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Come la Povertà evangelica interpella l’uomo d’oggi (Manicardi)

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Fonte: cresia

“Come la povertà evangelica interpella l’uomo d’oggi”. Il titolo della relazione affidatami esige un completamento. Per poter interpellare l’uomo d’oggi, la povertà evangelica deve essere eloquente, visibile, deve essere narrata. Se non è narrata non si pone neanche la domanda sul come può interpellare. E chi può narrarla se non la chiesa? A 50 anni dall’apertura del Concilio si devono ricordare le parole di papa Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962: “In faccia ai paesi sottosviluppati la chiesa si presenta quale essa è, e vuol essere, come la chiesa di tutti, e particolarmente la chiesa dei poveri”.
Per il Card. Lercaro, protagonista del Concilio, “il tema centrale del Concilio è la Chiesa proprio in quanto chiesa dei poveri” e per il Card. Liénart, “la chiesa deve ritrovare un aspetto che i secoli hanno un poco sfumato: il volto della povertà”. Che abbiamo fatto di questa eredità del Concilio? Certo, ci sono tante chiese povere e poverissime nel mondo, chiese (cattoliche e no) che sono minoritarie e perseguitate, chiese che subiscono violenze e martirio, chiese di poco o nessun peso politico, vediamo delle povere chiese, spesso martoriate, ma anche delle chiese povere. Se guardiamo all’oggi, al qui e ora, alla nostra chiesa cattolica in Italia, vediamo certamente una povera chiesa, ma non una chiesa povera. Verrebbe da ripetere ciò che scriveva Origene tanti secoli fa nel suo commento a Matteo: “Gesù ha pianto su Gerusalemme. Oggi v’è di che piangere sulla chiesa, che lo spirito carnale di taluni trasforma in una spelonca di ladri” (PG 13,1445). E Agostino: “A causa di certa ignoranza e fragilità dei suoi membri, la Chiesa ha ogni giorno motivo di dire a nome della totalità dei fedeli: Rimetti a noi i nostri debiti” (Ritrattazioni II,18). Parlare di povertà evangelica significa parlare della povertà vissuta da Gesù di Nazaret, che non è definibile semplicemente con parametri economici o sociologici, ma anzitutto come trasparenza della persona di Cristo al Padre: “Chi ha visto me, ha visto il Padre”. La chiesa, per essere segno e sacramento della presenza di Dio tra gli uomini non può che entrare maggiormente in questo movimento di spogliazione arricchente. La domanda da porsi è: chi vede noi, i cristiani, che cosa vede? Chi vede la Chiesa, che cosa vede? Così come dobbiamo ricordarci che i veri poveri, coloro che subiscono e patiscono la povertà non si permettono il lusso di discutere circa la povertà. Come ha scritto il poeta Rainer Maria Rilke: “I poveri sono silenziosi, quasi come le cose”. Circa la povertà della chiesa dobbiamo riconoscere che la tentazione più difficile da vincere è stata ed è ancora oggi quella che Nicola Berdiaev chiamava “la prova del trionfo”, una tentazione che la chiesa ha cominciato a vivere una volta uscita dall’epoca antica dei martiri e delle catacombe. Scriveva già Ilario di Poitiers riferendosi a una cristianità che godeva ormai della legittimazione imperiale ad opera di Costantino: “Combattiamo contro un nemico insidioso, un nemico che lusinga, non ferisce la schiena, ma carezza il ventre; non confisca i beni dandoci così la vita, ma arricchisce e così ci dà la morte; non ci spinge verso la libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro” (Liber contra Constantium 5). Un’avvertenza. Applicare la nozione di povertà (come quella di umiltà, o di lotta spirituale, o di conversione, ecc.) alla chiesa implica una concezione della chiesa non come sistema di mediazione di verità e grazia, non come soggetto sovrapersonale portatore di diritti e rivendicazioni nei confronti del potere statale, non come quasi identificata al Cristo stesso, ma come popolo di Dio, come comunità di uomini e donne battezzati, come “noi” ecclesiale, come corpo vivente. La mia riflessione si svolge attraverso 4 punti, fra i diversi che, ovviamente, potrebbero essere messi in campo. 1) Il rapporto con i poveri: per una carità critica 2) Autorità, potere e governo nella chiesa 3) Il denaro e i beni della chiesa Per una riforma della chiesa 1) Il rapporto con i poveri:per una carità critica La carità avviene sempre all’interno di relazioni umane. Relazioni interpersonali, sociali, politiche. La carità avviene nella storia, in uno spazio e in un tempo precisi. La carità è storica, non è un principio astratto. E la chiesa sempre, fin dalla più alta antichità ha fatto proprio il principio teorico e pratico della difesa dei deboli, dei poveri, delle categorie svantaggiate, a partire dalla classiche categorie bibliche dell’orfano, della vedova, dello straniero, in particolare dell’immigrato. Ora la chiesa è chiamata ad articolare il lavoro della carità con l’opera della giustizia. Se la carità è amore del fratello, la giustizia è amore dei diritti dei fratelli. Lungi dal rappresentare due dimensioni opposte, giustizia e carità possono e devono incontrarsi: la giustizia è il volto sociale della carità. Quindi la carità della chiesa verso i poveri deve munirsi di capacità critica. Valgono ancora per noi oggi le parole di Henry Fielding scritte in un memoriale del 1753 sull’aiuto efficace ai poveri: La sofferenza dei poveri è notata meno dei loro reati, e per questo riduce la nostra pietà nei loro confronti. Periscono di fame e di freddo nel mezzo dei loro simili, ma gli occhi dei benestanti li vedono soltanto quando chiedono l’elemosina, quando rubano e quando delinquono[1]. La carità critica sa discernere l’attuale criminalizzazione del povero: oggi è in atto una colpevolizzazione e criminalizzazione del povero (immigrato, rom, mendicante…) in quanto povero. Il povero in quanto tale, il povero che non ha fissa dimora perché nomade, o il povero che è non-radicato perché straniero, viene immediatamente sospettato di essere un potenziale delinquente. La povertà diventa oggi lo stigma di una malattia vergognosa. La vittima viene colpevolizzata. E il povero viene reso più povero negandogli i diritti, come la