11 agosto 2011, S. Chiara (omelia Ludwig Monti)
Il suo amore porterà a compimento il nostro amore
«Ama dal profondo del tuo cuore, con tutte le tue viscere, Dio e Gesù suo Figlio, crocifisso per noi peccatori, e non cada mai dalla tua mente la memoria di lui» (Chiara d’Assisi, Lettera a Ermentrude 11).
Questo scriveva in una lettera Chiara di Assisi, echeggiando la richiesta di Gesù che abbiamo ascoltato: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle … non può essere mio discepolo». Ecco la via semplice e luminosa nella quale questa monaca, da noi invocata nelle litanie dei santi come «Vangelo radicalmente vissuto», ha appunto vissuto il Vangelo e ha insegnato a fare altrettanto alle sue sorelle: l’amore per il Signore Gesù Cristo, un amore che esige di «odiare», alla lettera, cioè di «amare meno» di Gesù i nostri affetti più cari. Per dirla con il linguaggio monastico, è questa l’istanza dell’apotaghé, della rinuncia, su cui abbiamo meditato comunitariamente la settimana scorsa.
Il vangelo odierno ci fa comprendere che la rinuncia è solo una questione di amore per Gesù Cristo. E lo fa riportando parole di Gesù che presentano una dettagliata enumerazione, la quale unisce la famiglia di provenienza e quella di nuova formazione, compresa quel particolarissimo tipo di famiglia che è la comunità monastica: per noi monaci ciò significa anche che dobbiamo amare Gesù più di ogni fratello e sorella. Si faccia però attenzione: Gesù non esige per sé un amore totalitario, che escluda i nostri amori umani. Non chiede di essere amato lui solo: chiede solo (!) che il discepolo ami lui più di tutti i suoi amori. Chiede – si potrebbe anche dire – di vivere tutti i nostri amori attraverso l’amore per lui, di amare gli altri con l’amore che abbiamo per lui: un’arte che richiede l’intera vita per essere appresa ed esercitata, con risultati alterni.
Come se ciò non bastasse, Gesù fa un’ultima precisazione: «chi non odia … perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Anche in questo caso non c’è nessun invito all’auto-distruzione. No, Gesù fa un’offerta liberante: esorta a spogliarsi da quell’attaccamento egoistico alla propria vita che conduce l’uomo, anche chi si professa a cristiano, a ripiegarsi su se stesso, a vivere, al limite, etsi Christus non daretur. Esorta chi vuole essere suo discepolo a sperimentare che «il suo amore vale più della vita» (cf. Sal 63,4) fino, se necessario, a dare puntualmente per lui la vita.
Ecco ciò che davvero dovrebbe colpirci in queste parole di Gesù: non la loro apparente durezza, ma il fatto che egli non abbia preteso l’amore per il suo messaggio, bensì l’amore per la sua persona. È amando Gesù che noi possiamo amare Dio stesso «con tutto il cuore, la mente e le forze» (cf. Dt 6,5; Lc 10,27 e par.). Amare Gesù più di tutto e di tutti, amarlo anche più di Dio stesso: questo il vero paradosso contenuto nella richiesta di Gesù; questa l’unica condizione di una rinuncia che apre a un amore e a una libertà più grandi; questo l’unico calcolo da fare per renderci conto se siamo in grado almeno di iniziare la sequela di Cristo, confidando che il suo amore per noi la porterà a compimento (cf. Fil 1,6).
Lo aveva ben compreso Chiara, quando scriveva ancora: «Alza, o carissima, i tuoi occhi al cielo che ci invita, prendi la croce e segui Cristo che ci precede. Dopo le molte e varie tribolazioni, infatti, è attraverso di lui che entreremo nella sua gloria» (ibid. 9-10). È il suo amore fedele che porterà a compimento il nostro povero amore.