Manicardi - 14 aprile 2013 III Domenica di Pasqua
Fonte: monasterodibose
domenica 14 aprile 2013
Anno C
At 5,27b-32.40b-41; Sal 29; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19
At 5,27b-32.40b-41; Sal 29; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19
Il Risorto si manifesta presso il mare di Tiberiade ai discepoli smarriti (vangelo), è annunciato con audacia dagli apostoli nelle sinagoghe (I lettura) e dossologicamente celebrato nella liturgia cosmica (II lettura).
Questo episodio che narra un’apparizione del Risorto ai discepoli è in realtà un racconto di resurrezione dei discepoli: un racconto in cui il passaggio dalla notte (v. 3) al mattino (v. 4), dunque dalle tenebre alla luce, si accompagna al passaggio dall’ignoranza alla conoscenza di Gesù (v. 4: “Non sapevano che era Gesù”; v. 12: “Sapevano che era Gesù”), dalla sterilità (v. 3: “non presero nulla”) alla pesca abbondante (vv. 6.8), dal non avere nulla da mangiare (v. 5) al partecipare al pasto imbandito da Gesù (vv. 9-12). La presenza del Risorto produce questi mutamenti e ricrea la comunità, che era ridotta a uno sparuto gruppo di gente smarrita.
Nonostante le apparizioni, infatti, e dunque le conferme della resurrezione di Cristo di cui hanno fruito (cf. Gv 20), i discepoli sembrano conoscere un momento di de-vocazione aggregandosi a Pietro che riprende il mestiere abbandonato un tempo per seguire Gesù (“Io vado a pescare”: v. 3). La fede non è mai un dato, ma sempre un evento, un divenire che può conoscere progressi, ma anche regressioni. E anche esperienze di fede fatte possono essere vanificate e non lasciare traccia (che ne è delle parole del Signore che dà potere di rimettere i peccati? E della confessione di fede di Tommaso? Tutto sembra dimenticato). Ma l’esperienza della loro sterilità e impotenza, la dolorosa presa di coscienza del loro “nulla”, conduce i discepoli ad aprirsi alla visita dell’Altro, uno Sconosciuto, che appare sulla riva del lago. Il discepolo amato compie una confessione di fede (“È il Signore”: v. 7), mentre Pietro, che ha il compito di confermare nella fede i suoi fratelli (cf. Lc 22,32), è chiamato a una triplice confessione di amore (vv. 15-17). Se dietro al discepolo amato e a Pietro si devono intravedere le rispettive chiese (la grande chiesa petrina il cui messaggio spirituale è condensato nei Sinottici e la chiesa giovannea che nel quarto vangelo esprime la sua alterità) è allora interessante notare come la confessione di fede del discepolo amato, che in realtà è una comunicazione di fede rivolta a Pietro (“disse a Pietro: È il Signore”), rappresenta lo scambio di doni, la condivisione di ricchezze spirituali tra chiese diverse. Nel discepolo amato si manifesta il discernimento dell’amore, l’intuito dell’amore; Pietro, invece, è chiamato a riconoscere e coprire il proprio peccato (il triplice tradimento) con la triplice confessione di amore nei confronti di Gesù, e a declinare il proprio amore come fatica della sequela (“Tu seguimi”: v. 19). La sequela richiesta a Pietro è anche la cifra spirituale dei vangeli Sinottici, mentre il rimanere (o dimorare), applicato al discepolo amato (cf. Gv 21,22-23), caratterizza il quarto vangelo.
Il capitolo finale del quarto vangelo appare così una sorta di documento ecumenico, una carta di intesa tra la grande chiesa e la chiesa giovannea, fra tradizione sinottica e tradizione giovannea, intesa che si rese necessaria dopo la morte dei due apostoli (supposta dal v. 19 per Pietro e dal v. 23 per il discepolo amato). Le differenze tra le due tradizioni evangeliche ed ecclesiali, personalizzate nei due protagonisti del nostro testo, lungi dall’essere sentite come esclusive l’una dell’altra, sono custodite come ricchezza nel Canone dei vangeli e sono sigillate dall’unico pasto che il Signore imbandisce per tutti: unico il Signore, unica l’Eucaristia, unica la fede. In queste condizioni la missione (la pesca) mostra la sua fecondità. Se, come pare, la parte destra della barca e i centocinquantatre grossi pesci sono un rimando al testo di Ez 47,1-12 (lato destro del tempio, acque pescose, 153 come numero che rinvia, in base alla ghematria, al toponimo Eglaìm: Ez 47,10; ecc.), allora siamo di fronte alla visione della chiesa come tempio escatologico, alla comunità cristiana come luogo della missione universale e della presenza di Dio manifestata nel Risorto.