cittadinanza, o comunque rendendo arduo e improbo, o perfino impossibile, il cammino verso l’integrazione. Il povero oggi è anche un povero di diritti. Non è solo qualcuno che dal punto di vista economico è meno abbiente di altri o che nella scala sociale si trova più in basso di altri. “Lo stigma della povertà è uno stigma speciale che Lattribuisce ai poveri uno status sub-umano: poveri sono coloro a cui è stata assegnata una umanità inferiore”[2]. Il povero ha cattiva reputazione! Più che mai oggi. La carità critica non può non rilevare che la povertà nel nostro occidente – e la crisi economico-finanziaria lo sta esplicitato drammaticamente – è tutt’altro che un fenomeno residuale. Anche nelle nostre città sta assumendo sempre maggiore visibilità la povertà radicale connessa ai bisogni fisici elementari della natura umana: il nutrimento, l’abbigliamento, il ricovero. E stanno crescendo a dismisura i nuovi poveri, i senza lavoro, i senza casa, i ceti medi che faticano e stentano a sbarcare il lunario. La carità critica esercita uno sguardo critico sulla società proprio cercando di guardarla dal punto di vita del povero, del bisognoso, del povero. Allora essa non può non discernere l’uso strumentale di due emozioni, la paura e la vergogna, uso che oggi si verifica, come si è verificato molte altre volte nella storia, quando delle minoranze o dei marginali sono stati resi capri espiatori della società. L’antitesi noi/loro – autoctoni e immigrati, o autoctoni stanziali e nomadi, o italiani e stranieri, o cristiani e musulmani, o occidentali e islamici, eccetera – si regge sulla sollecitazione ed enfatizzazione della paura che gli altri attentino alla nostra sicurezza rendendoci stranieri e insicuri in patria, e sul carattere vergognoso della loro presenza che li rende passibili di punizione o di espulsione o di rigetto o di “pulizia”. Se è abbastanza evidente l’uso strumentale della paura nei confronti degli immigrati, ma anche dei poveri (sempre potenziali ladri) forse lo è meno quello della vergogna. Che però non è meno importante. Il sottile e complesso meccanismo della vergogna spesso fa sì che chi dovrebbe vergognarsi, di fronte a poveri, mendicanti e immigrati, per l’umanità offesa e conculcata degli altri, dovrebbe provare imbarazzo e vergogna per la sproporzione tra il proprio benessere e la miseria degli altri, mostrando così un principio almeno di empatia e di coscienza di comune umanità, si sottragga alla vergogna trasferendola sulle vittime e appiccicandola a loro. Per non dovermi vergognare io ricco di fronte alle condizioni miserevoli del povero, lo colpevolizzo, lo rendo ignobile, faccio in modo che lui stesso debba vergognarsi di quel che è[3]. Scrisse p. Yves Congar in un testo su “La chiesa e il problema della povertà”: “L’umanità deve aver vergogna della condizione nella quale lascia molti suoi membri: i suoi poveri. Questa vergogna è (o dovrebbe essere) ravvivata presso i cristiani dal sentimento della dignità dei poveri. Dignità, già, della persona umana. Dignità, inoltre, di coloro ai quali Cristo si è legato e quasi identificato”[4]. In questo clima il povero (che spesso è un immigrato) da un lato è sempre più temuto, dall’altro lui stesso è sempre più preda di paura per l’ostilità in mezzo a cui vive e lui stesso arriva a vergognarsi di essere quel che è. Allora si realizza ciò che ha scritto Lévinas: “La povertà … è vergognosa perché lascia trasparire, come gli stracci del mendicante, la nudità di un’esistenza incapace di nascondersi”[5]. La vergogna, come prodotto sociale e culturale, come emozione indotta, produce l’annientamento della persona mediante il disprezzo con cui l’interlocutore viene ridotto a una cosa, a un nulla. L’atto di far vergognare l’altro è forma di indifferenza radicale nei confronti della sua dignità e dei suoi diritti, del suo valore personale: egli viene equiparato a cosa sporca e trascurabile, a spazzatura. “Lo scopo di questa aggressività è disumanizzare la persona, trasformarla in un escremento”[6]. In realtà, vergognosa non è la povertà, ma l’ingiustizia che crea la povertà: ecco allora che un obiettivo dell’agire di carità verso il povero è quello di liberarlo dalla vergogna di essere povero. E questo obiettivo sarebbe certamente reso possibile da una chiesa povera, una chiesa che si presenti lei stessa con i connotati della povertà, non semplicemente come colei che agisce a favore dei poveri, li assiste e li soccorre. Analogamente, un’urgenza dell’agire razionale e caritatevole è quello di operare perché sia resa inefficace la perniciosa distinzione di campo noi/loro, questa nefasta bipartizione manichea dell’umanità che da un lato esprime disprezzo e dall’altro suscita vergogna seminando inimicizia e odio. La carità critica deve essere anche auto-critica. Un lavoro caritativo che non operi per far uscire il povero dall’esclusione diviene complice dell’emarginazione del povero e della sua strumentalizzazione. Si pensi alla giustificazione teologica della povertà nella Vita di sant’Eligio (vii secolo): “Dio avrebbe potuto rendere ricchi tutti gli uomini, ma ha voluto i poveri affinché i ricchi avessero l’occasione di redimere i propri peccati”. Il povero viene considerato strumentalmente dal punto di vista del ricco: facendo l’elemosina, il ricco si salva. Mentre, ovviamente, il povero ha il suo senso nel restare povero. Giustificando così la povertà, questo testo giustifica soprattutto la ricchezza: la ricchezza è necessaria affinché i poveri possano essere aiutati con le elemosine. Ora, la storia insegna che nel corso del secondo millennio l’attitudine generale delle società cristiane nei confronti della povertà combinava in modo rivoltante assistenza ed esclusione[7]. Il povero che veniva assistito restava escluso, non si cercava di integrarlo, e così lo si feriva nella sua dignità. Ma nel povero che viene assistito e che non potrà mai aspirare a raggiungere lo statuto di chi lo assiste (che ai suoi occhi resta appartenente a un mondo altro da cui lui resterà inevitabilmente escluso), si sviluppa odio e risentimento. Occorre vigilare perché l’esclusione non resti