L'eucaristia della famiglia nel giorno del Signore (Enzo Bianchi)
VII Incontro mondiale delle famiglie
di ENZO BIANCHI
1.La famiglia
Quando noi cristiani pensiamo alla famiglia o parliamo di essa, dobbiamo innanzitutto considerare la famiglia all’interno della storia degli uomini: la famiglia che nelle diverse epoche ha subito, e subisce ancora, molte trasformazioni.
La prima forma di famiglia testimoniata dalla Bibbia è quella patriarcale del tempo nomadico: diverse generazioni vivevano come clan, come gruppo in cui il protagonista era il patriarca.
Venne in seguito l’epoca sedentaria, agricola, e la famiglia assunse una nuova forma, abitando villaggi, borgate e poi città, in piccole case dove non era più possibile la coabitazione di diverse generazioni. Ancora, diversa era la famiglia in diaspora, nel tempo dell’esilio, all’interno di una marea di gojim estranei e ostili, e diversa era la famiglia all’epoca di Gesù, collocata nel contesto di villaggi segnati da attività prevalentemente artigianali e commerciali.
Ma se è vero che la struttura e la forma della famiglia sono mutate e mutano, resta però sempre decisivo e, in un certo senso immutabile, il vivere la famiglia come una realtà caratterizzata da relazioni di amore che diventano storia e che legano in alleanza tra loro un uomo e una donna e, nel contempo, le diverse generazioni. La famiglia dunque non va solo letta nella storia, ma va anche letta come amore che diventa storia, che si fa storia. La famiglia non è l’incontro occasionale di un uomo e di una donna; non è semplicemente, come per gli animali, il luogo in cui prolungare la specie. Per gli uomini la famiglia è storia: storia possibile di un inizio, di un’alleanza, di un perdurare nel tempo. Non a caso la famiglia è detta in ebraico bajit, in greco oîkos-oikía, ossia «casa», una realtà visibile, riconoscibile e riconosciuta, che è lo spazio vitale della famiglia.
Ma quali sono, per la fede nel Dio di Abramo e di Gesù Cristo, gli elementi decisivi della famiglia? In primo luogo l’amore: la famiglia è il luogo dell’amore, l’epifania dell’amore, l’alleanza nell’amore. Il patto nuziale che fa dell’uomo e della donna «una sola carne» (Gen 2,24; cf. Mc 10,7-8; Mt 19,5-6; Ef 5,31), è la prima affermazione dell’amore, è un amen detto all’incontro tra i due partner, tra le due alterità, è un antidoto al vivere senza l’altro. L’amore genera l’alleanza e l’alleanza a sua volta genera paternità, maternità e quindi fraternità, sororità, tutte relazioni originarie essenziali alla vita. È innanzitutto nella famiglia che ognuno di noi conosce l’amore «passivo» su di sé (si è amati da quelli che ci fanno venire al mondo) e poi l’amore attivo per l’altro; è nella famiglia che si impara a «uscire» da essa per esercitarsi nell’amore, creando una nuova famiglia. Ciò che dell’amore viviamo e sperimentiamo nella famiglia, è decisivo per la vita e per la capacità di amare.
Ed è proprio nella famiglia che si impara anche la fiducia. Ora, se è vero che già nella vita intrauterina il nascituro sente se può o non può mettere fiducia in colei che lo porta in grembo, nel venire al mondo e nell’umanizzarsi è assolutamente necessario mettere fiducia nei genitori, nei fratelli, nelle sorelle e ricevere da loro fiducia. La vita di ciascuno di noi dipende soprattutto dalla nostra capacità di credere, di avere fiducia negli altri, nella vita, nel futuro, di accettare la fiducia degli altri (1): ma questo è un insegnamento che si riceve innanzitutto nella famiglia.
Infine, nella famiglia si può accedere alla speranza, si può vincere la disperazione che incombe su ogni vita: avanzando nella vita si comprende che si può solo sperare con gli altri, e nella famiglia «sperare insieme» è necessario per imparare ad abitare il mondo e il tempo.
