Riflessioni sulle letture 19 agosto 2012 (Manicardi)
Fonte: monasterodibose
domenica 19 agosto 2012
Anno B
Pr 9,1-6; Sal 33; Ef 5,15-20; Gv 6,51-58
Di che cosa ci nutriamo? Che cosa ci fa vivere? Queste le domande che emergono dal testo di Proverbi e dal vangelo. Se l’atto materiale del mangiare assicura la vita fisica, il cibo offerto dalla Sapienza rende partecipi di sapienza e intelligenza e il cibo e la bevanda che il Figlio dell’uomo chiede di assimilare rendono il credente partecipe della vita di Cristo.
Il testo evangelico ha una portata eucaristica espressa in termini particolarmente crudi e realistici: mangiare la carne e bere il sangue del Figlio dell’uomo (cf. Gv 6,53-56). “Chi mangia me, vivrà per mezzo di me”, dice Gesù. Questo realismo, spesso concentratosi nella tradizione cattolica successiva alla Riforma sulla “realtà” della presenza di Cristo in ciò che viene mangiato mentre veniva smaterializzato il cibo e de-corporeizzata la manducazione, può anche essere declinato altrimenti con una riflessione sul senso del materiale e realissimo atto di mangiare. Nell’eucaristia, infatti, il corpo di Cristo viene nel credente non attraverso un contatto esteriore o effimero, ma nel modo più intimo e duraturo possibile: l’assimilazione di un alimento. Tutte le valenze insite nell’atto di mangiare sono assunte e risignificate nell’eucaristia: le valenze culturali e sociali del lavorare e preparare il cibo, la dimensione conviviale (si mangia insieme), quella affettiva (il mangiare è connesso all’oralità e al desiderio). Il mangiare designa l’uomo nel suo essere bisogno e relazione, legame con la terra (mangiare cibo è sempre nutrirsi di un pezzo di mondo) e con gli altri uomini; lo rinvia alla sua condizione corporea e alla sua caducità (si mangia per vivere, ma il mangiare non sottrae alla morte). Tra eucaristia e dimensioni dell’esistenza vi è dunque una circolarità: queste sono assunte in quella e quella illumina queste rendendole luogo di esperienza della presenza di Cristo e di ringraziamento.
“Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per mezzo di me” (Gv 6,57). Questo “mangiare me” è in diretta continuità con l’invio del Figlio da parte del Padre, invio motivato dall’amore del Padre per il mondo. Il darsi come cibo per la vita degli uomini è allora l’espressione più pregnante e radicale dell’amore di Dio e di Cristo per l’umanità. Partecipando all’eucaristia noi confessiamo l’amore di Dio per noi e riconosciamo che questo è ciò che ci fa vivere.
L’espressione “carne e sangue” di Cristo rinvia a tutta la vita umana del Figlio di Dio. Mangiare tale cibo e bere tale bevanda non significa dunque solo partecipare a un rito, ma mettersi alla scuola dell’umanità di Gesù. Poiché l’intera vita di Gesù è stata narrazione della vita divina e vittoria dell’amore sulla morte e sul peccato, assimilare la vita di Gesù significa credere in lui, morto e risorto, Parola eterna di Dio fatta carne che nella sua umanità ha pienamente narrato Dio. Il parallelismo istituito da Giovanni circa il mangiare e il credere è istruttivo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,40); “Chi crede ha la vita eterna” (Gv 6,47); “Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54). Il rito esprime la fede, la fede innerva la vita quotidiana in tutte le sue dimensioni e illumina il rito rendendolo magistero per l’esistenza.
La transitività della vita di Cristo nel credente nell’atto eucaristico avviene grazie allo Spirito santo. Nell’eucaristia noi comunichiamo all’umanità di Gesù vivificata dallo Spirito, comunichiamo a “Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che, mediante la sua carne vivificata e vivificante nello Spirito santo, dà vita agli uomini” (PO 5). Ecco la vita in cui immette l’eucaristia: facendo partecipare il credente allo Spirito di Dio che rimette i peccati e dà la vita ai morti, essa fa vivere di quella potenza di vita che è l’agape di Dio più forte della morte. L’eucaristia, come sacramentum charitatis, è anche sacramento del dono dello Spirito. Ed “è lo Spirito che dà la vita” (Gv 6,63).
