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È nelle città che Dio mette la tenda (Enzo Bianchi)

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Ogni città è insieme Babilonia e Gerusalemme. Il messaggio biblico insegna che in esse le chiese non sono solo luoghi di culto: trasformano in realtà l’idea che siano metafore della presenza della Chiesa di Dio nelle comunità degli uomini.

Come celebrare oggi nelle città così ricche di novità? Come progettare nuove chiese nelle città intensamente segnate dalla mobilità, dalla multiculturalità e dalla compresenza di molteplici confessioni e religioni? Come utilizzare al meglio, rispondendo alle sfide di oggi, il patrimonio di chiese e di insediamenti ecclesiali ereditati dalla storia? Quali opportunità si presentano per l’uso pastorale e culturale delle chiese nei centri storici? Quali chiese conservano ancora e addirittura aumentano il loro significato nei centri storici europei? Che cosa significa progettare, costruire e celebrare in paesi e città in cui i cristiani sono minoranza?

Porsi questi interrogativi è non solo necessario ma doveroso, nella misura in cui si comprende che la più elementare manifestazione pubblica della Chiesa sono quelle chiese che essa edifica al cuore delle città. Ma una chiesa la si edifica in una città affinché essa sia Chiesa per quella città, perché la città è sempre la destinataria della presenza della chiesa e mai un semplice mezzo e tanto meno un mero strumento. Non c’è chiesa senza città perché la salvezza di Dio in Cristo è sempre propter nos homines. Questa è la ragione per la quale la Chiesa di Dio non è mai stata e non potrà mai essere una realtà apolide.

Vi è un messaggio biblico sulla città che, se compreso nella sua interezza, è certamente una fonte di senso anche per conoscere il ruolo dell’edificio “chiesa” in una città. Se la città nei testi biblici appare in alcuni casi sotto un giudizio negativo, se si registra qua e là diffidenza verso il suo sorgere e il suo attestarsi come forma di vita umana sociale, non è tuttavia intravista in opposizione a una vita nomade o agreste di segno positivo. In profondità, la Bibbia non oppone civiltà urbana negativa a civiltà pastorale-agreste positiva.

Il primo delitto si è verificato presso un altare quale omicidio tra due culture, quella pastorale e quella agricola, rappresentate da Abele e Caino, e con il sorgere della città il peccato è soltanto diventato più epifanico. La prima volta che compare la parola “peccato” nella Bibbia è in Gen 4,7, e il luogo del peccato è il cuore dell’uomo, non certo la città o la campagna! Il mancato dominio sul proprio cuore avviene già ben prima della costruzione della città!

Certo, Caino diventò costruttore di una città (cfr Gen 4,16-17), ma non è l’omicidio la causa della costruzione delle città sulla terra. La città, e noi non possiamo dimenticarlo, è sorta per proteggere l’umanità stessa e favorire processi di umanizzazione.

Certamente l’identità che la città fornisce agli uomini è un’identità dinamica, costantemente ricostruita e rinnovata, dunque in continuo processo di mutamento, perché essa esercita una forza centripeta capace di attirare tutti e, quindi, anche il diverso, lo sconosciuto, lo straniero. La città – sempre chiamata a tenere aperte le sue porte, ad accogliere, se non vuole trasformarsi in cittadella assediata – ha una vocazione al riconoscimento dell’altro, sconosciuto e inatteso, una vocazione alla pluralità e alla complessità.

Le differenze sono disorientanti, la “stranierità” incute paura, lo sconosciuto facilmente è percepibile come nemico, ma la città non può evitare queste emergenze: ne va della sua vocazione. Per essere tale, la vita della città abbisogna di quest’arte dell’apertura, del riconoscimento, della capacità d’integrare il nuovo e il diverso, per instaurare un’ulteriore unità, una nuova solidarietà, un’inattesa comunità che costituiscono un arricchimento della polis.

