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Quale giustizia senza perdono? (Enzo Bianchi)

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Avvenire, 27 agosto 2011

Perché il perdono è un tema così decisivo nella nostra vita umana e cristiana? Perché la nostra vita conosce il male, questa contraddizione, questa negazione del bene che non possiamo rimuovere né negare. Il perdono ha a che fare con il male, il male che noi facciamo a noi stessi e aglialtri, il male che gli altri ci fanno. Il male – nelle sue varie forme del cattivo pensare, del malvagio agire, dell’offensivo parlare – è una realtà nella nostra vita e nelle nostre relazioni. Il male – dice Gesù – è ciò che nasce dal nostro cuore e diventa aggressività, violenza, odio verso gli altri e verso noi stessi (cf. Mc 7,20-23; Mt 15,18-20). Il male è ciò che io faccio nonostante voglia fare il bene, confessa l’Apostolo Paolo (cf. Rm 7,18-19). Non a caso le domande che rivolgiamo a Dio nel Padre nostro, la preghiera insegnataci da Gesù, sono: «Non abbandonarci alla tentazione» e «Liberaci dal male» (Mt 6,13); e queste richieste sono precedute da quella del perdono di Dio, invocato perché ci renda capaci di perdonare i nostri fratelli: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12).
Il male come azione malvagia compiuta da noi esseri umani ci accompagna per tutta la vita. Nel quotidiano il più delle volte non è epifanico, non ha conseguenze vistose; in alcune circostanze invece esplode e ci spaventa, provocando in noi indignazione. In ogni caso, il male è sempre banale… L’uomo si abitua al male, e soprattutto la violenza può nutrire il male, farlo crescere fino alla negazione dell’altro, degli altri. Siamo sinceri con noi stessi: non arriviamo talvolta alla tentazione di voler vedere scomparire chi ci è nemico, di voler vedere escluso dal nostro orizzonte un altro che ci ha fatto del male? Non siamo tentati di ripagare con lo stesso male chi ci ha fatto del male? Non giungiamo perlomeno a sperare il male per chi ci ha fatto soffrire?
Questo è il nostro istinto di conservazione: vogliamo vivere e vivere ogni costo, anche senza gli altri e magari contro gli altri. Siamo tutti malati di philautía, l’egoistico amore di noi stessi, e quando siamo offesi il nostro istinto è quello di difenderci attaccando, non diversamente dagli animali. Siamo tentati di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, alimentando così una spirale di odio e di vendetta che ben presto finisce per mostrare la sua qualità mortifera. Noi esseri umani, in verità, sappiamo che per intraprendere il cammino di umanizzazione in vista di una vita piena di senso, di una vita segnata dalla qualità della convivenza, dobbiamo impedire la vittoria del male su di noi e la spirale di violenza che ne consegue: è qui che si colloca il perdono, che è innanzitutto, umanamente, un’interruzione del male, un porre un argine al male, un dire no a una logica di morte.
Gesù con la sua vita ha cercato di narrarci questo volto di Dio fino a vivere lui stesso, in prima persona, il perdono fino all’estremo. Perdono donato anche ai suoi carnefici, ai suoi aguzzini, a quanti lo hanno condannato a morte, a quanti lo hanno angariato durante la sua esecuzione: «Padre, perdona loro perché non sanno né quello che dicono né quello che fanno» (cf. Lc 23,34). Proprio per aver ricevuto la testimonianza e l’insegnamento di Gesù, Paolo nella Lettera ai Romani ha potuto rivelarci Dio quale fonte di ogni perdono. Ascoltate questo straordinario annuncio dell’Apostolo: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Rm 5,8-10). È una scandalosa simultaneità: mentre noi odiamo Dio, Dio ci ama e ci perdona; mentre noi siamo peccatori, Dio ci riconcilia con sé. Questo è il cristianesimo, a tal punto che Hannah Arendt, una filosofa ebrea e non credente, è giunta a scrivere: «A scoprire il ruolo del perdono nell’ambito delle relazioni umane fu Gesù di Nazaret» (Vita activa. La condizione umana V,33 [orig., 1958; Bompiani, Milano 200814, p. 176]). Questo è lo scandalo della croce di Cristo (cf. 1Cor 1,23), e solo nella folle logica della croce (cf. 1Cor 1,18.23.25) si può comprendere il perdono di Dio verso di noi, e quindi il nostro perdono verso noi stessi e gli altri.