Ma se è vero che quanto visto fin qui è ciò che sta a cuore al Signore riguardo alla famiglia, se questo esprime la vera vocazione della famiglia e disegna i tratti antropologici vitali per l’umanizzazione autentica, per vivere in pienezza e per costruire un’opera comune abitando il mondo, è ancor più vero che soprattutto nella famiglia è possibile vivere il comandamento dell’amore, trasmettere la fede, dare in eredità la speranza. Sovente si pensa che lo Shema‘ Jisra’el (Dt 6,4-5), il grande comandamento dell’amore per Dio che Gesù nei vangeli accosta a quello dell’amore per il prossimo (cf. Lv 19,18; Mc 12,29-31 e par.), non riguardi l’amore famigliare. Poiché l’amore famigliare – si dice – è generato da una scelta libera, da un’attrazione reciproca, da un istinto, dunque non è comandato, allora tale amore non rientra all’interno del comandamento.
Eppure l’amore per il prossimo individua chi è vicino, colui che decide di farsi prossimo all’altro (cf. Lc 10,36), e quindi riguarda anche la famiglia, il luogo per eccellenza della prossimità. L’amore reciproco tra sposi, l’amore reciproco ma non simmetrico tra genitori e figli, l’amore fraterno, stanno all’interno del comandamento che subordina tutti gli altri e che riassume tutta la Legge. Ecco l’amore radicale e fedele che non può essere smentito, l’amore che è sostenuto da un’alleanza, da un patto che Dio ha voluto e stipulato «mettendo sotto un unico giogo», «congiungendo, con-aggiogando» l’uomo e la donna. Un amore che l’uomo e la donna non possono disgiungere: «Ciò che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi», ha detto Gesù (Mc 10,9; Mt 19,6).
Nella famiglia l’amore è diffusivo: dai genitori ai figli, fino a farsi prossimo a coloro che sono senza famiglia, diventando padri e madri per gli orfani (cf. Gb 29,16), attentamente amorosi verso le vedove (cf. Sir 4,10), condividendo i beni dati da Dio al credente e alla sua famiglia (cf. Dt 26,1-11). Quanto alle esortazioni apostoliche sulla vita famigliare, sulla morale domestica – i cosiddetti «codici familiari» o «tavole domestiche» (cf. Ef 5,21-6,9; Col 3,18-4,1; Tt 2,1-10; 1Pt 2,13-3,7) –, è vero che essi attingono ai modelli dell’ambiente ellenico in cui erano presenti le chiese cristiane. Ma è altrettanto vero che l’etica in essi descritta è fortemente cristologica: essere sottomessi gli uni agli altri (cf. Ef 5,21), vivere nell’obbedienza reciproca (cf. Ef 6,1; Col 3,20), amarsi dello stesso amore di Cristo (cf. Ef 5,25), amare il proprio coniuge come se stesso (cf. Ef 5,33), tutto questo è vivere nell’agápe, è tradurre in pratica «il comandamento nuovo» dell’amore (cf. Gv 13,34; 15,12). Per questo il matrimonio, e quindi la famiglia, è «il mistero grande» proprio in riferimento all’agápe di Cristo per la chiesa» (cf. Ef 5,32). Sì, la sequela del Signore trova il suo primo luogo nella famiglia, e solo un’esigenza del Signore, una sua chiamata particolare o specifica può trascendere l’economia dell’amore famigliare. Per questo il comandamento dell’amore da parte dei figli verso chi ha dato loro la vita, tra le dieci parole della Torah è l’unica associata a una promessa di Dio: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni» (Es 20,12; cf. Dt 5,16). In breve, se non si conosce l’amore in famiglia, come si potrà conoscerlo fuori di essa?
Quanto alla fede, sia per l’Antico sia per il Nuovo Testamento la famiglia resta il luogo privilegiato, «l’ambiente naturale della trasmissione della fede» (2). Sappiamo come nella tradizione ebraica la madre in particolare sia determinante per la fede dei figli e per la trasmissione della volontà di Dio, tanto che si potrebbe affermare: «Non c’è famiglia senza Torah, non c’è Torah senza famiglia». Nella vita della famiglia ebraica, significativamente, è presente non solo la liturgia famigliare dell’apertura del sabato, ma anche la grande cena pasquale, il seder, in cui il racconto della liberazione di Israele dalla schiavitù e della Pasqua è narrato ai figli, alle nuove generazioni. L’Haggadah pasquale è detta e ridetta perché la fede nel Dio go’el, liberatore, non venga meno di generazione in generazione. Qui è contenuto un grande insegnamento: il nostro Dio, che è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe… di Gesù Cristo, prima di essere il mio Dio è sempre il Dio dei miei padri, e quindi il Dio di quanti mi hanno preceduto, grazie ai quali l’ho sconosciuto come affidabile e dunque ho creduto.