Sì, la città va anche letta positivamente, e non ha alcun senso la nostalgia di un mondo senza città, non ha senso la fuga urbis che a molti cristiani appare la forma moderna della fuga mundi, come se il cristiano non portasse la mondanità dentro di sé ovunque abiti… La verità è che la città, rappresentazione dell’umanità tutta nella sua socialità, come le altre “opere” delle nostre mani può essere da noi costruita nell’autosufficienza da Dio, nell’ingiustizia tra noi uomini, financo nell’uccisione del fratello: può essere costruita in vista del dominio e del totalitarismo.

Ogni città è insieme Babilonia e Gerusalemme, e per questo è parabola dell’umanità nella sua dimensione sociale, collettiva: è la nostra città, Babel ieri, e poi Ninive, quindi Roma, Berlino, Mosca, New York… La nostra città oggi è città secolarizzata, molteplice, eterologa, luogo comune di tutti, campo della vita pubblica, spazio in cui trovare i valori comuni.

Qui s’incontrano e si scontrano uomini e donne cristiani, non cristiani, non credenti, che devono trovare il modo di dare alla città un ordine, un volto in nome di un umanesimo che afferma che ciò che fa l’uomo è l’uomo! Certamente, nella nostra città sono presenti anche la violenza, l’odio e soprattutto il misconoscimento, la dimenticanza, l’ignorare chi sta alle soglie della città o addirittura sullo stesso pianerottolo del nostro medesimo condominio…

Ma è in questa città, e non in un’altra immaginaria, che anche i cristiani vivono! Ricordiamo l’A Diogneto: «I cristiani non abitano città loro proprie abitano città greche o barbare, come a ciascuno è toccato in sorte», e dunque stanno nella polis, ne fanno parte, sono cittadini e, senza esenzioni e in solidarietà con gli altri uomini, possono decidere di assecondare la costruzione di una città come Babel oppure tentare di edificare la città con un altro volto.

Tra la prima città, il cui nome è Enoch, figlio di Caino (cfr Gen 4,17), e la città promessa da Dio, il cui nome è “il Signore è là” (cfr Ez 48,35), c’è un cammino da compiere da parte dell’uomo: un cammino lungo e tortuoso nella storia, ma un cammino che può predisporre quanto è necessario alla discesa della città celeste il cui nome è “sposa dell’Agnello” (cfr Ap 21,9).

Il messaggio biblico sulla Città c’invita a pensare che progettare ed edificare una chiesa non significa semplicemente dotare la comunità cristiana di un luogo di culto, ma significa trasformare in realtà l’idea che ogni chiesa è metafora della presenza della Chiesa di Dio nella città degli uomini, in quanto la Chiesa si rende pubblica e si rappresenta nelle sue chiese che sono forma alta e altra di linguaggio.

Disseminate nel tessuto urbano, nelle piazze o lungo le strade, le chiese sono l’immagine al tempo stesso della prossimità e dell’alterità di ciò di cui sono segno. Più sono luoghi di bellezza e più testimoniano un ethos che ispira e plasma relazioni belle e legami umani buoni, così che non solo per i cristiani ma per i credenti di ogni religione costruire i propri luoghi di culto significa partecipare alla costruzione etica di una città.

Accanto ai luoghi e agli spazi pubblici e in mezzo alle case degli uomini, le chiese rivelano lo stile della presenza dei cristiani nella società che è sempre al tempo stesso vicinanza nella differenza e presenza nella diaconia, nella logica della piena comunione e mai della separazione o peggio ancora della contrapposizione. La facciata di una chiesa è il volto della Chiesa che nella prossimità agli uomini dice accoglienza, dono gratuito, condivisione e consolazione.

Se sono questo, le chiese sono il sacramento della presenza di Dio in mezzo agli uomini. Ogni uomo, sia esso credente o cercatore di senso, potrà così far sue le parole del testo biblico che la liturgia canta nel rito di dedicazione di una chiesa: «Locus iste a Deo factus est, inestimabile sacramentum» (4Esd 8,21), «questo luogo è stato fatto da Dio, è sacramento che supera ogni valore».

IN LIBRERIA DA MARTEDÌ 16
L’intervento di Enzo Bianchi che proponiamo in questa pagina è contenuto nel bimestrale dell’Università Cattolica «Vita e Pensiero», in libreria da martedì 16 marzo.

Fonte: Bibbiablog
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