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Domande della Via Crucis (Gianfranco Ravasi e Massimo Cacciari)

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Il confronto tra il cardinal Giancarlo Ravasi e il filosofo Massimo Cacciari. Due riflessioni sulla Via Crucis, scritte per Avvenire.

Una parabola che dalla Spagna del ’400 giunge fino a noi
Nella memoria visiva di tutti la Via Crucis ha, come riferimento emblematico, l’evento serale che, ormai da anni, il Venerdì santo si celebra al Colosseo, con la presenza del Papa, sotto i riflettori della televisione.
Pochi, però, sono a conoscenza del fatto che le «stazioni» che costellano quell’anfiteatro romano furono insediate il 27 dicembre 1750 da un frate minore francescano, il ligure san Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751). Egli era stato per oltre quarant’anni il predicatore più acclamato d’Italia, che percorreva in lungo e in largo con le sue «missioni» (ne tenne 343), e spesso suggellava questi corsi di predicazione popolare con l’erezione di una Via Crucis (ne istituì ben 572!) dando impulso a una pratica devozionale che risaliva ai secoli precedenti.

Il primo a codificare in senso stretto questa sequenza di soste oranti o «stazioni» che rappresentavano i vari eventi (evangelici o apocrifi) delle ultime ore della vita di Cristo pare sia stato il beato domenicano spagnolo quattrocentesco Alvaro di Cordova che, al ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta, volle perpetuare il ricordo di quella sua esperienza spirituale-topografica. In realtà la sorgente più remota di una devozione che scandisce ancor oggi la pietà popolare è da ritrovare nei secoli delle Crociate, tra i secoli XII e XIV; allorché combattenti e pellegrini, rientrando nelle loro terre con gli occhi e la mente ancora segnati dalla visione dei luoghi santi – in particolare di quelli che scandivano le ultime ore terrene di Gesù – ne volevano simbolicamente riprodurre la memoria all’interno del loro spazio quotidiano. Fu così che progressivamente quasi tutte le chiese furono marcate da raffigurazioni o da croci lignee che riproponevano quelle scene, dapprima in un numero variabile (di solito sette), poi codificate nelle classiche quattordici «stazioni».


Ma risaliamo alla vera e ultima radice generativa di questa devozione che, per altro, ha conquistato anche la storia dell’arte. C’è nella città vecchia di Gerusalemme una strada che porta ancor oggi il nome latino di Via Dolorosa. Su di essa, in una giornata primaverile di un anno tra il 30 e il 33, avanzava un piccolo corteo, guidato da un centurione romano, con l’incarico di exactor mortis: egli era, cioè, il responsabile dell’esecuzione capitale di un condannato al servile supplicium (come già lo definiva Cicerone), la pena riservata a schiavi e a rivoluzionari antiromani, la crocifissione.

Ancor oggi i pellegrini, più o meno lungo lo stesso tracciato, avanzano reggendo in spalla una croce di legno, riproducendo e rivivendo quella vicenda, come diceva in un verso del suo Évangéliaire (1961) il poeta francese Pierre Emmanuel: «È da duemila anni che i tuoi passi sanguinano per le strade, o Signore». In realtà il condannato procedeva, già stremato dalla tortura delle flagellazioni precedenti, reggendo solo il patibulum, ossia il braccio trasversale di quella croce il cui palo verticale era già piantato lassù, tra le pietre di un piccolo promontorio roccioso, sito fuori le mura di Gerusalemme e denominato in aramaico Golgota e in latino Calvario, cioè «Cranio», forse per la sua configurazione esteriore.

Era questa, per Gesù di Nazaret, l’ultima tappa di una vicenda che poi sarebbe divenuta celebre nella storia dell’umanità, iniziata nell’oscurità cupa della sera precedente, sotto le fronde degli ulivi di un campo chiamato Getsemani, cioè «frantoio per olive», che si stendeva a est della città santa, oltre il torrente Cedron («l’oscuro»), ai piedi del monte degli Ulivi. Una storia che si era dipanata in modo accelerato anche nei palazzi del potere religioso, il sinedrio ebraico, e politico, il pretorio romano, davanti al governatore imperiale Ponzio Pilato. Tutto poi si era consumato su quel colle durante una lunga agonia.