inglobata nella carità. In un momento storico come quello attuale, occorre allora più che mai che la carità sia vigilante, attenta, critica. Questo significa che oggi deve essere capace non solo di gesti, ma anche di parole. Deve essere profetica ed evangelica. Capace dello sdegno e dell’invettiva profetica, capace della fermezza e del rigore evangelico. Questa coscienza profetica renderà più eloquente ogni gesto di carità.La parola della carità è il vangelo, il buon annuncio destinato ai poveri che è anche parola di giudizio per gli egoismi e la concupiscenza umana. Il vangelo della carità è anche ispirazione di parole profetiche che sposano la causa del povero e traducono lo scandalo che Dio prova di fronte all’ingiustizia, alla dignità umana del povero che viene calpestata. Sì, si tratta di riscoprire la parola coerente con l’agire, una parola vera, non menzognera, non manipolatoria, non adulatrice, non falsa. La carità è esigente ed esige l’assunzione della responsabilità della parola, responsabilità per cui la parola pronunciata impegna tutta la mia persona e non è più mia ma appartiene a chi l’ascolta. La carità chiede di dire il vero, di schierarsi con la vittima dandole voce, diventando la voce di coloro che non hanno voce. Il Nuovo Testamento è duro e forte su questa esigenza, usa parole “politicamente scorrette” e scandalose, ma che non imbarazzavano certo Giovanni Crisostomo e i grandi padri della chiesa che osavano ridire queste parole forti nelle loro comunità cristiane: E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza (Gc 5,1-6). La dimensione critica della carità va infine colta come vigilanza affinché la dimensione istituzionale della carità non vada a discapito dell’impegno personale, non diventi deresponsabilizzazione del singolo o dei piccoli gruppi. In effetti, “i poveri li avete sempre con voi” (Mt 26,11), ha avvertito Gesù. Pertanto, come ricorda giustamente Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est, “l’amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta”[8]. E come – prosegue Benedetto XVI – “non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore … ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione o di aiuto”[9], così anche le istituzioni ecclesiastiche caritative devono non solo guardarsi dal monopolizzare la carità facendone un’attività aziendale impersonale, ma favorire, suscitare e nutrire il senso di responsabilità personale della carità e della giustizia. Ivan Illich, in un libro intervista portato a compimento poco prima di morire (il 2 dicembre 2002), riferendosi all’antichità cristiana dice: Era d’abitudine, in una casa cristiana, avere un materasso in più, un pezzetto di candela e un po’ di pane secco in caso il Signore Gesù avesse bussato alla porta, vale a dire, qualcuno senza un tetto sopra la testa fosse arrivato, e allora tu lo avresti accolto e ti saresti preso cura di lui. Questo tipo di comportamento è radicalmente contrario a tutto quanto era conosciuto nell’impero romano, in qualsiasi delle sue culture[10]. Con la legislazione costantiniana sappiamo che la situazione del cristianesimo nell’impero romano mutò: I vescovi ottennero, sotto Costantino, la stessa posizione che avevano i magistrati nell’amministrazione imperiale, ma poterono anche creare delle organizzazioni, delle associazioni. E le prime associazioni da essi create furono quelle samaritane. Essi affidarono a una casa particolare, controllata dal vescovo e finanziata dalla comunità, il compito di ospitare le persone senza casa. Ospitarle non era più una libera scelta di un padrone di casa, era un compito dell’istituzione. Non desta meraviglia il fatto che quello stesso anno – o fu un anno più tardi? –, in pratica nello stesso periodo di tempo in cui Costantino attribuiva ai vescovi il titolo di magistrato, o un suo equivalente, un altro grande padre della chiesa, Giovanni Crisostomo esclamasse violentemente in una sua predica: “Non create questi xenodocheía (case per stranieri)! Assegnando il dovere di comportarsi in questo modo a un’istituzione, i cristiani perderanno l’abitudine di riservare un letto e avere un pezzo di pane pronto in ogni casa e le case cesseranno di essere delle case cristiane”[11]. Le istituzioni caritative mostreranno dunque la loro vitalità se, con il loro servizio continuo ed efficace ai poveri, non solo non susciteranno atteggiamenti di deresponsabilizzazione da parte dei singoli cristiani, ma se, al contrario, sapranno sensibilizzare alla responsabilità caritativa e all’azione di giustizia i singoli, le comunità cristiane e la società. 2) Autorità, potere e governo nella chiesa La povertà della chiesa non la si valuta semplicemente in termini economici o di possedimenti di beni, ma anzitutto in termini di potere. Noi sappiamo che nei secoli XII-XIV il vocabolo pauper (povero) non si opponeva a dives (ricco), ma a potens (potente). Cioè, la ricchezza è un aspetto del potere. La povertà si configura così come rinuncia al potere e libertà dal potere. La povertà custodisce la libertà. Una parola di Gesù è decisiva a mio parere di questo assetto povero della chiesa nella storia. Il racconto lucano dell’istituzione eucaristica ingloba un breve discorso di addio di Gesù ai discepoli in cui il Signore, richiamando l’esempio dei potenti del mondo che esercitano il potere sulle genti e spadroneggiano su di esse, pone un fondamento costitutivo della comunità dei discepoli nella storia: “Voi, invece, non così!” (Lc 22,26). Segue l’insegnamento sull’esser servi gli uni degli altri e il criterio del servizio come fondamento dell’autorità nella chiesa. La povertà di una comunità cristiana è finalizzata alla comunionalità, alla fraternità, alla condivisione, e viene resa possibile anzitutto dalla struttura della comunità cristiana, dal suo assetto, che condiziona il suo modo di porsi nella storia. La parola di Gesù sull’autorità nella chiesa concepita come servizio denuncia l’antievangelicità dell’assunzione dei modelli politici di gestione del potere da parte di chi detiene autorità nella chiesa. La configurazione della comunità eucaristica ha così, nella