Giovanni Crisostomo diceva ai cristiani: «Fate della vostra casa una chiesa»(3), e Agostino parlava di «chiesa domestica»(4), perché c’è analogia tra chiesa e famiglia. È stato un mio grande amico, il vescovo di Prato mons. Pietro Fiordelli, che ha fatto introdurre nella Lumen Gentium queste parole: «In questa che si potrebbe chiamare chiesa domestica (In hac velut ecclesia domestica), i genitori devono essere per i loro figli i primi maestri della fede e assecondare la vocazione propria di ognuno»(5). Genitori affidabili, credibili in quanto muniti dell’autorevolezza dovuta alla loro coerenza tra il dire, il vivere e il sentire, possono trasmettere la fiducia ai figli; possono preparare il terreno, predisporre tutto affinché la fede da loro trasmessa ai figli come fiducia forte, come capacità di credere, possa accogliere il dono di Dio, la fede che Dio dona a chiunque prepara il suo cuore a ricevere il suo dono. Se dei genitori sanno mostrare la loro fede in Dio e in Cristo, e dunque indicano, mostrano Dio e Cristo come affidabili, anche i figli si eserciteranno a credere. I genitori dovranno far vedere
che veramente credono a una presenza invisibile;
che realmente aderiscono al Dio vivente;
che quotidianamente si affidano a lui;
che con fatica ma con amore cercano di compiere la sua volontà, convinti che essa è vita per loro;
che amano il cristianesimo, e in esso Gesù Cristo che è il Vangelo e il Vangelo che è Gesù Cristo.
Credere insieme, esercitarsi nella fede si apprende nella famiglia. E questo vale anche per la speranza, perché la speranza è l’altra faccia della medaglia della fede: la fede, infatti, è «àncora di speranza» (cf. Eb 6,19). E così, con le parole e lo stile di vita si dà testimonianza e si trasmette in eredità la sequela del Signore. «Abbiamo creduto all’amore» (cf. 1Gv 4,16): questo è il canto, la testimonianza che i coniugi devono trasmettere ai figli e ai nipoti. «Abbiamo messo fede l’uno nell’altro (siamo stati fidanzati), poi abbiamo stretto un’alleanza nella fede, credendo all’amore»: questa è la sintesi della storia d’amore vissuta nella famiglia.
2. Famiglia, giorno del Signore, eucaristia
Quanto al rapporto tra famiglia e giorno del Signore (6), se i primi cristiani testimoniavano: «Sine dominico non possumus», «senza domenica non possiamo vivere (7) anche la famiglia deve dare ancora oggi la stessa testimonianza nella compagnia degli uomini.
Il «giorno del Signore» (Ap 1,10) è una realtà fondamentale della chiesa, è un sacramento del tempo, che fa memoria di tutta la storia della salvezza riassunta nel Cristo risorto, Signore di tutte le realtà create in lui (cf. Col 1,16) e orientate a lui (cf. id.; Ef 1,10). Dunque questo giorno, giorno del Signore ma anche giorno della chiesa e dell’uomo, non può non essere vissuto in modo peculiare da chi fa l’esperienza della famiglia. Usciti dal regime di cristianità, in cui la religione aveva una funzione sociologica di integrazione nella società civile, assistiamo a una disaffezione dalla pratica domenicale. In questa situazione, dovremmo essere consapevoli che la pratica cristiana della domenica, il vivere cristianamente la domenica è sempre stato difficile e faticoso, come sempre lo è la sequela del Signore Gesù. Nel IV secolo Efrem di Nisibi denunciava la mondanizzazione della domenica che portava i cristiani a fare di essa un giorno in cui peccavano più degli altri giorni:
Il primo giorno della settimana è degno di onore … Beato colui che venera il giorno del Signore osservandolo nella santità … Mentre i nostri corpi riposano e cessano dalla fatica, noi pecchiamo … frequentando taverne e luoghi di peccato(8).
Per la sequela del Signore, dunque, per essere suoi discepoli in comunione con lui, occorre vivere la domenica come famiglia, vivere «secondo il giorno del Signore, in cui è sorta la nostra vita per mezzo di lui»(9).