Questo episodio che narra un’apparizione del Risorto ai discepoli è in realtà un racconto di resurrezione dei discepoli: un racconto in cui il passaggio dalla notte (v. 3) al mattino (v. 4), dunque dalle tenebre alla luce, si accompagna al passaggio dall’ignoranza alla conoscenza di Gesù (v. 4: “Non sapevano che era Gesù”; v. 12: “Sapevano che era Gesù”), dalla sterilità (v. 3: “non presero nulla”) alla pesca abbondante (vv. 6.8), dal non avere nulla da mangiare (v. 5) al partecipare al pasto imbandito da Gesù (vv. 9-12). La presenza del Risorto produce questi mutamenti e ricrea la comunità, che era ridotta a uno sparuto gruppo di gente smarrita.
Nonostante le apparizioni, infatti, e dunque le conferme della resurrezione di Cristo di cui hanno fruito (cf. Gv 20), i discepoli sembrano conoscere un momento di de-vocazione aggregandosi a Pietro che riprende il mestiere abbandonato un tempo per seguire Gesù (“Io vado a pescare”: v. 3). La fede non è mai un dato, ma sempre un evento, un divenire che può conoscere progressi, ma anche regressioni. E anche esperienze di fede fatte possono essere vanificate e non lasciare traccia (che ne è delle parole del Signore che dà potere di rimettere i peccati? E della confessione di fede di Tommaso? Tutto sembra dimenticato). Ma l’esperienza della loro sterilità e impotenza, la dolorosa presa di coscienza del loro “nulla”, conduce i discepoli ad aprirsi alla visita dell’Altro, uno Sconosciuto, che appare sulla riva del lago. Il discepolo amato compie una confessione di fede (“È il Signore”: v. 7), mentre Pietro, che ha il compito di confermare nella fede i suoi fratelli (cf. Lc 22,32), è chiamato a una triplice confessione di amore (vv. 15-17). Se dietro al discepolo amato e a Pietro si devono intravedere le rispettive chiese (la grande chiesa petrina il cui messaggio spirituale è condensato nei Sinottici e la chiesa giovannea che nel quarto vangelo esprime la sua alterità) è allora interessante notare come la confessione di fede del discepolo amato, che in realtà è una comunicazione di fede rivolta a Pietro (“disse a Pietro: È il Signore”), rappresenta lo scambio di doni, la condivisione di ricchezze spirituali tra chiese diverse. Nel discepolo amato si manifesta il discernimento dell’amore, l’intuito dell’amore; Pietro, invece, è chiamato a riconoscere e coprire il proprio peccato (il triplice tradimento) con la triplice confessione di amore nei confronti di Gesù, e a declinare il proprio amore come fatica della sequela (“Tu seguimi”: v. 19). La sequela richiesta a Pietro è anche la cifra spirituale dei vangeli Sinottici, mentre il rimanere (o dimorare), applicato al discepolo amato (cf. Gv 21,22-23), caratterizza il quarto vangelo.
Il capitolo finale del quarto vangelo appare così una sorta di documento ecumenico, una carta di intesa tra la grande chiesa e la chiesa giovannea, fra tradizione sinottica e tradizione giovannea, intesa che si rese necessaria dopo la morte dei due apostoli (supposta dal v. 19 per Pietro e dal v. 23 per il discepolo amato). Le differenze tra le due tradizioni evangeliche ed ecclesiali, personalizzate nei due protagonisti del nostro testo, lungi dall’essere sentite come esclusive l’una dell’altra, sono custodite come ricchezza nel Canone dei vangeli e sono sigillate dall’unico pasto che il Signore imbandisce per tutti: unico il Signore, unica l’Eucaristia, unica la fede. In queste condizioni la missione (la pesca) mostra la sua fecondità. Se, come pare, la parte destra della barca e i centocinquantatre grossi pesci sono un rimando al testo di Ez 47,1-12 (lato destro del tempio, acque pescose, 153 come numero che rinvia, in base alla ghematria, al toponimo Eglaìm: Ez 47,10; ecc.), allora siamo di fronte alla visione della chiesa come tempio escatologico, alla comunità cristiana come luogo della missione universale e della presenza di Dio manifestata nel Risorto.
LUCIANO MANICARDI