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L'amore del prossimo (Enzo Bianchi)

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Genova 6 giugno 2012 - Nel nostro contesto socio-culturale, in cui si è perso il senso fisico della prossimità, come restituire un senso reale al comandamento dell’amore per il prossimo?. Da questo interrogativo parte la riflessione di Enzo Bianchi, monaco, scrittore e priore della Comunità di Bose.




L'articolo di Paola Radif.

Enzo Bianchi al Ducale
“L’amore del prossimo”

Parlare al cuore con un linguaggio razionale, con concretezza e senza sentimentalismi, è forse la via più efficace per lasciare un segno. Così sembra che avvenga ogni volta che Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, ritorna nella nostra città. Al suo invito Genova risponde sempre con entusiasmo e generosità e così è stato anche in occasione dell’incontro sul tema “L’amore del prossimo”, svoltosi mercoledì scorso a Palazzo Ducale.

Davanti al pubblico che affollava la sala del Maggior Consiglio il relatore ha affrontato un argomento in apparenza molto semplice da comprendere: eppure quante riflessioni possono scaturirne, quante “scoperte” possiamo dire che ne emergono!
Un percorso lungo i sentieri dell’amore del prossimo, accompagnati da Enzo Banchi, può portare in una direzione nuova, può aprire prospettive inaspettate e, soprattutto, chiarire il significato stesso delle parole. In un tempo in cui è facile sentirsi chiedere un aiuto per il prossimo o essere invitati a intraprendere iniziative di carità è importante capire che cosa in realtà s’intenda per amore del prossimo.
Enzo Bianchi ha dapprima osservato che ogni cultura riconosce in qualche modo l’esigenza di fare agli altri ciò che si vuole fatto a noi stessi, e così il suo contrario, cioè non fare agli altri ciò che non si vorrebbe per se stessi. In particolare, poi, nell’Antico Testamento troviamo questo concetto espresso in un comando che viene sviluppandosi nei secoli fino a realizzarsi pienamente nella vita di Gesù, vero “paradigma di cosa sia l’amore del prossimo”. In lui trova infatti completa espressione l’antico comandamento, prima ancora di essere riformulato a parole.
Ci sono tanti tipi di amore, ha proseguito Enzo Bianchi, da quello che lega genitori, figli, educatori, a quello tra amici, o tra uomo e donna. Ciascuno ha caratteristiche precise: l’uno nasce da legami di sangue, l’altro da affinità o esperienza condivisa, l’altro ancora da attrazione sessuale e bisogno di uscire dalla famiglia per costruire una nuova vita in cui essere protagonisti.
Ma c’è un altro amore, quello verso il prossimo, che non può nutrirsi della logica degli amori di cui si diceva prima e sono tante le maniere in cui esso si esplicita. Ecco, allora, l’importante interrogativo: “Siamo capaci di comprendere la categoria della prossimità?”
Con dispiacere si deve riconoscere che il titolo di un libro del sociologo e filosofo Luigi Zoia: “La morte del prossimo” è assolutamente attuale: noi oggi non sappiamo vivere la prossimità. Eppure, anche se non conosciamo chi ci sta accanto, non sappiamo la sua lingua né lui la nostra, tuttavia possiamo farci vicini a lui. “Prossimo è colui che io rendo vicino”: ecco la ricetta di Enzo Bianchi.
Sono tante le cause che provocano la “morte” del prossimo.
Noi crediamo di comunicare avvicinandoci in tempo reale a chi si trova a grande distanza da noi, ma questo non crea prossimità, anzi, l’illusione di avvicinarsi grazie a mezzi di comunicazione sempre più sofisticati è una delle malattie più gravi del mondo di oggi. Solo la prossimità fisica rende possibile una vera relazione. Senza di essa si passa con facilità dalla solitudine all’isolamento. È questo il rischio che corrono vecchi e malati, che hanno bisogno della presenza dell’altro. “L’amore del prossimo è per chi io rendo vicino: quando lo rendo vicino potrò amarlo” ha continuato Enzo Bianchi. Per un vero colloquio, ha aggiunto, dobbiamo vedere il corpo dell’altro, sentire il suo odore, guardarlo negli occhi.
Ritornando all’Antico Testamento, il relatore ha sottolineato che mentre nel Levitico (Lv 19,18) si dice: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” a conclusione di una serie di comandi, in base ai quali ogni israelita era chiamato ad avere col prossimo una relazione fraterna contrassegnata da amore, ben tre volte si trova nella Bibbia l’esortazione: “Amerai lo straniero che risiede presso di te”. Dunque, il prossimo non era solo il fratello ebreo ma anche chi si fosse rifugiato nel suo territorio, per lavoro o per altri motivi. Amare come te stesso indica che devi prima amare te stesso e questo è possibile quando percepisci te stesso come creatura di Dio. Solo allora puoi amare l’altro. Si potrebbe dire: “Ama il tuo prossimo perché è come te stesso” o meglio, come dice Martin Buber: “Ama il prossimo perché è te stesso”.
Il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento sempre su questo tema è stato poi condotto per mezzo di un commento alla parabola del buon samaritano. Il dottore della legge che interroga Gesù sembra chiedergli qual è il più grande comandamento della Legge, quasi per cercarne uno che possa contenere gli altri o sovrastarli, tenendo conto che l’ebreo aveva ben 613 comandamenti da osservare. Ma il punto cruciale è la seconda domanda, provocatoria: “Chi è il mio prossimo?”. Una domanda, questa, che secondo E.Bianchi è sbagliata in quanto obbliga a fare una classifica, dove c’è chi ha più titolo a essere aiutato rispetto ad altri meno vicini o significativi. Ecco allora che Gesù, dopo il racconto, capovolge la domanda, dicendo: “Chi si è fatto prossimo di colui che era nel bisogno?”. Gesù, con questo, vuole far capire che è decisivo mettersi accanto all’altro non tanto perché povero, malato, handicappato, ma semplicemente perché è un uomo, una donna come noi.
Non si tratta di farci vicini per fare la carità ma farci vicini per dare la nostra presenza.
In una inedita rilettura della stessa parabola Enzo Bianchi ha voluto poi inserire ognuno di noi al posto del samaritano. Ma ci ha immaginati senza cavalcatura, senza danari, senza olio e vino per lenire le ferite di chi sta davanti a noi e si è domandato che cosa ancora avremmo a disposizione per farci prossimo.
Quando sembra di non poter più fare nulla resta pur sempre la possibilità di porci accanto a chi è solo, malato, disperato, tenergli la mano, stenderci vicino a lui. Dovessimo anche accompagnarlo fino all’ultimo respiro, anche noi ci saremo fatti prossimo, come il samaritano del vangelo di Luca.
Paola Radif
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