Ma nel nostro cuore, di fronte a questo perdono così radicale ed esteso, sorge una domanda, un dubbio: e la giustizia? Sentiamo dire:misericordia, perdono; e ci chiediamo: sì, ma la giustizia? Certo, la giustizia è anch’essa un attributo del Nome di Dio («… non lascia senza punizione, castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione»: Es 34,7). Ma guai a noi se misurassimo la giustizia di Dio con i nostri criteri umani, se proiettassimo in Dio la nostra giustizia. La giustizia degli uomini è necessaria, è capace di arbitrare, di sanzionare il male, talvolta anche di arginarlo; ma solo la misericordia sa rendere all’uomo la sua dignità, sa fare del colpevole una creatura nuova, perché l’uomo ha bisogno certamente della giustizia, ma anche dell’amore e della gratuità del perdono. Solo la misericordia permette di fare giustizia senza vendicarsi, senza umiliare il colpevole, e di perdonare senza svuotare la legge, il diritto. Noi cristiani dobbiamo fare un ulteriore passo avanti nella comprensione della giustizia e nel cammino di umanizzazione. È stato il beato Giovanni Paolo II a farci il dono di aprire il cammino alla comprensione di come sia possibile coniugare insieme perdono e giustizia.
Nel suo Messaggio per la giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2002 egli ha innanzitutto confessato che, confrontandosi con la Parola di Dio contenuta nelle sante Scritture, era giunto a comprendere che il Vangelo esige che il principio «perdono» sia immanente al principio «giustizia» (cf. § 2). Così ha potuto coniare un’affermazione lapidaria, che dà il titolo all’intero suo testo: «Non c'è pacesenza giustizia, non c'è giustizia senza perdono». Questo il messaggio annunciato ai cristiani e anche ai non cristiani, messaggio straordinario che osa chiedere a tutti una prassi di perdono affinché sia possibile edificare insieme una polis, una città segnata da giustizia, pace, solidarietà comune. Ma Giovanni Paolo II con forza e audacia ha anche chiesto che l’esercizio del perdono non avvenga soltanto a livello personale, ma sia una virtù proposta all’intera comunità civile. Così scriveva: “Solo nella misura in cui si affermano un’etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una «politica del perdono», espressa in atteggiamenti sociali e istituti giuridici, nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano” (ibid.§ 8).
Questa la risposta vera alle patologie della società, ai conflitti che dividono gli uomini e li contrappongono tra loro. L’ordine sociale e la costruzione della polis non possono avvenire senza coniugare tra loro giustizia e perdono. In quest’ottica – lo ripeto – è particolarmente necessario situare il perdono anche nell’ambito giuridico: occorre sì arginare e disarmare il colpevole, occorre anche la detenzione per impedirgli di reiterare i delitti; ma nello stesso tempo occorre pensare a una rieducazione, ad apprestare un cammino di umanizzazione e di reinserimento nella società, mostrando anche la possibilità di un perdono, di un condono. Nel contesto politico, già ad Atene, nell’antichità, si conosceva la legge dell’amnistia, con lo scopo della riconciliazione tra partiti politici e della pace nella polis. Nel contesto economico, il perdono può essere esercitato con la remissione del debito dei paesi poveri, dando loro la possibilità di un’economia che conosca uno sviluppo.
Sì, il perdono, come ha detto Giovanni Paolo II («Le famiglie, i gruppi, gli stati, la stessa comunità internazionale, hanno bisogno di aprirsi al perdono per ritessere legami interrotti, per superare situazioni di sterile condanna mutua, per vincere la tentazione di escludere gli altri non concedendo loro possibilità di appello. La capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale»:ibid.§ 9), a livello giuridico, politico ed economico internazionale non è solo un atto che vuole dimenticare un passato che altrimenti potrebbe solo alimentare il conflitto, ma è un atto che apre un nuovo futuro. Perdonare è prendere coscienza che è necessario rinnovare la comunicazione, la relazione con l’altro, per non negarlo, per non lasciarlo nella condizione di nemico. Si pensi al perdono reciproco che si è attuato tra neri e bianchi in Sudafrica o a quello assolutamente necessario tra ebrei e palestinesi al fine di giungere a una pace vera e duratura. Il cammino del perdono è il cammino dell’umanizzazione, è il cammino di Dio per noi uomini. 

Enzo Bianchi



Fonte: monasterodibose
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