Ma cosa significa, più precisamente, vivere la domenica come famiglia? In primo luogo ritmare insieme sinfonicamente il tempo. Come famiglia si vive insieme nella stessa casa, ma se non si vive il tempo con un ritmo comune, allora la casa diventa un ostello e non c’è possibilità di incontro autentico tra i membri della famiglia stessa, di fare cose insieme, di vivere insieme la festa e il riposo. Ecco perché noi cristiani cerchiamo di opporre un’intelligente resistenza all’attuale propensione a lavorare anche nel giorno di domenica. Il problema è innanzitutto antropologico: come incontrarsi, come intessere relazioni, come offrire la propria presenza, se manca un giorno in cui noi e gli altri possiamo astenerci dal lavoro e dedicare del tempo a stare insieme in modo gratuito, non funzionale? Oggi che la società è frantumata, che le relazioni sono sempre più precarie e la comunicazione sempre più virtuale, in vista dell’umanizzazione occorre un ritmo comune del tempo di riposo, antidoto all’alienazione da lavoro ma anche possibilità di stare insieme, di fare comunità, di vivere la comunione. Occorre, in altre parole, «vivere la famiglia come uno spazio di relazioni, all’interno e all’esterno»(10) a partire da quel giorno privilegiato che è la domenica.
Quanto ai cristiani – va confessato – in questi anni ancora in gran parte segnati dal riposo festivo, la pratica del weekend vissuto fuori dall’ambiente quotidiano (in montagna, al mare, o altrove) ha già prodotto notevoli danni alla possibilità di vivere autenticamente la comunità parrocchiale, del riconoscimento reciproco tra cristiani, dell’appartenenza a un gruppo che si raduna in uno stesso luogo (epì tò autó: At 1,15; 2,1; 1Cor 11,20; 14,23) per confessare la comune fede nel Signore Gesù Cristo risorto e vivente. Per reagire a questa deriva occorre riaffermare che è decisiva la pratica domenicale vissuta in famiglia; altrimenti anche l’eucaristia è vissuta solo individualmente come un precetto da soddisfare e non come la possibilità di vivere in comunione ciò che si è: una famiglia, appunto. In questo gli ebrei (ma anche i cristiani ortodossi) ci sono di insegnamento: sono le famiglie che il sabato vanno insieme alla sinagoga, anche perché gli uffici liturgici in sinagoga non sono moltiplicati come lo sono per noi le messe (e tantomeno vi sono preghiere speciali per i bambini o i ragazzi…). Ecco il compito che sta davanti a noi: insieme sentirsi chiamati dal Signore, insieme ascoltare la Parola di Dio, insieme celebrare la fede, insieme vivere l’eucaristia che rende tutti un unico corpo, il corpo stesso di Cristo. E dopo la celebrazione eucaristica, l’essenziale della vita cristiana, si dovrebbe insistere sulla possibilità della festa vissuta insieme, a cominciare dalla tavola festiva condivisa in famiglia. Si tratta di una fondamentale resistenza alla frammentazione dei rapporti, all’estraneità gli uni agli altri, soprattutto in una vita quale quella attuale, scandita da ritmi così intensi che nei giorni feriali è diventato quasi impossibile per la famiglia fare un pasto comune, a causa del lavoro, della scuola, dei vari impegni che organizzano in modi diversi le vite dei membri di una famiglia.
Se, alla luce di questo radicamento nella famiglia, approfondiamo la pratica cristiana della domenica, si può affermare che essa è oggi più che mai una pratica profetica, alla portata di tutti i fedeli. In che senso faccio questa affermazione? Nel senso che famiglie diverse, veramente differenti per ambiente, cultura, oggi anche per lingua ed etnia, si ritrovano convocate da colui che riconoscono come Signore. Le famiglie obbediscono insieme e si riscoprono insieme ascoltatrici della Parola e membra dell’unico corpo di Cristo. Contro l’anonimato e l’omologazione si costruisce così una comunione in cui avvengono il riconoscimento reciproco e l’abbattimento di ogni barriera. Questa è inoltre una pratica profetica perché uomini e donne, giovani e anziani, sono nello stesso luogo e uniti da uno stesso vincolo di fede, speranza e carità. Non è questo un miracolo, per gente che cerca miracoli? Non è un miracolo che, seppur in numero minoritario, milioni di uomini e donne su tutta la terra nello stesso giorno facciano gesti di condivisione, cantino la stessa speranza, si esercitino alla stessa carità?