sua stessa scaturigine, una dinamica di alternativa rispetto ai modelli istituzionali e di potere mondani. Quel “voi, invece, non così!” al cuore dell’eucaristia, è tassativo tanto quanto il “mangiatene tutti” e va inteso non come affermazione di una comunità cristiana che nel mondo si situa “contro”, in una logica di contrapposizione e di inimicizia (questo è tipico della chiesa forte, potente), ma nel senso di una comunità che vive una differenza nella qualità delle relazioni, differenza che diviene testimonianza per gli uomini. Il modo di vivere evangelicamente l’autorità dovrebbe sì interpellare l’uomo d’oggi e proporgli vie nuove. Molto concretamente credo che oggi due siano le dimensioni da sviluppare nell’esercizio dell’autorità di governo nella chiesa cattolica: la collegialità e la sinodalità. Un organo collegiale permanente che possa assistere il vescovo di Roma con consultazioni regolari per prendere visione dei problemi dei 5 continenti e giungere a decisioni che non siano calate dall’alto o non sufficientemente consapevoli delle situazioni regionali e geopolitiche ed ecclesiali sarebbe essenziale per il governo centrale. Anche per dare maggiore attuazione a quella dimensione dell’esercizio dello sciogliere e del legare che, secondo Mt 18,18 ha una dimensione anche comunitaria, non riservata esclusivamente a Pietro. Credo che sia deficitaria anche la pratica sinodale che, fin dall’epoca neotestamentaria è la pratica ecclesiale della comunione. Se il cristianesimo viene chiamato “la via” (hodòs: At 9,2; 18,25-26; ecc.) la modalità di viverlo è il sýn-odos, “il cammino fatto insieme”. Come nel corpo nessun membro può dire all’altro “io non ho bisogno di te” (1Cor 12,21), così nella chiesa nessuna componente ecclesiale può fare le cose senza o contro le altre né al di sopra o all’insaputa delle altre. E se differenti sono le funzioni, i compiti e le responsabilità delle membra del corpo come dei membri della chiesa, non si può dimenticare che “proprio le parti del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie” (1Cor 12,22). Dunque i poveri, i malati, chi ha disabilità, e porta inscritti nel corpo e nella mente i segni della grande povertà umana, è più che mai segno del Crocifisso. La sinodalità deve certamente trovare una configurazione istituzionale, ma è essenziale non dimenticare che le istituzioni della sinodalità sono a servizio della vita e della comunione. Altrimenti il rischio della deriva burocratica e del considerare fine ciò che non è che mezzo può giungere a stravolgere anche gli strumenti più santi. Il NT presenta la prassi sinodale all’opera in alcuni momenti decisivi della vita ecclesiale e non la presenta mai nella forma di una democrazia diretta, ma nell’articolazione tra “tutti”, “alcuni” e “uno solo”. Gesù, durante la sua vita, fra tutti i discepoli ne ha scelti alcuni (i Dodici) e tra questi ha distinto Pietro (uno solo). Al momento di completare il collegio dei Dodici (alcuni) menomato per la defezione di Giuda, Pietro (uno solo) si rivolge all’assemblea plenaria dei fratelli (tutti) che propone due nomi. Dopo aver pregato, viene tirata la sorte e scelto Mattia (At 1,15-26). Questa logica partecipativa è all’opera anche al momento di risolvere una tensione sorta fra cristiani di origine palestinese e cristiani ellenisti circa il sostentamento da assicurare alle rispettive vedove: non si agisce di autorità, ma i Dodici formulano una proposta che, approvata da tutta l’assemblea, porta alla decisione (At 6,1-7). Povertà nella strutturazione della chiesa significa anche chiesa non clericale ma che fa spazio ai laici, ai battezzati, che sono membri a pieno diritto della chiesa di Dio. Oggi siamo lontani, si spera, dalle concezioni clericali che si sono spinte fino al punto di affermare che la chiesa è soprattutto o è direttamente la gerarchia o il papa in persona. Un’espressione che p. Yves Congar definisce “spaventosa” risalente al XIII-XIV secolo dice: Papa ipse ecclesia. Queste aberrazioni nascevano dai conflitti con il potere temporale, conflitti che celavano spesso anche interessi economici. La parola chiesa significava in origine (e non ha mai smesso completamente di significare) la concreta comunità dei cristiani che si riuniscono attorno ai legittimi pastori che la nutrono con la celebrazione dei sacramenti e la governano. Nel conflitto con poteri temporali che minacciavano le libertà, i diritti, i privilegi ecclesiastici, il termine chiesa arrivava a indicare un soggetto sovrapersonale di diritti rappresentato dal clero e, in ultima e più alta istanza, dal papa. In questo utilizzo, la chiesa non è più il “noi ecclesiale”, la comunità dei cristiani che può essere chiamata a conversione, a vivere la lotta spirituale, a pentirsi dei peccati, ma una persona morale, una sorta di ragione sociale a cui non si pongono problemi di condotta evangelica (essere umile, essere povera, convertirsi) ma si pongono solo problemi di diritti. Una chiesa povera è una chiesa che sa vivere la partecipazione dei battezzati tutti alla propria vita. Sempre nella storia la struttura gerarchica della chiesa si è alleata con un principio di consenso e di partecipazione dei fedeli. In ogni celebrazione eucaristica il consenso dei fedeli è espresso dall’Amen. Pronunciare l’Amen significa sottoscrivere e dare il proprio consenso a quanto viene celebrato. L’Amen liturgico è un principio di consenso e associazione di tutti a ciò che alcuni o uno solo sta operando nello spazio liturgico: “Il vostro Amen, fratelli, è la vostra sottoscrizione, il vostro consenso, il vostro accordo” (Agostino, Discorso contro i Pelagiani 3). Del resto, ricorda il Vaticano II: “Le azioni liturgiche non sono azioni private … ma appartengono all’intero corpo della chiesa” (SC 26). Anche per ciò che riguarda il governo della chiesa l’antica tradizione ecclesiale ricorda l’importanza del consenso dei fedeli, dell’“approvazione di tutta la chiesa” (Prima Lettera di Clemente di Roma ai Corinti XLIV,3) per nomine, ordinazioni e conferimenti di incarichi e responsabilità ecclesiali. Circa l’ordinazione episcopale si afferma: “Sia ordinato