"Una fede senza paura" (Enzo Bianchi)
“Nolite timere vos!, Non abbiate paura!”. È l’annuncio degli angeli alle donne recatesi al sepolcro nel mattino di Pasqua, l’invito che precede persino la “buona notizia” che il Signore è risorto! E “non abbiate paura!” è l’esortazione con cui Giovanni Paolo II ha aperto il suo pontificato in quella sera del 18 ottobre 1978. Non un generico invito a “farsi coraggio”, ma un radicare l’atteggiamento del cristiano nel mondo alla fede salda nella risurrezione, un dare fondamento a quel “aprite, spalancate le porte a Cristo” che ha costituito fin da subito un leit motiv del ministero petrino esercitato dal papa polacco che oggi viene proclamato beato.
Cristiano, prete, vescovo e papa animato da una fede confessante, dalla franchezza e della fierezza nel professare il proprio credo, Karol Woytjla era condotto proprio da questa fede nella risurrezione ad andare verso tutti, a non aver paura di incontrare anche chi avrebbe potuto essergli ostile o nascondere secondi fini: forte della sua fede, incontro e dialogo lo assicuravano sull’esito, lo spingevano all’audacia. Per questo avrebbe voluto spingersi fino alla Cina, dove i cristiani continuano a essere perseguitati, per questo non ha temuto il dialogo con le altre religioni, per questo ha incoraggiato l’apertura ecumenica della chiesa cattolica: dall’incontro, dal dialogo che non dimentica la giustizia e i diritti delle vittime potevano solo nascere frutti positivi. Sì, quella fede in nome della quale continuava a chiedere ai cristiani “non abbiate paura!” non permetteva a lui per primo di avere paura. Di fronte alla secolarizzazione dilagante in occidente, davanti alla sfida rappresentata dal confronto con l’islam, nel faccia a faccia con i poteri di questo mondo capaci di decidere guerre preventive e di dimenticare i poveri della terra, Giovanni Paolo II non ha avuto paura e ha esortato tutti a non avere paura.
Uomo di intensa vita interiore, cristiano impregnato di preghiera, era fermamente convinto che la preghiera, lungi dall’essere evasione, è invece una componente della storia, una forza capace di rendere possibile l’impossibile. Nel vederlo raccolto in preghiera per poi immergersi nel contatto con le folle, nella vicinanza ai più piccoli o nell’incontro con i grandi della terra si aveva l’impressione che da quell’atteggiamento di costante orazione egli uscisse per agire e poi lì rientrasse, come in uno spazio di maggior intimità con Dio e con la sua parola, in una dimensione di autentica contemplazione cristiana che lo aiutava a discernere le realtà con lo sguardo stesso di Dio. Sì, l’eloquenza della sua fede sgorgava da quell’habitare secum, da quel sapersi raccogliere in preghiera per rileggere il vissuto e per ricomporre i molteplici eventi della vita in un’armonia sinfonica.
E sono questi due elementi – l’intensità della preghiera e la fede senza paura, certa di poter “spostare le montagne” – che ritrovai nel suo sguardo e nelle sue parole l’ultima volta che ebbi modo di incontrare Giovanni Paolo II. Era l’agosto 2004 e il papa, già fortemente debilitato dalla malattia, riceveva la delegazione che a nome suo avrebbe restituito al patriarca Alessio II di Mosca l’icona della Vergine di Kazan’. Volle collocare in una dimensione di preghiera la consegna di quell’immagine sacra e il mandato che ci affidava, togliendolo dalla scontata routine diplomatica di un regalo prezioso per collocarlo in una dimensione di fede, di speranza e di carità. In quel gesto c’era sì l’ardente desiderio di legami fraterni con la chiesa ortodossa, la consapevolezza che ormai un viaggio a Mosca non sarebbe più stato realizzabile, la convinzione che la reciprocità non è virtù cristiana, ma c’era soprattutto la volontà di far spazio ancora una volta alla preghiera perché fosse il Signore stesso a portare a compimento quello che noi uomini, e lo stesso papa, possiamo solo iniziare. “Grazie!” – gli dissi semplicemente quando mi avvicinai a lui nel corso di quella liturgia – Grazie, Santità, per questo gesto evangelico e gratuito”. E il papa, con forte determinazione mi disse: “Coraggio, vada avanti sul cammino dell’ecumenismo!”.
L’eredità di quel confessore della fede che è stato Giovanni Paolo II ci chiede di affrontare senza paura la sfida sempre rinnovata di testimoniare, anche attraverso l’unità dei discepoli di Cristo, il messaggio di amore del cristianesimo, ci chiede di riprendere nell’oggi della nostra storia quell’invito lanciato dalla loggia di San Pietro in un italiano ancora indeciso: “Permettete a Cristo di parlare all’uomo. Perché Dio sa cosa c’è nel cuore dell’uomo!”.
Enzo Bianchi
Fonte: monasterodibose