La Via Crucis rimane, comunque, il simbolo non solo di una storia passata, ma anche di un’esperienza universale e perenne di dolore e di morte, di fede e di speranza. Come non ricordare la scena emozionante di Gesù che avanza reggendo la croce coi piedi che affondano nella neve della pianura russa, lasciando orme insanguinate, così come l’ha rappresentato Tarkovskij nel suo Andrei Rublev (l969)? O come non citare il Cristo in croce di Borges: «La nera barba pende sopra il petto. / Il volto non è il volto dei pittori. / È un volto duro, ebreo. / Non lo vedo / ma insisterò a cercarlo / fino al giorno / dei miei ultimi passi sulla terra»?

In questa luce la Via Crucis, pur nella sua sacralità devozionale e nell’identità cristiana della sua trama, può diventare una parabola che parla a tutti, evocando la prevaricazione del potere e l’ingiustizia, l’odio e l’amore, la vita e la morte, il dolore e la speranza, la storia e la trascendenza.
Gianfranco Ravasi

L’evento di quella Croce segna il cuore di un’intera civiltà
Via Crucis. La via-Croce abbraccia in sé, in uno, memorie, tormenti, attese della vita storica nel suo immanente trascendersi così al Dio «nei cieli», come al Male, allo spirito della dissoluzione. La Croce manifesta l’insuperabilità di questi possibili – e chiama a decidersi, alla krisis. Segno di contraddizione, che esige, in uno, decisione. Segno perciò assolutamente dinamico, immaginabile soltanto nel suo perenne ri-volgersi.

Crocifisso è chi è fisso al contraddirsi di queste vie – ma in quanto Logos, e cioè come quella vivente energia che le accoglie e raccoglie, che le «salva» in sé. Crocifisso è chi ne manifesta la concordia oppositorum – oltre ogni astratto dualismo, ogni intellettualistica gnosi. Crocifisso è il pellegrino, che questa Via delle vie percorre infaticabile – ma per super-vincere quelle che «aprono» alla morte, alla distruzione, e che tuttavia, lui sa bene, destinate nel tempo che resta, e cioè nella storia, a rimanere aperte. La sua decisione mostra la possibile salvezza. Se 1’assicurasse, la Croce diverrebbe un quieto fondamento, su cui super-stare, superstizioso idolo. O statica icona per fedi negligenti.

Non medita forse esattamente su questo anche la tradizionale Via Crucis? Si tratta di una meditazione sul simbolo di radicale kenosi e insuperabile ascesa, di mortale ferita e divinità del Logos, di umiliazione e gloria.

L’essere comune delle vie. La Croce lo indica all’incrocio dei suoi bracci, ma, ancor più, attraverso quel corpo che lo nasconde. Nel punto del loro corrispondersi le vie della Croce non fanno segno soltanto alla necessaria decisione tra l’innalzarsi doloroso del Calvario, lo sprofondarsi nel suo opposto, l’obbedienza al secolo, ma al silenzio dell’Uno, che accoglie in sé ogni determinazione. La figura del Crocifisso non è soltanto presenza reale che si innalza, che si eternizza, passato che si infutura e, insieme, grido dell’abbandono, che è memoria in sé dei tormenti e dei dubbi di una vita integralmente vissuta. È anche figura della tensione inesauribile, del trascendersi infinito dell’esserci all’Uno che ogni luce, ogni contraddizione, tutti i logoi debbono presupporre.

Se le vie che sono la Croce non «immaginano» tutto ciò, la grande Icona fallisce. Allora la Via della Croce non diviene che una narrazione intorno al sacrificio di un «buono», uno degli innumerevoli racconti intorno all’ingiustizia che produce e domina la storia. Ma con ciò non si potrebbe mai dar ragione al fatto che l’evento di quella Croce ha segnato il cuore di un’intera civiltà. Per spiegarselo occorrerà forse interrogare in questa direzione: il Calvario, la sua via non è l’itinerario diritto che va dalla miseria alla luce, ma la domanda tragica sulla loro unità, superiore ad ogni phantasia la Via sono le vie che si contraddicono tra vita e morte «irradiate» dall’Uno; il sacrificio non è quello di un maestro o di un «buono», ma del Logos che è Dio.
Massimo Cacciari

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