vescovo colui che è stato scelto da tutto il popolo” (Tradizione Apostolica 2) e Leone Magno afferma che “ogni sacerdote destinato a governare una chiesa deve avere non solo l’approvazione dei fedeli, ma godere anche buona stima presso coloro che non sono cristiani … È nel consenso perfetto della volontà di tutti che viene ordinato colui che dovrà essere maestro della pace”. Il principio formulato è insomma che colui che dovrà esercitare la sua presidenza su tutti deve essere eletto da tutti (Lettera X,4). Anche per ciò che riguarda le grandi decisioni ecclesiali possiamo citare la testimonianza di Cipriano, vescovo di Cartagine nel III secolo, che, di fronte al problema di come comportarsi di fronte ai cristiani che durante le persecuzioni avevano apostatato, afferma suo dovere “studiare in comune ciò che è richiesto dal governo della chiesa e, dopo averlo esaminato tutti insieme, di pervenire a una decisione esatta … Infatti, fin dall’inizio del mio episcopato ho stabilito di non prendere decisioni privatamente senza il vostro parere e senza l’approvazione del popolo” (Lettera XIV,1.2.4). Se ripercorriamo testi di Cipriano e di Agostino, di Anselmo e di Tommaso d’Aquino, possiamo vedere che veniva riconosciuta ai fedeli la capacità di giudicare della vera fede insieme con il loro vescovo o addirittura della fede del loro vescovo[12]. Per questo la chiesa ha forgiato, fin dagli inizi, il convenire in sinodo quale momento basilare per la formazione del consenso. Il canone V del Concilio Niceno I (325) prescrive che in ogni provincia si svolgano due sinodi ogni anno, “uno prima della quaresima, perché, superato ogni dissenso, possa essere offerto a Dio un dono purissimo, l’altro in autunno”[13]. Un’antica attestazione della prassi sinodale riferisce che “i fedeli dell’Asia, dopo essersi riuniti più volte e in più luoghi della provincia, e dopo aver esaminato le recenti dottrine e averle dichiarate sacrileghe, condannarono quell’eresia (montanista)” (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica V,16,10). Il testo è interessante perché sottolinea la partecipazione dei comuni fedeli. Il Concilio Costantinopolitano II (553) afferma: “La verità non si può manifestare che in discussioni comuni riguardo alla fede, perché ciascuno ha bisogno dell’aiuto del suo prossimo, come dice Salomone nei Proverbi: il fratello che aiuta il fratello sarà esaltato come una città fortificata”[14]. In ogni caso, è interessante notare che “in nessun momento della sua storia la chiesa è stata senza assemblee, senza concili, senza sinodi”[15]. Il principio sinodale ha trovato una sua formulazione giuridica molto efficace nell’adagio, spesso ripetuto soprattutto nel XIII secolo, “quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet” (“ciò che riguarda tutti, deve essere discusso e approvato da tutti”)[16]. Tuttavia, questo principio, che suppone consigli e assemblee per il raggiungimento di un consenso, è stato cancellato - come ha ricordato p. Yves Congar - “dalla vittoria definitiva della dottrina romana della Monarchia pontificia”[17]. Ma se si sottolinea costantemente (e giustamente) che la chiesa non è una democrazia e che la sinodalità non può essere assimilata a una semplice democratizzazione, non si vede perché non si debba porre altrettanta decisione nel criticare il debito nei confronti del modello politico monarchico presente nella struttura di governo ecclesiale. Sollecitare la ripresa della prassi sinodale non significa augurarsi una democratizzazione della chiesa (la chiesa non è un’assemblea parlamentare o sindacale, ma eucaristica) e neppure rivendicare una ridistribuzione di potere, ma estendere a tutta la chiesa e a tutta quanta la sua vita che è unica e indivisibile, la dinamica della comunione. Dinamica che passa in modo particolare attraverso il potere della parola e l’arte della comunicazione. A mio parere la riscoperta della Parola di Dio nella Bibbia e nella Liturgia attuata dal Vaticano II non è andata di pari passo con l’adeguata valorizzazione della capacità di parola del credente. Per cui oggi il credente dialoga con il Signore con la lectio divina personale e in gruppi biblici, partecipa coscientemente al dialogo liturgico, ma poi si trova senza voce nell’ambito più quotidiano della fede e della vita ecclesiale. Si chiede con pertinenza Hervé Legrand: “È possibile che il modo in cui la chiesa è davanti a Dio non abbia alcuna corrispondenza sul piano delle istituzioni, o potrebbe perfino essere contraddetto dalle sue istituzioni?”[18]. “Povertà è anche il franco e schietto riconoscimento delle diversità, delle pluralità di pareri, a volte anche della formazione di maggioranze e di minoranze. Se non si accetta la povertà, non si accetta la pluralità, e tanto meno il disenso” (G. Campanini, Povertà della chiesa, povertà nella chiesa, in VC 2 2011, p. 101). Il Concilio Vaticano II ha significato per molti credenti la crescita di consapevolezza circa gli elementi teologici che sottostanno alla prassi della sinodalità: sacerdozio comune, valore della comunione, consapevolezza dei carismi; ha significato la scoperta e valorizzazione del sensus fidei fidelium e del discernimento di fede dei battezzati, come afferma Lumen gentium: “Il popolo santo di Dio partecipa alla funzione profetica di Cristo … La totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione dello Spirito santo non può sbagliarsi nel credere” (LG 12). Lo stesso Concilio ha ricordato che “i laici … hanno il diritto, anzi anche il dovere di far conoscere il loro parere su ciò che riguarda il bene della chiesa” (LG 37). Tuttavia alla volontà chiaramente sinodale del Concilio ha fatto riscontro un’attuazione decisamente deludente che ha suscitato estesa insoddisfazione: i motivi sembrano essere “la poca convinzione di molti pastori della chiesa, il persistente clericalismo, la debolezza dell’ordinamento canonico occidentale che ha accolto le posizioni del concilio riducendola ai suoi minimi livelli”[19]. Gli organismi sinodali sorti nel post-concilio a livello parrocchiale e diocesano non sono obbligatori, spesso non rappresentano la