Pr 9,1-6; Sal 33; Ef 5,15-20; Gv 6,51-58
Di che cosa ci nutriamo? Che cosa ci fa vivere? Queste le domande che emergono dal testo di Proverbi e dal vangelo. Se l’atto materiale del mangiare assicura la vita fisica, il cibo offerto dalla Sapienza rende partecipi di sapienza e intelligenza e il cibo e la bevanda che il Figlio dell’uomo chiede di assimilare rendono il credente partecipe della vita di Cristo.
Il testo evangelico ha una portata eucaristica espressa in termini particolarmente crudi e realistici: mangiare la carne e bere il sangue del Figlio dell’uomo (cf. Gv 6,53-56). “Chi mangia me, vivrà per mezzo di me”, dice Gesù. Questo realismo, spesso concentratosi nella tradizione cattolica successiva alla Riforma sulla “realtà” della presenza di Cristo in ciò che viene mangiato mentre veniva smaterializzato il cibo e de-corporeizzata la manducazione, può anche essere declinato altrimenti con una riflessione sul senso del materiale e realissimo atto di mangiare. Nell’eucaristia, infatti, il corpo di Cristo viene nel credente non attraverso un contatto esteriore o effimero, ma nel modo più intimo e duraturo possibile: l’assimilazione di un alimento. Tutte le valenze insite nell’atto di mangiare sono assunte e risignificate nell’eucaristia: le valenze culturali e sociali del lavorare e preparare il cibo, la dimensione conviviale (si mangia insieme), quella affettiva (il mangiare è connesso all’oralità e al desiderio). Il mangiare designa l’uomo nel suo essere bisogno e relazione, legame con la terra (mangiare cibo è sempre nutrirsi di un pezzo di mondo) e con gli altri uomini; lo rinvia alla sua condizione corporea e alla sua caducità (si mangia per vivere, ma il mangiare non sottrae alla morte). Tra eucaristia e dimensioni dell’esistenza vi è dunque una circolarità: queste sono assunte in quella e quella illumina queste rendendole luogo di esperienza della presenza di Cristo e di ringraziamento.
“Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per mezzo di me” (Gv 6,57). Questo “mangiare me” è in diretta continuità con l’invio del Figlio da parte del Padre, invio motivato dall’amore del Padre per il mondo. Il darsi come cibo per la vita degli uomini è allora l’espressione più pregnante e radicale dell’amore di Dio e di Cristo per l’umanità. Partecipando all’eucaristia noi confessiamo l’amore di Dio per noi e riconosciamo che questo è ciò che ci fa vivere.
L’espressione “carne e sangue” di Cristo rinvia a tutta la vita umana del Figlio di Dio. Mangiare tale cibo e bere tale bevanda non significa dunque solo partecipare a un rito, ma mettersi alla scuola dell’umanità di Gesù. Poiché l’intera vita di Gesù è stata narrazione della vita divina e vittoria dell’amore sulla morte e sul peccato, assimilare la vita di Gesù significa credere in lui, morto e risorto, Parola eterna di Dio fatta carne che nella sua umanità ha pienamente narrato Dio. Il parallelismo istituito da Giovanni circa il mangiare e il credere è istruttivo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,40); “Chi crede ha la vita eterna” (Gv 6,47); “Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54). Il rito esprime la fede, la fede innerva la vita quotidiana in tutte le sue dimensioni e illumina il rito rendendolo magistero per l’esistenza.
La transitività della vita di Cristo nel credente nell’atto eucaristico avviene grazie allo Spirito santo. Nell’eucaristia noi comunichiamo all’umanità di Gesù vivificata dallo Spirito, comunichiamo a “Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che, mediante la sua carne vivificata e vivificante nello Spirito santo, dà vita agli uomini” (PO 5). Ecco la vita in cui immette l’eucaristia: facendo partecipare il credente allo Spirito di Dio che rimette i peccati e dà la vita ai morti, essa fa vivere di quella potenza di vita che è l’agape di Dio più forte della morte. L’eucaristia, come sacramentum charitatis, è anche sacramento del dono dello Spirito. Ed “è lo Spirito che dà la vita” (Gv 6,63).
LUCIANO MANICARDI
Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno B
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