E così torniamo al ruolo della famiglia: i genitori sono chiamati a insegnare ai figli non solo il ritmo settimanale, scandito dal giorno del Signore, ma quello dell’intero anno; hanno cioè il compito di far comprendere ai figli il valore delle feste – a partire dalla Pasqua, festa delle feste – e di aiutarli a viverle da cristiani. La liturgia celebrata è capace di far capire ai bambini e ai ragazzi molte cose che noi non sappiamo spiegare: è però nostro compito quello di aiutarli a leggere i segni, a comprendere le azioni umanissime della liturgia, ad ascoltare la Parola di Dio sempre efficace (cf. Eb 4,12) nel nostro oggi, l’oggi di Dio.
Qui si situa anche l’insegnamento a pregare, che deve avere inizio quando i bambini sono molto piccoli; un insegnamento che nasce dal pregare con loro da parte dei genitori. Se i discepoli di Gesù gli hanno chiesto di insegnare loro a pregare è perché vedevano lui per primo impegnato nella preghiera (cf. Lc 11,1); allo stesso modo, se i figli vedono i genitori intenti alla preghiera, domanderanno… La preghiera però deve essere vissuta con autenticità, non come una devozione ma come un atto convinto e affidabile. Se Gesù ha promesso: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20), allora è innanzitutto nella famiglia che Gesù stesso, che Dio può essere presente, può essere evocato con la preghiera, chiamato «in mezzo» per essere riconosciuto come Signore. È difficile questo per i genitori? È difficile per tutti pregare, ma il dono della preghiera è sempre fatto a chi lo chiede con sincerità al Signore, perché lo Spirito santo invocato si rende sempre presente (cf. Lc 11,13). Non si tratta di pregare come possono fare i monaci, ma occorre qualche volta pregare insieme, in modi e forme che sono eloquenti per i figli. D’altronde in certe situazioni la preghiera fatta insieme in famiglia sembra imporsi come una necessità: nel dolore, nel lutto, nelle disgrazie, quando i giorni sono cattivi… Nello stesso tempo, bisogna pregare anche nella gioia, nella festa, all’inizio dei pasti, in un luogo in cui avviene, accade la bellezza. Sì, pregare con gli altri familiari a volte significa assunzione comune delle responsabilità, a volte accettazione della volontà del Signore, a volte gioia condivisa davanti a Dio. E pregare con gli altri è sempre anche pregare per gli altri. Ma tutto questo lo si impara in radice nella liturgia eucaristica domenicale, perché è la preghiera comune, è la liturgia che ispira i modelli e plasma le forme di quella personale e famigliare.
Conclusione
Dal breve itinerario percorso si comprende un dato fondamentale, un’istanza che interpella la creatività della chiesa e, al suo interno, delle famiglie: porre nuovamente al centro della vita cristiana un’adeguata comprensione e prassi del giorno del Signore, giorno della chiesa, giorno dell’eucaristia, giorno per l’uomo.
Riscoprendo la centralità del giorno del Signore, «la famiglia ritrova se stessa come luogo delle relazioni decisive per l’esistenza delle persone che la compongono»(11); per il cammino di umanizzazione; per vivere sotto il segno dell’amore, l’unica realtà che «non avrà mai fine» (1Cor 13,8).
ENZO BIANCHI
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(1) Su questo tema cf. E. Bianchi, Gesù educa alla fede Qiqajon, Magnano 2011, pp. 8-12.
(2) B.Maggioni, Il seme e la terra, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 88; sul tema si vedano anche B. e B. Chovelon, L’avventura del matrimonio: guida pratica e spirituale, Qiqajon, Magnano 2004, pp. 175-182.
(3) Giovanni Crisostomo, Sermones in Genesim VI,2.
(4) Agostino di Ippona, Epistulae 14*.
(5) Lumen Gentium 11.
(6) A quest’ultimo tema ho dedicato un ampio studio: Vivere la domenica, Rizzoli, Milano 2005.
(7) Acta Saturnini, Dativi, et aliorum plurimorum martyrum in Africa XI.
(8) Ignazio di Antiochia, Ad Magnesios IX,1.
(9) Efrem di Nisibi, Sermo ad nocturnum dominicae resurrectionis 4.
(10) F. G. Brambilla, «“Stili di vita” della famiglia tra lavoro e festa», in Communio 230 (2011), p. 13.
(11) F. Manenti, «Il giorno del Signore e la famiglia oggi: un tempo da ritrovare», in A. Torresin (ed.), Il giorno di Dio e degli uomini. Domenica ed Eucaristia, Àncora, Milano 2006, p. 174.