totalità dei battezzati e non vengono costituiti secondo il criterio eucaristico, ma secondo criteri burocratici e tenendo conto dei gruppi e movimenti presenti nella parrocchia o nella diocesi rischiando di divenire un ulteriore fattore di clericalizzazione; il sinodo dei vescovi non ha potere deliberativo e spetta solamente al Papa convocarlo quando egli lo ritenga opportuno e decidere gli argomenti da discutere (canoni 343 e 344 del Codice di Diritto Canonico); lo statuto teologico delle Conferenze episcopali appare molto debole rispetto a quello della sinodalità delle metropolie e dei patriarcati orientali. La carente sinodalità ha ripercussioni anche sul piano ecumenico: “Non sarà possibile nessun riavvicinamento reale sia con la chiesa ortodossa sia con le chiese della Riforma, se la responsabilità che intercorre fra uno, più o tutti i membri non trova una maggiore espressione rispetto a quella attuale”[20]. Certo, la sinodalità non è una panacea: nulla garantisce che un vescovo nominato al termine di un elaborato processo sinodale sia migliore di un vescovo scelto di autorità da uno solo … Inoltre la sinodalità deve fare i conti con il fatto che la responsabilità, come la libertà, è facile da rivendicare e difficile da portare. E che spesso, alla prova dei fatti, emergono resistenze e deleghe di fronte all’esercizio di responsabilità ecclesiali. Tuttavia la sinodalità esprime la comunionalità della chiesa ed aiuta una vita ecclesiale più conforme al Vangelo e più rispettosa dell’umano ricordando che ogni membro della chiesa è una persona ben più e ben prima che un ruolo o una funzione. Essa aiuta a vivere l’equilibrio fra autorità e partecipazione nella chiesa e ad articolare in modo adeguato parola di Dio e parola dell’uomo, nella convinzione che proprio la parola è il luogo dell’immagine divina nell’uomo. Essa può aiutare la chiesa a vivere al proprio interno relazioni meno preoccupate dell’efficienza e più umanizzate e così a narrare agli uomini l’evangelo, la buona notizia, con una comunicazione anch’essa buona. 3) Il denaro e i beni della chiesa Sociologicamente Gesù non era un misero, non era un paria della società, apparteneva, potremmo dire, al ceto medio dell’epoca (era un artigiano), ma la scelta di vita che ha fatto, il celibato e una vita itinerante comunitaria, ha avuto conseguenze sul piano economico con una vita segnata da precarietà, anche se godeva di appoggi, donne che servivano con i loro beni, case in cui poteva essere accolto. La sua predicazione, così reticente sui temi inerenti la sessualità, è invece debordante circa il rapporto con i beni e la ricchezza: dall’affermazione del primato del Regno di Dio (“Cercate prima il regno dei cieli e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta”: Mt 6,33) alla diffidenza verso la ricchezza, quasi personificata in mammona (“Non potete servire a Dio e a Mammona”: rad. aman, credere), dalla richiesta di una povertà radicale ai discepoli inviati in missione al comando di dare ai poveri, di condividere, comando ripreso da Ambrogio quando affermerà che aurum Ecclesia habet non ut servet sed ut eroget (“La chiesa possiede oro non per servirsene, ma per donarlo”), la predicazione di Gesù sull’uso dei beni è rigorosa, esigente, e colloca il discepolo e la chiesa nell’orizzonte dell’escatologia. Fin dall’AT (il peccato del vitello d’oro, mediato dalla compiacenza di Aronne) l’avidità e la brama di ricchezza e di potere (vitello: forza, potere; oro: ricchezza) sono debolezze tipiche della classe sacerdotale. Ora, io credo che concretamente, in una comunità cristiana, in una parrocchia alcuni elementi vadano ricordati. La trasparenza dei conti, la pubblicità dei bilanci in una parrocchia, la correttezza amministrativa, la regolarità fiscale, la destinazione di una somma per poveri o chiese povere, sono alcuni elementi che concorrono a quella trasparenza che lascia al presbitero la limpidezza di coscienza e impedisce la diffidenza o le accuse, ben sapendo che sul tema del rapporto con il denaro la chiesa gioca molta della sua credibilità presso le persone, presso l’uomo d’oggi. Il presbitero, in particolare, deve misurarsi su almeno tre fronti: l’uso dei suoi soldi personali, dei soldi della comunità parrocchiale, dei soldi erogati dallo Stato e dalla Chiesa. Paolo, nel suo testamento spirituale rivolto agli anziani di Efeso, afferma con fierezza: “Non ho desiderato né argento né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,33-35). La povertà è strettamente legata alla fraternità e alla vita di comunione. Gesù inviò i suoi discepoli in condizioni di estrema precarietà, proibendo loro di prendere oggi quello che poteva servire loro domani, ma li mandò “due a due”, essendo evidente che la loro stessa fraternità, la loro carità è il primo annuncio del regno di Dio. In casi di parrocchie in cui vi siano più preti, certamente una cassa comune può essere una forma di condivisione e di attuazione di un uso evangelico dei beni. La capacità di accoglienza, di fare spazio a poveri, di dare ospitalità a chi ne ha bisogno, di dare tempo e ascolto a chi lo mendica, è possibile a chi è povero e vive una concreta spogliazione. Il decreto conciliare Presbyterorum ordinis al n. 17 (che si occupa della povertà volontaria e dell’atteggiamento verso i beni terreni) esorta così i presbiteri: “Non trattino l’ufficio ecclesiastico come occasione di guadagno, né impieghino il reddito che ne derivi per aumentare le sostanze della propria famiglia. I sacerdoti, quindi, senza affezionarsi in modo alcuno alle ricchezze, debbono evitare sempre ogni bramosia e astenersi accuratamente da qualsiasi tipo di commercio”. L’avidità, l’avarizia, la brama di possedere e di accumulare beni e denaro può insinuarsi nella vita di un presbitero: e più l’età avanza più la tentazione può farsi strada. La paura del futuro, il timore derivante dal pensiero della vecchiaia, dell’incertezza di ciò che il domani può riservare, di eventuali malattie e ricoveri, l’angoscia di dover dipendere da altri, può ingenerare una brama di accumulo che va oltre la buona previdenza, e diventa una maniera di