Clicca

“Mediterranea 2010- voci tra le sponde”: ciclo di incontri a Palazzo Ducale Intervento di Enzo Bianchi, priore di Bose (Paola Radif - Il Cittadino)

stampa la pagina
All’interno del percorso di “Mediterranea 2010- voci tra le sponde” organizzato dalla Fondazione Cultura del Comune di Genova sul tema dell’identità, si colloca l’intervento di Enzo Bianchi che nella sala del Maggior Consiglio al Ducale ha anche presentato il suo ultimo libro: “L’altro siamo noi.”
Il problema dell’immigrazione, dell’accoglienza dell’altro, che l’occidente è chiamato ad affrontare in misura sempre più pressante, è dentro al cuore di Enzo Bianchi fin dalla giovinezza. Ad esso riporta il nome stesso del Mediterraneo, che dà il titolo al ciclo di incontri. Mare Nostrum, quel mare che così chiamavano i latini,continua a essere nostro, come ha rilevato la giornalista di Rai 3, Gabriella Caramore in apertura, e tuttavia non nostro in senso comunitario bensì elitario, in quanto luogo esclusivo di chi ha imposto i propri modelli.
Percorrendo spesso questo mare, “che ogni volta porta la promessa del dialogo e dell’accoglienza reciproca”, il pensiero, ha detto il relatore, va a quelli che su quel mare hanno cercato una soluzione ai loro problemi e vi hanno trovato la morte. Ad essi è dedicato il libro.
Certo, ha proseguito, l’immigrazione non è un fenomeno nuovo, ma nuova è la convergenza simultanea di popolazioni diverse che ci provoca e ci fa dire:”Perché vengono da noi? Perché non se ne stanno a casa loro? Che cosa ne sarà del nostro modo di vivere e di convivere?”
La prima risposta, molto semplice, può essere questa: “Non è il pane che corre verso i poveri, ma sono i poveri che corrono verso il pane.” Se poi scendiamo nei dettagli, troviamo tanti motivi che spingono milioni di persone a lasciare il proprio paese; povertà, fame, insicurezza, violenza politica. Pensiamo alle minoranze osteggiate costrette a fuggire in occidente, non ultimi i cristiani che ad esempio in Irak sono oggi l’11% di quello che erano prima della 1° guerra del Golfo. C’è poi anche il sogno di allontanarsi dalle condizioni in cui ci si trova nei Paesi ex comunisti dell’Europa orientale, come Albania, Romania ecc., inseguendo il mondo luccicante che viene presentato in televisione.
Citando le parole pronunciate in passato da un segretario dell’ONU, Enzo Bianchi ha precisato: “I migranti hanno bisogno dell’Europa, ma l’Europa ha bisogno dei migranti, perché abbiamo bisogno della loro presenza per aumentare il benessere ed è un fatto che certi lavori i nativi dei nostri Paesi non li vogliono più fare.
Ma, per andare a fondo nell’indagare il problema, ci si chiede: “Che cosa nasce in me di fronte allo straniero, quando mi accorgo che era lontano e me lo trovo vicino, ha una cultura che non conosco, una lingua che non capisco?” Ciò che nasce spontaneamente davanti allo straniero è la paura, che va fronteggiata, razionalizzata per capirla, vincerla e governarla. C’è però anche la sua paura, perché arriva in un mondo estraneo che non gli garantisce alcuna protezione: sono due paure a confronto.
Ogni identità si forma storicamente ed è in costante divenire; si costruisce nell’incontro ed è tanto più ricca quanto più è costituita da tanti contributi. Anche l’identità cristiana è un tessuto di molti fili di molti colori. E osservando che “ci sono risorgenti nazionalismi in tutta Europa e tendenze localistiche che si affermano in Italia”, il priore di Bose ha ammonito: “Quando s’imbocca la strada dell’autoisolamento e dell’intolleranza, questo germe entra dovunque, anche nelle case e nelle famiglie, e non si ferma più perché finisce per non avere più barriere né confini.”
Incontrare l’altro e relazionarsi con lui, allora, come è possibile? Si parla di 3 milioni e mezzo / 4 milioni di immigrati regolari in Italia, il che vuol dire uno ogni 15-20 abitanti locali. Ci sono tre modalità. In primo luogo quella dell’assimilazione, che prevede che lo straniero si conformi in tutto al Paese che lo ospita e questo postula la negazione della sua differenza. C’è poi l’inserzione, cioè vivere gli uni accanto agli altri mantenendo la propria identità, ma rimanendo degli sconosciuti, nella totale indifferenza: e questa è la modalità forse più diffusa in Italia. C’è infine l’integrazione, che è un riconoscimento reciproco in una logica di uguaglianza, senza che l’altro sia ridotto a me.
“L’integrazione – ha proseguito Enzo Bianchi – è a doppio senso, perché cerca un avvenire comune, nel rispetto delle leggi dello Stato.”
Naturalmente si tratta di apprestare le condizioni per l’accoglienza, predisponendo un cammino perché chi arriva possa conoscere la nostra storia, cultura, lingua. Il tutto va fatto con una carità intelligente perché – ha sottolineato – “la carità se non è intelligente è disastrosa.” L’accoglienza, infatti, è altra cosa dal soccorso di emergenza, prevede anche di trovare forme giuridiche che riconoscano pari dignità e offrano spazi in cui ci sia corresponsabilità.
Guardando allo straniero, che prima di essere uomo, donna, bambino, vecchio, credente o no, è essenzialmente uomo, occorre esercitarsi a desiderare di ricevere da lui, accettare di imparare la sua cultura. Ci si deve mettere in ascolto, ascolto arduo, che sollecita la nostra responsabilità, ma non è passivo quando ho la volontà di compiere un atto creativo che suscita fiducia. Il prossimo è colui che io decido di rendere vicino: così le nostre differenze finiscono per perdere la loro assolutezza, ci si apre al racconto che lo straniero fa di sé, che ci aiuta anche a capire noi stessi.
Eccoci allora al dialogo, all’esperienza di intercomprensione. “Dialogare non è annullare le differenze, ma far vivere le differenze allo stesso titolo delle convergenze.” Si aprono strade inesplorate ed è la fecondità delle differenze che mi ricorda il mio ruolo: “Io sono nella misura in cui sono responsabile dell’altro”, come scriveva il filosofo francese di origine lituana Emmanuel Lèvinas.
E guardando al vangelo, ricordiamo che “Dio non può essere detto senza la parola uomo”, perché dopo che Dio in Gesù Cristo si è fatto uomo, ogni uomo ci rimanda a Dio.
Oggi è in crisi l’atto del credere, in generale. Non si crede più nell’uomo, nel futuro, nella società, perciò tanto più è in crisi la fede in Dio.
Sulle nostre strade noi incontriamo l’uomo, in cui la povertà, la malattia, l’handicap non è che un aspetto. Ma l’uomo è più grande dell’handicap che porta in sé. Gesù incontrava l’uomo nella sua ricchezza di persona, al di là della sua fragilità e dei suoi limiti: e lo chiamava per nome.
                                                                                                                   Paola Radif

Fonte: Il Cittadino
stampa la pagina



Gli ultimi 20 articoli