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COMMENTO PATRISTICO XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (C) (da Undicesima Ora)

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S. LEONE MAGNO


dal Discorso V, 1-4
 

Quale opera è tanto idonea alla fede e tanto conveniente alla pietà come dare aiuto ai poveri indigenti, prendersi cura degli infermi, soccorrere alle necessità dei fratelli e ricordarsi della propria condizione vedendo gli altri tribolare?
Comprende con certezza quanto uno possa e quanto non possa in quest’opera soltanto Dio che sa quel che ha dato e a chi l’ha donato. Infatti, non solo le ricchezze spirituali e i doni celesti si ricevono da Dio, ma anche le sostanze terrene e corporali provengono dalla generosità di lui. Giustamente dunque, egli chiederà conto di queste ricchezze, che ha donato non tanto perché si posseggano, quanto perché si distribuiscano. Bisogna servirsi dei doni di Dio con giustizia e sapienza, affinché la materia delle opere buone non diventi occasione di peccato.
Le ricchezze, quanto alla loro natura e sostanza, sono buone, e giovano molto all’umana società quando sono possedute da persone benigne e generose, e non sono disperse da chi è lussurioso né occultate da chi è avaro, perché esse periscono tanto se sono radunate viziosamente, quanto se sono pazzamente spese.
Sebbene meriti lode fuggire l’intemperanza ed evitare i danni dei disonesti piaceri, e d’altra parte, molti di animo magnifico, sdegnino occultare le proprie facoltà che ricevono in abbondanza, e abbiano in orrore l’umile e sudicia grettezza, tuttavia non è felice l’abbondanza, né è da approvarsi la frugalità, se le loro ricchezze sono utili a essi soltanto; se con i loro beni non è aiutato il povero né viene sollevato l’ammalato; se dall’abbondanza delle ricchezze lo schiavo non riceve la libertà, il pellegrino non esperimenta l’aiuto né l’esule sente il vantaggio.
I ricchi di tale fatta sono più miseri di tutti i poveri. Essi perdono quei redditi che potrebbero avere in perpetuo; e, mentre si occupano in affari di breve durata né sempre liberi, da nessun cibo di giustizia e da nessuna dolcezza di misericordia sono alimentati.
All’esterno sono splendidi, nell’interno sono abietti; abbondano di beni temporali, ma sono poveri degli eterni: abbandonano alla fame la loro anima e la disonorano con la nudità, perché dei beni, custoditi nei granai terreni, nulla hanno trapiantato nei celesti tesori.
Forse vi sono alcuni ricchi che, non soliti ad aiutare con i loro doni i poveri della Chiesa, osservano gli altri comandamenti e, tra i molti meriti della fede e della buona condotta, giudicano cosa leggera che a essi manchi una virtù. Veramente questa virtù è così importante, che le altre, senza di essa, non possono giovare. Infatti, benché uno sia fedele, casto, sobrio e ornato di altre splendide virtù, se egli non è misericordioso, non merita misericordia.
A proposito dice il Signore: Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia (Mt 5, 7). Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua maestà, assiso nel trono della sua gloria, e tutte le genti saranno radunate e saranno separati i buoni dai cattivi, di che saranno lodati quelli che sono alla destra se non delle opere di benevolenza e degli uffici caritativi che Gesù Cristo riterrà come fatti a se stesso? Invero egli facendosi uomo non ha rigettato in nessuna cosa l’umile condizione umana! A quelli di sinistra poi che cosa apporrà se non la negligenza nell’amore, la durezza disumana, e il loro rifiuto di usare misericordia ai poveri? Sembra quasi che quelli di destra non abbiano altre virtù, né quelli di sinistra altri peccati. Ma in quel grande e sommo giudizio la misericordiosa generosità e la malvagia avarizia sarà stimata rispettivamente come la perfezione di tutte le virtù e come l’insieme di tutti i peccati, tanto che per quelle opere buone gli uni saranno introdotti nel regno e, per quel peccato, gli altri saranno condannati al fuoco eterno.
Dunque, dilettissimi, nessuno si lusinghi dei meriti di una vita buona, se gli mancano le opere caritative; non sia sicuro della purezza del suo corpo chi non si purifica con le elemosine. Infatti le elemosine distruggono i peccati, sterminano la morte ed estinguono la pena del fuoco eterno. Ma chi sarà privo del frutto delle elemosine, sarà lontano dalla indulgenza di Dio remuneratore; dice, infatti, Salomone: “Chi distoglie la sua attenzione per non udire l’infermo, anche egli invocherà il Signore e non ci sarà chi l’esaudisce” (cfr. Pr 28, 9; 3, 28). Per questo Tobia, inculcando al suo figlio i precetti della pietà, dice: Dà dei tuoi beni in elemosina e non distogliere la tua faccia da nessun povero, e così neppure Dio allontanerà da te la sua protezione (4, 7).
Questa virtù fa sì che tutte le altre virtù siano utili; anzi con la sua presenza rende viva altresì la fede, di cui il giusto vive, e che senza le opere è detta morta (Gc 2, 26). Infatti, come nella fede è la regola delle opere, così nelle opere è la fortezza della fede. Come dice l’Apostolo: Finché abbiamo tempo, facciamo del bene a tutti, ma specialmente ai nostri fratelli di fede (Gal 6, 10). E non ci stanchiamo mai di fare il bene, perché, se non ci stanchiamo, a suo tempo mieteremo (ib. 9). Sì, la vita presente è il tempo della semina; il giorno della retribuzione il tempo della mietitura, quando ciascuno riceverà i frutti secondo la quantità della sua semente. Nessuno sarà deluso dal provento di tale messe, perché lì si pondererà più la disposizione dell’animo che il valore del dono, e tanto piccolo si assegnerà il premio per le piccole opere buone, quanto grande sarà il compenso per i grandi atti di pietà.

Dal Sussidio biblico-patristico per la liturgia domenicale, a cura di don Santino Corsi, ed. Guaraldi
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