scongiurare il futuro e la morte. Le condizioni psicologiche che ingenerano l’avarizia sono ben espresse da Evagrio Pontico: “L’avarizia lascia intravedere una vecchiaia lunga e la debolezza delle braccia nel compiere lavori faticosi e la possibilità della fame e di future malattie e i dolori della povertà, e lascia pure prevedere quanto sarà avvilente ricevere dagli altri quello che dovrà servire alle proprie necessità” (Praktikòs 9). Ovviamente, solo un’adeguata qualità relazionale e fraterna della vita può aiutare a far fronte a tali giustificati timori. Scindere in modo assoluto l’amministrazione dei sacramenti e le celebrazioni liturgiche, che tutte annunciano la gratuità di Dio in Gesù Cristo, dalla richiesta di pagamento è condizione essenziale per la verità di ciò che si celebra e per la credibilità stessa del celebrante. Lì emerge come la gratuità del ministero (“gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”: Mt 10,8) non sia fatto semplicemente personale, ma ecclesiale. Nella sessione del Concilio di Trento (traslato a Bologna) del 1547 circa la riforma dei sacramenti, si discusse sulla liceità o meno del petere e dell’accipere: si poteva chiedere o anche solo ricevere qualche cosa in occasione dell’amministrazione dei sacramenti? Se nessuno sosteneva la liceità del petere, le discussioni sull’accipere furono sottili, ma va ricordata la posizione di Seripando che voleva tagliare alla radice il problema definendo “eretico e sacrilego” ogni tintinnio di monete intorno all’altare e va ricordata l’espressione intrisa di zelo evangelico che affermava che ormai “non possiamo più dire allo storpio: alzati, perché siamo pieni di oro e di argento”. Di tutto questo non restò praticamente nulla al termine del Concilio. Iniziative che la chiesa come tale, gratificata ora da un notevole gettito garantito dall’8 per mille, potrebbe assumere, sono quelle di una significativa riduzione dall’8 al 5 per mille, sollecitando una più evangelica responsabilità delle comunità cristiane per la vita delle istituzioni cristiane a partire dalle parrocchie. Siamo in un sistema di delega allo Stato del mantenimento della Chiesa: assumere direttamente la consapevolezza che è il “noi” ecclesiale soggetto e responsabile della chiesa, non potrebbe che fare del bene. Ci sono spese per chiese nuove, per santuari faraonici, per opere che sembrano non in linea con i tempi e con la sobrietà che deve caratterizzare lo stile di vita del credente. Tentazione contro la povertà è quella che emerge già nel cap. 23 di Matteo dove Gesù denuncia il clericalismo ante-litteram di coloro che amano i primi posti e i titoli onorifici. Nella chiesa indubbiamente logiche di potere e di affermazione di sé, di concorrenzialità e carrierismo non sono mai venute meno. Insegne e vesti liturgiche, suppellettili liturgiche e arredi sacri, titoli ecclesiastici e simboli della dignità ecclesiastica stanno ritrovando una spiacevolissima ripresa e godono di un rinnovato e assai dubbio favore. Calzature e abiti, pizzi e merletti, mitre e pastorali preziosi e perfino lussuosi, sono di nuovo in voga con il pretesto che così si onora il Cristo. Ma per quanto il calix debba essere praeclarus non si può dimenticare che il Cristo non smette di essere povero quando è celebrato liturgicamente. Ambrogio, il Crisostomo, Gerolamo e altri hanno parole di fuoco contro chi usa suppellettili preziose quando ci sono dei poveri che muoiono di fame e di freddo. Ambrogio esorta: “Non esitare a vendere i vasi sacri per soccorrere i miseri”. Gli atteggiamenti esteriori influenzano profondamente l’abito mentale, il cuore. Scrive sempre p. Congar: “Si può beneficiare ordinariamente di privilegi senza arrivare a pensare che siano dovuti, vivere in un certo lusso esteriore senza contrarre certe abitudini, essere onorati, adulati, trattati in forme solenni e prestigiose, senza mettersi moralmente su di un piedistallo? Èpossibile sempre comandare e giudicare, ricevere uomini in atteggiamento di richiesta, pronti a complimentarci, senza prendere l’abitudine di non più veramente ascoltare? Si può, infine, trovare davanti a sé dei turiferari senza prendere un po’ il gusto dell’incenso?”. La sobrietà e povertà liturgica è un nodo essenziale della povertà della chiesa e oggi questo è gravemente disatteso. Vesti e titoli sacerdotali (il pontifex) sono ripresi dalle usanze imperiali romane, dalle famiglie sacerdotali della’antica Roma. Sappiamo che il titolo di Eccellenza per il vescovo risale all’epoca fascista per non attribuirgli un onore inferiore a quello accordato da Mussolini ai suoi prefetti. Bernardo, scrivendo a papa Eugenio III (XII secolo) e dice: “quando il papa vestito di seta, coperto d’oro e di pietre preziose, avanza cavalcando un cavallo bianco, scortato da soldati e da servi, assomiglia più al successore di Costantino che al successore di Pietro. Bernardo critica anche i vescovi coperti di pelli di ermellino rosso: sembra di vedere degli sposini nel giorno delle nozze; critica gli abati che ottengono dalla santa sede il diritto di portare come i vescovi, mitra, anello, sandali. Giovanni XXIII aveva detto che era tempo di “scuotere la polvere imperiale che s’è depositata sul trono di san Pietro”. L’impressione è che dagli anni di Giovanni XXIII se ne sia accumulata altra. Per una riforma della chiesa La povertà resta per la chiesa in occidente, ovvero in un contesto ricco ed opulento, una spina nel fianco della chiesa. L’ideale della chiesa primitiva, dove tutto era comune tra i credenti, come appare dei sommari degli Atti degli Apostoli, sarà anche una idealizzazione lucana, ma resta un dato propulsivo che inquieta la coscienza cristiana e la spinge a cercare e a trovare una forma di risposta adeguata a tale appello. Ora, riforma è atto di semplificazione, essenzializzazione, di ritrovamento del centro e dell’irrinunciabile evangelico. Riformare assomiglia più a un togliere che a un aggiungere. Assomiglia a un atto di ablatio, analogo a quello che compie lo scultore che deve solo liberare e far emergere la statua dal masso informe di marmo che ha davanti: il suo lavoro sarà