirito, non sarà negato a chi lo invoca (cf. Lc 11,13).
Vedendo Gesù pregare, i suoi discepoli gli chiedono di insegnare loro a pregare, come anche Giovanni aveva insegnato ai suoi discepoli. Lungi dall’essere uno spontaneo manifestarsi di un impulso interiore, la preghiera è trasmessa, ricevuta attraverso una tradizione. “È attraverso una tradizione vivente che lo Spirito santo insegna a pregare ai figli di Dio, nella chiesa ‘che crede e prega’” (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2650). Questa trasmissione onora e rispetta ciò che la preghiera è in verità: un dono. Alla preghiera si può essere certamente educati da un padre spirituale, ma il primo e privilegiato luogo di formazione alla preghiera è la liturgia. Essa è suscitata nell’uomo dall’azione di Dio nella forza dello Spirito: la preghiera della chiesa non è solo leitourghía, azione comune, ma anche opus Dei, azione di (genitivo soggettivo) Dio. Nei tempi odierni in cui fioriscono forme pietistiche e devozionali, ricordare la liturgia come oggettivo luogo in cui si può e si deve imparare a pregare, è senz’altro essenziale.
La preghiera ha la capacità di forgiare l’uomo rendendolo un povero: chiedere, cercare e bussare sono i gesti propri del mendicante, del cercatore, del pellegrino. Ed è proprio del povero anche l’atteggiamento di apertura e fiducia nei confronti di Colui che può donare. È la fiducia che può abitare nella relazione tra amici, come afferma la breve parabola dell’amico importuno (cf. Lc 11,5-8). Ma decisiva nella preghiera è la categoria della filialità. Il Pater, la preghiera che il Signore ci ha insegnato, non è tanto una formula da imparare a memoria, ma la norma della preghiera cristiana (lex orationis: Tertulliano), la sintesi del vangelo (breviarium totius evangelii: Tertulliano), un canovaccio di vita cristiana che guida il credente a entrare nella relazione con il Padre, nel Figlio Gesù Cristo, per mezzo dello Spirito. Pregare significa entrare sempre più in profondità nella dimensione di figli di Dio. Nella preghiera del Signore le domande fondamentali dell’uomo alle prese con la vita e con la morte (Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?) trovano indicazioni di risposta. Io sono una creatura, amata e chiamata per nome da Dio Padre. Io sono anche un essere fallibile e peccatore, che ha bisogno del perdono come del pane quotidiano e che prega per non essere abbandonato in balia delle prove e per non soccombere nelle tentazioni. Nella mia piccolezza amata da Dio io sono anche destinato al Regno, sono chiamato alla santificazione, a vivere l’oggi narrando la santità di Dio con un agire improntato a giustizia e carità. Radicato in un passato che, in ultima istanza, è sotto il segno della paternità amorosa di Dio e lo situa nella fede, il credente vive il presente praticando la carità e il perdono verso i fratelli e si apre con speranza al futuro attendendo la venuta gloriosa del Signore e la comunione con lui nel Regno.
Se il passo parallelo di Matteo afferma che Dio darà “cose buone” a coloro che le domandano (Mt 7,11), Luca parla dello “Spirito santo” come del dono che il Signore non fa mancare ai suoi fedeli (Lc 11,13). Lo Spirito è il dono dei doni, il dono veramente essenziale, quello che consente all’uomo di assumere il volere di Dio e farlo proprio giungendo così a pregare nel nome del Signore Gesù e a vivere nella libertà dei figli di Dio.
LUCIANO MANICARDI