quello di togliere perché si manifesti la nobilis forma già presente nel masso. La povertà non è solo un fine, ma il mezzo stesso, la via stessa della riforma. Che riguarda anche tutto il corpo ecclesiale, perché la riforma non può essere parziale, ma deve riguardare la fede e i costumi, il capo e le membra, il papato, le gerarchie e i semplici fedeli (cf. UR 5), secondo l’auspicio del Concilio di Costanza (1414-1418) che voleva che la chiesa fosse radicalmente riformata in fide et in moribus, in capite et in membris. Importante, a questo proposito, il monito che san Bernardo rivolse a papa Eugenio III (1145-1153): “Considerati come un profeta. Non ti è forse sufficiente? Lo è anche troppo. Èla grazia di Dio che t’ha fatto quel che sei. Che cosa sei? Sii quel che è un profeta; o forse sei più che un profeta? Se hai giudizio, ti terrai soddisfatto della misura che t’ha dato Iddio. Quel che è si più, viene dal maligno. Impara dall’esempio dei profeti a presiedere, non tanto per signoreggiare sugli altri, quanto piuttosto per realizzare quello che i tempi richiedono (quod tempus requirit). Sappi che ti è necessaria la zappa, non lo scettro, per agire come profeta” (De consideratione II,6,9). Si tratta di cogliere la dimensione profetica della riforma e la dimensione storica della chiesa, non solo il suo esistere nella storia, ma il suo divenire storico, nella società, nel tempo, nella cultura, il suo riflettere la luce dell’Evangelo nelle contingenze storiche e nelle differenti culture. Il testo di Bernardo pone la chiesa in atteggiamento di ascolto di ciò che i tempi dicono e ri-chiedono: quod tempus requirit. La situa in atteggiamento dialogico e responsoriale nei confronti della storia e dell’umanità tutta. E la situa in quella che il Concilio Vaticano II definisce la “continua riforma” (perennis reformatio) a cui la chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo (UR 6). Se la riforma dev’essere continua, non può essere episodica, ma tendere alla quotidianità: il perennis deve declinarsi come cotidianus, come azione di ogni giorno, come ricerca di conformità all’Evangelo nella vigilanza e nella perseveranza quotidiana. La vigilanza, attenzione al tempo e alla storia, agli uomini e al mondo, e alla presenza di Dio nel mondo e nella storia, qualità profetica quant’altre mai, è atteggiamento spirituale decisivo per un lavoro di riforma. Lavoro che, se ricondotto a pratica quotidiana e ordinaria, può forse anche conoscere un ridimensionamento di attese spropositate, una sua demitizzazione, e forse anche trovare la sua dimensione di impossibile praticabile. Impossibile, perché la piena conformazione all’Evangelo resta sempre a venire, praticabile, perché la tensione verso la maturità cristiana ed ecclesiale è possibile, anzi doverosa. Riforma diviene così metodo, cammino fatto insieme, che mantiene la chiesa nella tensione vivificante di chi, cosciente della propria costitutiva imperfezione, cammina per “raggiungere la misura che corrisponde alla piena maturità di Cristo” (Ef 4,13). Ciò che il tempo richiede. Siamo partiti da come la povertà evangelica interpella l’uomo d’oggi, al termine del nostro percorso ci troviamo di fronte a un ribaltamento della prospettiva: l’uomo d’oggi interpella la chiesa. Èil tempo stesso, l’oggi, l’uomo d’oggi che chiede, che pone domande, che interpella la chiesa, che interpella noi. Ci interpella su cosa abbiamo fatto del lascito della povertà evangelica. Perché solo una chiesa povera è anche in grado di suscitare speranza. Che è ciò di cui ha bisogno il mondo e ogni uomo. 
Cagliari, 14 giugno 2012 
 [1]H. Fielding, A proposal for Making an Effectual Provision for the Poor, in Id., Works, XIII. Legal writings, F. Cass & Coltd, New York 1902, p. 141. Cf. B. Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 254. 
[2]C. I. Waxman, The stigma of poverty, Pergamon Press, New York 1976. Cf. G. Iorio, “Presentazione”, in G. Simmel, Il povero, Armando Editore, Roma 2001, p. 27. 
[3]Ha scritto Primo Levi riferendosi ai militari russi che entrarono nel Lager, ormai abbandonato dai nazisti, il 27 gennaio 1945: “Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, e ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altri, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa” (P. Levi, La tregua, Einaudi, Torino 1971, pp. 10-11). 
[4]In AAvv. Chiesa per il mondo. II. Fede e prassi, ADB, Bologna 1974, pp. 537-538. 
[5]E. Lévinas, Dell’evasione, Cronopio, Napoli 2008, p. 32. 
[6]L. Wurmser, “La struttura della vergogna”, in S. Levin, L. Wurmser, La vergogna, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 105. 
[7]Cf. Id., “Exclusion et charité”, in La charité. L’amour au risque de sa perversion, a cura di O. Gandon, Éditions Autrement, Paris 1993, pp. 181-182. 
[8]Benedetto XVI, Deus caritas est 28, p. 1069, nr. 1584.
[9]Ibid. 
[10]I. Illich, Pervertimento del cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su vangelo, chiesa, modernità, Quodlibet, Macerata 2008, p. 23.
[11]Ibid., pp. 23-24. 
[12]Cf. testi in H. Legrand, «La sinodalità, dimensione inerente alla vita ecclesiale. Fondamenti e attualità», in Vivens Homo 16/1 (2005), p. 28, nota 69. 
[13]Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura dell’Istituto per le scienze religiose, edizione bilingue, Dehoniane, Bologna 20022, p. 8. 
[14]Ibidem, p. 108. 
[15]Cf. Legrand, «La sinodalità, dimensione inerente alla vita ecclesiale. Fondamenti e attualità»,cit., p. 8. [16]Cf. Y. Congar, «Quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet», in Revue historique de droit français et étranger 36 (1958), pp. 210-259. 
[17]Ibidem, p. 258. 
[18]Legrand, «La sinodalità al Vaticano II e dopo il Vaticano II. Un’indagine e una riflessione teologica e istituzionale», cit., pp. 73-74. 
[19]S. Dianich, «Sinodalità», in Teologia (Dizionari San Paolo), a cura di G. Barbaglio, G. Bof, S. Dianich, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2002, p. 1525. 
[20]Legrand, «La sinodalità, dimensione inerente alla vita ecclesiale. Fondamenti e attualità»,cit., p. 26.
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